sabato 21 novembre 2009

II di Avvento

Ma in fondo che differenza c’è fra chi crede e chi non crede? Tutti siamo gettati nella storia, veniamo dal buio dei tempi e la nostra vita va inesorabile verso un enigma irrisolvibile. Dobbiamo faticare per vivere, lottare, trovare scorciatoie per gustare la felicità, sempre più rara, sempre più a caro prezzo, parentesi esigua in un mare di difficoltà, angoscia e di sofferenza. E l’esistenza di Dio cosa aggiunge a tutto questo, cosa cambia a questa eterna lotta per sopravvivere?
Vivere come se Dio non ci fosse: questa è la tentazione anche per i credenti. Noi ogni domenica ci ritroviamo per spezzare il Pane, dopo aver ascoltato una Parola che è per noi fin dai secoli eterni, siamo in una comunità che dice di trovare nel Risorto il suo cuore ardente e offre la gioia e il perdono come un sostegno alla vita di ognuno, attendiamo il Regno e pronunciamo, per esempio nel Credo, parole di speranza capaci di far trasalire il mondo ma poi, fuori di qui, nella nostra vita spesso non cambia nulla. Penso che possiamo senza timore in questa seconda tappa di Avvento, che mette a tema le caratteristiche dei figli del Regno, lasciarci andare a queste considerazioni. È vero: noi siamo uomini incarnati nella nostra storia, non possiamo esimerci dal vivere nella nostra cultura che esaspera l’attimo presente, cancella la storia svuotandola di significato, teme il futuro e preferisce non guardarlo; noi ci sentiamo come tutti barcollare nella ricerca di una Verità spesso distante; siamo sempre sul crinale dell’angoscia ma c’è un di più per la nostra vita che dobbiamo accogliere e che si nasconde proprio nella nostra fede. C’è un tratto nel nostro cuore che ad un certo punto emerge, che sta in noi come una brace non ancora spenta che all’improvviso si avvampa di nuova forza, ed è la certezza che Dio, dal profondo silenzio dei secoli, è comparso sullo scenario della Storia e ha camminato in mezzo a noi aprendoci un nuovo orizzonte di senso, una possibilità di vivere, per esempio secondo il Vangelo delle Beatitudini, in modo radicalmente nuovo, è la certezza di non essere abbandonati, che tutto è nelle sue mani e anche noi non siamo dimenticati ma ricercati, voluti bene per quello che siamo, presi nel palmo della sua mano. Non siamo più uomini che a tentoni cercano di comprendere il Mistero di Dio, siamo persone visitate dall’alto, sorpresi dalla sua Grazia. I figli del Regno hanno nel cuore una gioia discreta che è frutto di una speranza antica e sempre nuova. Non è una maschera che ci poniamo con le nostre mani perché al primo colpo di vento dettato dalla sofferenza si spezzerebbe. La certezza dell’amore di Dio per noi sue creature può davvero cambiare tutto!
Proviamo allora a chiedere alla parola di questa domenica di suggerirci altri tratti dei figli del Regno.
Gli Assiri e gli Egiziani, ad est e ad ovest, spesso venivano a battaglia. Israele doveva compiere spesso la scelta di allearsi con gli uni contro gli altri e viceversa. Isaia annuncia il tempo della Riconciliazione, giorni in cui non solo i due popoli stipuleranno una pace ma abbracceranno la fede nell’unico Dio ed Israele sarà in mezzo a loro come un abbraccio di intercessione. I figli del Regno sono quelli che nei tempi della sofferenza, della battaglia, dello sconvolgimento guardano avanti con fiducia e sognano un orizzonte di pace; vedono i segni della primavera dove tutti vedono ancora l’inverno, vedono il rigonfiamento dei germogli sul ramo ancora secco; sanno che la storia, anche quella di ognuno, è in salita perché Dio è all’opera e allargano il loro cuore alla speranza e allo stesso tempo lottano, soffrono, intercedono per un mondo di pace, per una vita giusta e migliore.
Per dirla con Paolo, i figli del Regno sono quelli che penetrano i misteri di Cristo per illuminare ogni uomo. Non si può mettere una lampada sotto il lucerniere, diceva Gesù, perchè deve fare luce a tutti quelli che sono nella casa. I credenti non possono tenere fra le mani il dono di Grazia ricevuto perché presto si esaurirebbe: lo devono dividere e così si moltiplica: strana regola matematica! Significa che in ogni attimo della nostra vita noi siamo responsabili della gioia di chi ci circonda che non può prescindere dalla conoscenza di Cristo e della sua vita spezzata per noi.
E infine, secondo il Vangelo, i figli del Regno sono quelli che sanno che ha avuto inizio il vangelo di Cristo e la sua bellezza si dilata ancora oggi fra noi. Significa lasciarsi attrarre a colui che battezza in Spirito santo, ci fa trasalire e ci dona di entrare nella vita stessa di Dio. Ci sveste dell’uomo vecchio e ci dà il coraggio di essere eroi, santi, capaci di fare grandi cose, fosse anche di aggiungere una goccia d’acqua all’Oceano della Storia.

