Cerco insieme a voi in questa domenica di superare quell’antipatia immediata che suscita il fariseo della parabola.
In fondo è un uomo giusto e non ha nulla davvero da rimproverarsi. Mentre parla di sé racconta il suo pieno rispetto per i Dieci Comandamenti; digiuna anche due volte a settimana, quanto cioè la Legge richiedeva a chi fosse incappato, suo malgrado, in qualche peccato; è un uomo generoso perché offre la sua decima ben oltre quanto prescritto. Sì, forse, poteva risparmiarsi la critica al pubblicano e poteva non scadere nel giudizio. In questo non possiamo che dare ragione a Paolo mentre invita i suoi a non giudicare nessuno, a non sostituirsi a Dio. Ma questo fariseo è un uomo davvero impeccabile! Eppure Gesù ci dice che torna a casa sua non giustificato.
Il pubblicano invece, in fondo al Tempio, come potrebbe alzare lo sguardo? Forse era un ladro, forse un omicida o un adultero. Biascica una preghiera ingenua e scontata. Eppure Gesù dice di lui che se ne torna a casa giustificato, ascoltato, benedetto, perdonato. Ma basta così poco per essere perdonati da Dio? Se le cose stanno così non possiamo che dedurre che Dio è ingiusto! Preferisce chi sbaglia a chi si impegna con rigore ad essere giusto! E di conseguenza, che senso ha sforzarsi tanto per essere giusti se poi Dio ha un parametro di giudizio così paradossale!
Lasciamo che questa parabola ci bruci sulla pelle e proviamo per questo a darne un’eco.
Quante volte mi è capitato di sentir dire da molti che, in oratorio, bisogna lasciar perdere quei ragazzi in difficoltà per occuparci invece di chi ci crede seriamente, di chi dimostra interesse per un autentico cammino di fede. Quante volte mi sono sentito dire che non vale la pena impegnarsi ad essere moralmente irreprensibili se poi Dio perdona con estrema facilità e per lui un peccatore pentito vale più di molti giusti che non hanno bisogno di conversione. Quante volte anche noi, di fronte a vere e proprie storie di conversione, siamo diffidenti, addirittura amareggiati e scontenti, pensiamo che, in fondo, non sia vero, preferiamo tacere e aspettare un segno che confermi il nostro pregiudizio.
Ma torniamo ora alla questione centrale: davvero Dio sottovaluta lo sforzo del fariseo di restare onesto? No. Dio sa la fatica e l’impegno che ci mettiamo per essere suoi figli, immagine di Gesù, creature obbedienti. Comprendiamo allora che non hanno senso quelle considerazioni sull’inutilità di compiere il bene: il bene vale in sé, non si fa per una retribuzione, ci rende felici quando lo compiamo. Il vero bene poi nasce dall’incontro con il Dio dell’Amore, da quel desiderio di essere come lui sempre. Il limite del fariseo è di perdersi in un monologo, di dimenticare ad un certo punto della sua preghiera che è a Dio che deve tutto quello che ha costruito. Il suo limite è di voler bastare a se stesso. Di essere autonomo, autosufficiente, di credere di essere salvato per uno sforzo suo. D’altra parte invece il pubblicano vive l’esperienza di una preghiera autentica. Si affida a Dio, si getta ai suoi piedi perché sa di essere accolto, compreso, ascoltato e perdonato. Lascia che Dio sia tale nei suoi confronti e si lascia raggiungere dal suo Amore che tutto copre. Sono convinto che, fuori da quel Tempio, la giustificazione ricevuta avrà scatenato, come in una reazione a catena, il pentimento e poi mille e più gesti per ripagare il torto fatto e poi ancora l’impegno serio di fare solo il bene.
Penso che la lettura del Vangelo di quest’oggi abbia almeno due consegne da darci. La prima è quella di evitare l’atteggiamento del fariseo e vivere l’umiltà di chi sa che noi non siamo nulla senza Dio e che Dio è tale perché si rivela forza nella nostra debolezza, orizzonte aperto nelle nostre chiusure, Amore imprevedibile nei nostri egoismi. È un invito fare della nostra preghiera un rendimento di grazie per il bene che riusciamo a fare ma solo per Grazia. La seconda consegna nasce invece dall’atteggiamento del pubblicano. In particolare vorrei rivolgermi a chi fra noi si sente peccatore, ferito dalla vita, a chi si lacera in un senso di colpa intollerabile, a chi sa di aver sbagliato e si sente inchiodato ai suoi errori, a chi sente su di sé il giudizio di qualcun altro, magari anche della Chiesa, ma più ancora non crede più in se stesso. Non abbiate paura! Coraggio! Il nostro Dio è perdono. Non è giudice implacabile ma compagno di viaggio. Dio ha mille e più sentieri per raccoglierci dove siamo caduti. Il suo fare è di Padre che ci schioda dai nostri errori e ci dà la forza e il coraggio di affrontare nuovamente la vita. Ai suoi occhi noi siamo più dei nostri errori perché siamo suoi figli. Proviamo allora a rileggere la prima lettura in questa settimana che ci separa dalla Quaresima, da questo tempo di grazia in cui siamo chiamati a migliorarci a partire però non tanto dai nostri sforzi ma dalla certezza del perdono. Sentiamo che questa è una dichiarazione d’amore che ci viene offerta senza meriti. Chi rimane fedele all’Alleanza è sempre e comunque Dio e su questo amore possiamo scommetterci seriamente.