domenica 15 novembre 2009

I di Avvento

Inizia oggi un nuovo anno liturgico. L’anno Liturgico segna il tempo sacro nello scorrere del tempo ordinario, la Grazia della presenza di Dio nella debolezza della storia dell’uomo. Auguri perché la Parola che ascolteremo, i Santi Segni della Liturgia che incontreremo e il Pane che spezzeremo aumentino la nostra Fede e la Fede si trasformi presto in Carità così che possiamo essere davvero persone nuove, profumati di Vangelo, con in un cuore una grande speranza, con le mani piene di futuro. Sappiamo che il nuovo Lezionario ambrosiano è strutturato in 3 grandi cicli: il Mistero dell’Incarnazione, che parte con oggi e si compie prima della Quaresima. Il mistero della Pasqua del Signore che abbraccia la Quaresima e le settimane dalla Pasqua alla Pentecoste e poi il tempo della Pentecoste che va dalla da quella Festa fino a Cristo Re. Con oggi entriamo dunque nella prima parte del Mistero dell’Incarnazione, nel tempo di Avvento. Le letture di queste settimane ci aiuteranno a rivivere l’attesa del Messia da parte di tutto Israele: ci metteremo dunque in ascolto delle profezie antiche e diremo che questa attesa si è compiuta in Gesù. Ma non solo: l’Avvento, mentre ci prepara al Natale, ci aiuta a rimanere in attesa del compimento del Regno con il nuovo ritorno del Signore. Ci aiuta ad affinare quell’attesa definitiva del Risorto. Perché così come il Signore si è affacciato nella Storia rivelando il suo Volto e restando fedele alla sua Promessa ritornerà fra noie sarà festa!
Penso che l’Avvento ci consegni fondamentalmente questi tratti spirituali che vanno maturati ogni giorno nella preghiera che soprattutto in questo tempo deve farsi ascolto intenso e contemplazione ammirata:
- affinare il senso dell’attesa relativizzando il presente perché la luce del Risorto che tornerà già ora ci fa comprendere su cosa è necessario puntare la nostra vita e cosa invece non merita la nostra fatica. È un esercizio che ci libera da ogni ansia. Se si vive così quello che il mondo considera così importante, il potere, il successo e la ricchezza, in realtà non ha valore mentre solo l’amore conta.
- Relativizzare il presente al futuro però non significa fuggirlo, tradirlo, dimenticarlo. La vigilanza, che è il modo giusto di attendere il futuro, ci chiede di non sprecare nemmeno un attimo della nostra vita a imitazione di Cristo, cioè nell’amore e nella consegna di noi stessi ognuno con la sua vocazione.
- Avere nel cuore la certezza che il Padre mantiene sempre le sue promesse e quindi scoprirci figli amati, accuditi, circondati da ogni premura.
Il tema di questa domenica è la venuta del Signore. Le letture sono avvolte di un velo di castrofismo, richiamano l’imminente venuta del Signore come di un’ora di Giudizio ineluttabile, si fanno appello a restare fedeli all’Alleanza, ad essere nel presente figli della luce per essere riconosciuti e abbracciati da Dio. Vorrei soffermarmi in particolare sul brano del vangelo. Gesù coglie l’occasione per parlare dei tempi ultimi profetizzando la distruzione del Tempio e di Gerusalemme. Quando Luca scrive probabilmente tutto questo era già accaduto, e possiamo immaginare le reazioni di sconcerto, paura, il senso di sconfitta e anche di disperazione della comunità ebraica e anche di quella cristiana costrette ad abbandonare la propria terra e iniziare quel pellegrinaggio che si è protratto nei secoli, a sottostare a leggi di paesi culturalmente e religiosamente agli antipodi rispetto alla propria fede, a rischiare la vita per difendere le proprie radici. Ritrovare nelle parole di Gesù l’adempiersi della profezia doveva suscitare grande stupore, meraviglia, una luce. Se Gesù sapeva vuol dire allora che la storia non è dettata dal caso o dalle forze del male, che questo è un passaggio necessario, una crisi, una spaccatura con ciò che stava prima ma che fa da preludio ai tempi della stabilità del Regno. È possibile allora trovare speranza anche nei giorni della’marezza e dello sconforto, ritrovare dignità, alzare il capo e non guardare al cielo come ad un Nemico ma come ad un Dio che misteriosamente non ha smesso mai di accompagnarci e che ci prepara un futuro di pace. Senza questa contestualizzazione storica questa pagina rischia di essere incompresa. Ma cosa dice a noi in questo scorcio di inizio millennio. Forse che i tempi della distruzione, della violenza, della prova della fede, per cui ti trovi a pagare in prima persona se vuoi essere coerente con il Vangelo di Gesù, non sono ancora finiti, forse che i nostri giorni, come allora, sono preludio del Regno che certamente verrà. E più tarda a venire e più il cuore, di fronte alla scelta di raffreddarsi, invece deve raccogliere la sfida della vigilanza e tenersi caldo. Gli atteggiamenti che Gesù propone ai suoi valgono allora anche per noi e potremmo sintetizzarli con sue parole: il coraggio e la speranza.
Il credente è un uomo coraggioso, che guarda in faccia la storia, sa prendere posizione, sa discernere nel presente ciò che è giusto da ciò che è sbagliato al costo di pagare, di rimanere da solo, di affrontare a testa alta ogni sfida. Di più, il coraggio è l’agire del cuore (cor-agere), dunque significa non smarrire la propria anima, non svendere il proprio cuore, perseverare nell’amore pur fra mille paure. E poi la speranza. Questa forse è la cosa che contraddistingue più di ogni altro uomo il credente. La speranza infatti non è solo non cedere al pessimismo, non è un banale ottimismo ma è la convinzione che le cose non possono che andare bene perché chi ha in mano il timone della storia è il Dio della vita. La speranza è come una gioia discreta che nasce dal cuore e ti fa camminare con il sorriso mentre tutto attorno invita alla disperazione. La Speranza è ciò di cui più siamo a corto nel nostro mondo che è irrimediabilmente ripiegato sulle cose del presente e non sa più alzare lo sguardo. Il credente lo riconosci da come guarda le cose del presente e da come sa attendere il futuro in sé e negli altri.