In fondo è un uomo giusto e non ha nulla davvero da rimproverarsi. Mentre parla di sé racconta il suo pieno rispetto per i Dieci Comandamenti; digiuna anche due volte a settimana, quanto cioè la Legge richiedeva a chi fosse incappato, suo malgrado, in qualche peccato; è un uomo generoso perché offre la sua decima ben oltre quanto prescritto. Sì, forse, poteva risparmiarsi la critica al pubblicano e poteva non scadere nel giudizio. In questo non possiamo che dare ragione a Paolo mentre invita i suoi a non giudicare nessuno, a non sostituirsi a Dio. Ma questo fariseo è un uomo davvero impeccabile! Eppure Gesù ci dice che torna a casa sua non giustificato.
Il pubblicano invece, in fondo al Tempio, come potrebbe alzare lo sguardo? Forse era un ladro, forse un omicida o un adultero. Biascica una preghiera ingenua e scontata. Eppure Gesù dice di lui che se ne torna a casa giustificato, ascoltato, benedetto, perdonato. Ma basta così poco per essere perdonati da Dio? Se le cose stanno così non possiamo che dedurre che Dio è ingiusto! Preferisce chi sbaglia a chi si impegna con rigore ad essere giusto! E di conseguenza, che senso ha sforzarsi tanto per essere giusti se poi Dio ha un parametro di giudizio così paradossale!
Lasciamo che questa parabola ci bruci sulla pelle e proviamo per questo a darne un’eco.
Quante volte mi è capitato di sentir dire da molti che, in oratorio, bisogna lasciar perdere quei ragazzi in difficoltà per occuparci invece di chi ci crede seriamente, di chi dimostra interesse per un autentico cammino di fede. Quante volte mi sono sentito dire che non vale la pena impegnarsi ad essere moralmente irreprensibili se poi Dio perdona con estrema facilità e per lui un peccatore pentito vale più di molti giusti che non hanno bisogno di conversione. Quante volte anche noi, di fronte a vere e proprie storie di conversione, siamo diffidenti, addirittura amareggiati e scontenti, pensiamo che, in fondo, non sia vero, preferiamo tacere e aspettare un segno che confermi il nostro pregiudizio.
Ma torniamo ora alla questione centrale: davvero Dio sottovaluta lo sforzo del fariseo di restare onesto? No. Dio sa la fatica e l’impegno che ci mettiamo per essere suoi figli, immagine di Gesù, creature obbedienti. Comprendiamo allora che non hanno senso quelle considerazioni sull’inutilità di compiere il bene: il bene vale in sé, non si fa per una retribuzione, ci rende felici quando lo compiamo. Il vero bene poi nasce dall’incontro con il Dio dell’Amore, da quel desiderio di essere come lui sempre. Il limite del fariseo è di perdersi in un monologo, di dimenticare ad un certo punto della sua preghiera che è a Dio che deve tutto quello che ha costruito. Il suo limite è di voler bastare a se stesso. Di essere autonomo, autosufficiente, di credere di essere salvato per uno sforzo suo. D’altra parte invece il pubblicano vive l’esperienza di una preghiera autentica. Si affida a Dio, si getta ai suoi piedi perché sa di essere accolto, compreso, ascoltato e perdonato. Lascia che Dio sia tale nei suoi confronti e si lascia raggiungere dal suo Amore che tutto copre. Sono convinto che, fuori da quel Tempio, la giustificazione ricevuta avrà scatenato, come in una reazione a catena, il pentimento e poi mille e più gesti per ripagare il torto fatto e poi ancora l’impegno serio di fare solo il bene.
Penso che la lettura del Vangelo di quest’oggi abbia almeno due consegne da darci. La prima è quella di evitare l’atteggiamento del fariseo e vivere l’umiltà di chi sa che noi non siamo nulla senza Dio e che Dio è tale perché si rivela forza nella nostra debolezza, orizzonte aperto nelle nostre chiusure, Amore imprevedibile nei nostri egoismi. È un invito fare della nostra preghiera un rendimento di grazie per il bene che riusciamo a fare ma solo per Grazia. La seconda consegna nasce invece dall’atteggiamento del pubblicano. In particolare vorrei rivolgermi a chi fra noi si sente peccatore, ferito dalla vita, a chi si lacera in un senso di colpa intollerabile, a chi sa di aver sbagliato e si sente inchiodato ai suoi errori, a chi sente su di sé il giudizio di qualcun altro, magari anche della Chiesa, ma più ancora non crede più in se stesso. Non abbiate paura! Coraggio! Il nostro Dio è perdono. Non è giudice implacabile ma compagno di viaggio. Dio ha mille e più sentieri per raccoglierci dove siamo caduti. Il suo fare è di Padre che ci schioda dai nostri errori e ci dà la forza e il coraggio di affrontare nuovamente la vita. Ai suoi occhi noi siamo più dei nostri errori perché siamo suoi figli. Proviamo allora a rileggere la prima lettura in questa settimana che ci separa dalla Quaresima, da questo tempo di grazia in cui siamo chiamati a migliorarci a partire però non tanto dai nostri sforzi ma dalla certezza del perdono. Sentiamo che questa è una dichiarazione d’amore che ci viene offerta senza meriti. Chi rimane fedele all’Alleanza è sempre e comunque Dio e su questo amore possiamo scommetterci seriamente.