sabato 7 novembre 2009

Cristo Re dell'universo

Non smetto mai di ricordare, quando celebriamo questa festa, la sua origine. È stato un vero e proprio azzardo quello di Papa Pio XI, in un tempo in cui regnavano i più terribili totalitarismi della storia, dire che l’unico vero Re è il Crocifisso Risorto, Gesù di Nazareth. Era una sfida aperta, conforme al suo carattere deciso e lucido, a chi aveva confuso il servizio della politica con il potere, a chi si era lasciato prendere dal delirio di onnipotenza, a chi pensava di potersi sostituire a Dio,a chi toglieva la libertà ai popoli in nome di una superiorità razziale e culturale, a chi pretendeva di lasciare un segno nella storia che poi si è rivelato essere morte, distruzione e violenza. E a distanza di quasi un secolo, oggi, possiamo dare ragione a questo grande Papa e dire che se tutto passa Cristo resta, che anche le ideologie apparentemente più forti hanno il loro tramonto, che tutto ciò che umano ha un inizio, si evolve e poi finisce. Rimane invece la Buona Notizia che Dio ha tanto amato il mondo da dare la vita del suo Figlio e che nell’abbraccio di quella Croce siamo anche noi raccolti dalle nostre strade disperse e diventati amici, addirittura familiari di Dio, con il cuore il segreto di un Regno in cui le coordinate di questo mondo vengono ribaltate e i piccoli sono resi grandi.
Ma c’è da dire che questa è anche l’ultima domenica dell’anno liturgico; si chiude un ciclo in cui il Signore ha spezzato in abbondanza il Pane della Parola e ci ha chiamati alla conversione e alla santità. Come per ogni stagione che si chiude, sarà importante in questa settimana fermarsi, trovare riposo nella preghiera per chiedersi cosa ne è stato di questo ascolto, quali passi abbiamo mosso in avanti per diventare più simili a Cristo e poi per lasciarsi sommergere dalla Misericordia per tutte le nostre distanze, le nostre incertezze, le nostre paure. Chiudere il tempo liturgico nel segno della regalità del Crocifisso Risorto è fare anche una professione di fede nella certezza che il nostro tempo non è destinato al nulla, il nostro mondo non va verso nessun annichilimento ma verso questo Signore che ha nelle sue mani il segreto del Tempo, i cardini della storia e prepara per noi un orizzonte definitivo di Pace. Il cristiano non può essere pessimista, è poco per lui essere anche ottimista: il cristiano vive già ora la Speranza del Regno e questo dona al cuore uno sguardo purificato su se stessi e sul mondo e anche una certa relativizzazione di tutto ciò che abbiamo attorno ma che sappiamo non essere la sola realtà. E così ci potranno essere avvenimenti che ci scandalizzano, che ci turbano, che ci toglieranno qualche volta il sonno ma mai nulla che distrugga la nostra pace, un po’come il mare che spesso è sconvolto da grandi tempeste ma solo in superficie perché nei fondali regna la calma più assoluta.
E ora veniamo alle letture che la Liturgia di quest’oggi ci propone. Il cuore è la scena della crocifissione e il perdono offerto al ladro e da qui le parole di Paolo che si fanno canto per un Signore che in modo del tutto inaspettato si è inabissato nella profondità della nostra umanità fino a toccare il punto più basso e che Dio ha risollevato nella Risurrezione, come un sì che lo ha tratto dalla morte perché l’amore non può avere fine, perché l’amore vince sopra tutto. E poi fa eco alla vicenda di Cristo la profezia del servo sofferente di Isaia che ha reso nella debolezza il suo messia segno di salvezza per Israele e luce per tutte le nazioni.
È un re strano quello che ci propone l’affresco della Parola e non smetteremmo mai di contemplarlo. Non ha potere se non l’amore che vince ogni cosa, anche le durezze dei cuori più ostinati come quello di un ladro che si pente e che è il primo a mettere piede in Paradiso, prima ancora di tutti i giusti del Primo Testamento. Non ha forza se non la debolezza che si spezza per accogliere la Potenza di un Dio che non abbandona mai. Non mette distanze con l’uomo, non ha gente che gli guarda le spalle, non ha nulla che lo protegga perché ha deciso di stare, condividere, fare comunione con tutti i poveri della terra e mettersi dalla loro parte fino a pagare di persona ogni cosa, fino a pagare per ogni persona. E in quella croce si riassume tutta l’Alleanza che Dio ha desiderato con il suo popolo, si riassume tutta la voglia di comunione di un Signore che ha messo la sua creatura accanto a sé e non sotto di sé e con lei desidera costruire un legame di amore.
Essere discepoli del crocifisso risorto, accogliere in noi la sua regalità ha conseguenze molto precise per i nostri giorni.
Anzitutto come comunità abbiamo la consapevolezza di essere stati generati dal fianco aperto di quella croce, in quel crocifisso noi ritroviamo la forza di essere nel mondo segno alternativo di un amore che sconvolge la logica del mondo. Insieme dobbiamo raccontare all’uomo di oggi che ci sono valori per cui vale la pena sporcarsi le mani e altri che bisogna mettere sempre su un piano secondo. Solo l’amore conta, la Chiesa perde se insegue segni di potere piuttosto che incidere nella storia con il potere sei segni che si richiamano esplicitamente al suo Maestro di Nazareth.
E poi anche noi come lui siamo chiamati a diventare luce per le nazioni, luce per tutte le persone che incontriamo negli attimi della nostra vita. c’è un agire discreto del credente che però deve incidere nelle strutture del mondo per renderlo simile al Paradiso. Se si accoglie Cristo come unico riferimento si apre un orizzonte di vita nuova.

domenica 1 novembre 2009

II domenica dopo la Dedicazione del Duomo

Ci sono parole che bisognerebbe centellinare tanto sono belle, tanto sono capaci di aprire il cuore e di dargli consolazione. Mi riferisco all’Epistola di Paolo agli Efesini. L’evento della Pasqua di Gesù ha riconciliato Dio all’umanità, ha dato pace al cuore dei pagani e al cuore degli ebrei: Dio non è il Giudice severo che imprigiona la nostra libertà in precetti e leggi che non sono capaci di saziare la nostra attesa di felicità; Dio non è un’invenzione dell’uomo che ha bisogno di idealizzare i suoi desideri più profondi o che ha bisogno di cercare parole capaci di aiutarlo a superare la sua atavica paura della morte: Dio è il Padre di Gesù che ama l’umanità e la invita a entrare nella sua logica, nel suo Regno, nella sua famiglia. Dio è promessa compiuta di eternità e il suo Amore incrocia i nostri desideri e dà loro compimento.
Mi chiedo spesso che cosa sarebbe stato se Paolo non avesse sognato durante una notte, ma forse era il sogno di tutta una vita, di oltrepassare i confini dell’occidente e annunciare il suo Vangelo e poi, in obbedienza allo Spirito, approdare in Macedonia.
E ancora cosa sarebbe accaduto se a Gerusalemme, durante quell’adunanza, i discepoli con gli apostoli avessero chiuso le porte del Vangelo ai pagani.
E poi ancora se il Vangelo non fosse approdato nelle culture di tutti i popoli lungo i tempi con lo sforzo dell’intelligenza e la missione di tanti uomini e donne.
Forse si sarebbe tradita la visione di Isaia che vedeva il Tempio trasformato in casa di preghiera per tutte le genti, si sarebbe tradito senz’altro lo slancio di Gesù di abbracciare uomini e donne oltre il confine della cultura d’Israele
Forse noi non saremmo qui oggi, forse non avremmo mai incontrato come compagno e amico della nostra vita il Dio dell’Alleanza, non sapremmo cosa significa amare sino alla fine, non potremmo poggiare i nostri piedi sulle orme di Gesù, la nostra vita sarebbe alla disperata ricerca di un senso, di un oltre capace di saziare le attese di felicità, saremmo con le mani tese al cielo per capire chi lo abita e non ci avrebbe sorpreso dall’alto la luce di un Dio che invece si fa mano tesa all’uomo, rivelazione inedita di un’Alleanza eterna.
Nel Vangelo Gesù racconta una parabola per dire alla sua gente l’urgenza di accogliere in lui il Messia, di non perdere per sempre l’attimo della fede, ma allo stesso tempo parla di una festa a cui iniziano a partecipare primi fra tutti persone inizialmente estranee al Regno, gli ultimi, i pagani.
Vorrei ora fare eco al brano di Vangelo e dire che anche per noi è possibile declinare l’invito alla festa del Regno quando la nostra fede si appiattisce nei moduli di sentieri già battuti e si fa formalismo, religiosità di facciata. C’è una terra nascosta in ognuno di noi, nelle profondità del nostro cuore, e che non è stata ancora toccata dal raggio del Vangelo. C’è un angolo di paganesimo in ognuno di noi, C’è una parte di noi che assomiglia a quei poveri che vivono sulle strade e che vorremmo volentieri lasciare fuori: sono le nostre ferite più nascoste, le nostre paure più vere, le nostre domande che urlano in noi, sono le ansie che ostacolano la nostra gioia e la nostra libertà. La Parola vuole invitare anche questa parte di noi alla festa del Regno, non tiriamoci indietro perché Gesù ci ama per quello che siamo e ci vuole guarire proprio come poveri pellegrini e ci invita a gettare le nostre maschere di efficienza e di autoreferenzialità.
Ma poi possiamo declinare l’invito quando noi non scendiamo sulle nostre strade e rinunciamo ad essere missionari nel nostro quartiere. Lasciamo mancare alla nostra festa figli che Dio ama,i nostri ragazzi, i nostri giovani, i nostri vicini o i nostri colleghi o per un eccesso di orgoglio, perché crediamo che non ne sono degni, o per un difetto di autostima perché crediamo che non ci darebbe retta nessuno. Il Vangelo è per tutti e desidera correre ancora sulle nostre strade, proprio ora: non possiamo fermarlo in noi, perché il suo dono presto potrebbe appassire.
Decliniamo l’invito alla festa quando ci mettiamo da parte e non accogliamo fra noi fratelli di altre culture o di altri popoli che devono incontrare il Vangelo come proposta credibile nella nostra Carità discreta.
Decliniamo l’invito quando ci assale la sfiducia e non pensiamo che questo nostro tempo è il tempo della Grazia per tutti gli uomini e che lo Spirito non vuole fare a meno del nostro sì per una nuova primavera.