sabato 21 agosto 2010

XIII dopo Pentecoste

La cifra sintetica di questa domenica mi sembra sia la speranza.
Proviamo a planare sulle letture.
Il denominatore comune è dato dalla città di Gerusalemme e dall’arrivo come una visita in essa dei protagonisti delle letture: Neemia, Paolo e Gesù
Neemia con in pugno le lettere di autorizzazione del re e in cuore il sogno di ricostruire la città dopo la distruzione
Paolo con in mano i soldi della colletta per i cristiani della città verso cui le genti devono guardare. È un segno di carità che è presagio pieno di speranza di una Chiesa che sia una comunione di diversi
Gesù che usa due tonalità differenti dell’unica grande sinfonia dell’amore di Dio che si fa prossimo alla sua creatura. Due tonalità: una piena di festa e di voglia di riscattare i poveri e gli ultimi e una severa, dura, forte di chi vuole richiamare l’essenzialità della fede oltre ogni ipocrisia: il tempio non può essere rifugio dove mascherare l’egoismo, la chiusura e la durezza di cuore. Dio vuole cambiare il cuore della creatura, non è un idolo che si lascia ingabbiare nella schematicità del rito.

Cosa dice a noi questa Parola:
1 riveste di speranza la nostra vita. Dio viene incontro a noi, è all’opera nei nostri giorni, è per noi, lotta dalla nostra parte, vuole prenderci in braccio per essere padre con la sua forza e madre con la sua delicatezza che risana ogni ferita. Il tempio è segno della nostra vita: noi siamo Tempio di Dio. E anche noi siamo spesso distrutti, abbiamo zone d’ombra in cui non vogliamo entrare o guardare nemmeno. Dio cerca proprio questo per farci sentire la forza del suo perdono e del suo amore. Con lui noi non dobbiamo mentire o apparire e la sua luce penetra nelle nostre ferite e le rende feritoie della sua Grazia. La sfida della riconciliazione con noi stessi è cifra della nostra felicità: Dio non vuole nulla per meno di questa. Ma riconciliarsi è possibile solo se l’altro ti tende la mano e ti fa sentire amato: Dio fa proprio così con noi.
Gerusalemme è segno della Chiesa e della nostra città. Dire che Dio ci viene incontro come umanità nel suo insieme significa gettate lo sguardo oltre l’angolo della paura, del malumore o della critica. Dio vuole piantare i paletti della sua tenda proprio in mezzo alle nostre case, nella trama della vita della nostra Chiesa. Forse, più che di rinnovare i programmi pastorali o i progetti politici, dovremmo aprire le finestre del nostro cuore alla sua presenza disarmante e comprendere che dove e come lui è lì vuole anche noi.
E Dio è all’opera oggi accanto ad ogni povero, dimora in mezzo a loro, li sceglie come compagni di viaggio. E con la sua Grazia lavora per il loro riscatto, come quei poveri zoppi e ciechi che Gesù risana nel tempio. Aprirsi alla speranza significa fare la scelta di campo di dimorare anche noi con i poveri e aprire per loro mille piste di riscatto umano e poi percorrerle con loro, come Neemia che ricostruisce Gerusalemme condividendo la sorte del resto rimasto in quella terra!

Come una conclusione
Siamo chiamati noi, e non altri, a portare la speranza al mondo. Solo perché contemplativi sapremo dare la linfa di una nuova speranza alla gente che incontriamo. Estatici per poi essere estroversi. C’è una povertà di speranza che pesa come piombo nell’aria che respiriamo. E appena si incontra un profeta di speranza la gente si raccoglie come ad una fontana.
Uscendo di questa chiesa dobbiamo andare, camminare, non fermarci, come i protagonisti di oggi fotografati in cammino. Camminare e gettare semi di luce fra le nostre case, fra i ragazzi e i giovani, con gli anziani, con chiunque è giudicato pietra di scarto ma che Dio considera polvere di stelle.

sabato 14 agosto 2010

XII dopo Pentecoste

Israele, gettato come cerniera fra occidente e oriente, ha sempre dovuto scegliere con chi schierarsi fra i venti di guerra che spiravano da una parte o dall’altra. Nel secolo in cui è ambientata la lettura di 2 Re, Sedecia si allea con l’Egitto andando incontro alla disfatta personale e del suo popolo: Gerusalemme viene distrutta da Nabucodonosor e con essa il Tempio, simbolo della sua vita e il popolo è deportato a Babilonia. Tuttavia questo adempie la profezia di Geremia, forse il profeta che più di tutti ha sofferto per la franchezza della sua parola. Aveva da tempo denunciato la corruzione dei notabili del suo popolo e del Re, segno dell’abbandono della logica di Dio per inseguire orizzonti troppo umani e calcoli troppo bassi, aveva criticato aspramente la scelta di allearsi con gli egiziani e aveva rimproverato il re di non accorgersi del segno dei tempi e così l’epilogo segue un copione immaginato e annunciato. La Parola di oggi è un esempio mirabile di come la storia dell’uomo può essere letta e interpretata alla luce della fede. La storia, anche nelle sue pagine più drammatiche, non è un susseguirsi casuale di episodi, non è un ciclico ritorno di guerre e distruzioni alternati a momenti di pace, ma è l’esito delle scelte dell’uomo, è dettata dalla libertà che può inoltrarsi lungo sentieri contorti e le conseguenze negative sono imputabili solo a chi ha compiuto tali passi; eppure la Provvidenza continua a d esserci, un Dio che ha il coraggio di consegnare il destino delle cose all’uomo è un Padre che non abbandona i suoi figli e che dà loro appuntamento all’angolo del fallimento per riprendere il cammino. Il profeta deve incarnare esattamente questa prospettiva, deve essere voce di denuncia per indicare come correggere le proprie scelte per non pagare alto il prezzo del proprio male, ma allo stesso tempo, quando la disfatta è compiuta, deve essere capace di dare speranza, di squarciare ancora la possibilità di un orizzonte, deve gridare che è ancora possibile riprendere la strada. E in effetti Geremia andrà a Babilonia, resterà con il suo popolo nella sofferenza e saprà ridare fiducia facendo eco alla scelta di Dio di ricostruire Israele a partire da quel resto che abbiamo sentito è rimasto nella Terra. Ma questo lo leggeremo domenica prossima.
Cosa dice a noi questa pagina. Anzitutto risveglia in noi quello spirito profetico che, anche la scorsa settimana, abbiamo detto deve essere giudicato essenziale per il nostro cammino di fede. Dio ha bisogno ancora oggi di profeti come Geremia, di parole decise e controcorrente come quelle di Paolo nell’Epistola. Noi, e proprio noi – chi altri al nostro posto? – dobbiamo porre l’accento sulla corruzione dei potenti, sui calcoli incerti del pensare comune che distruggono l’uomo e la sua dignità, dobbiamo, come Chiesa della base, dare eco ai segni dei tempi perché chi poi è chiamato a discernere e a decidere, possa ascoltare meglio lo Spirito: su quanti temi oggi la Chiesa dovrebbe ripensare meglio se stessa come serva dell’uomo e al servizio della gioia del mondo, o quali scelte devono essere messe all’ordine del giorno per essere più decisamente evangelici e meno ancorati ai segni del potere! E poi, proprio perché profeti, dobbiamo sporcarci le mani con la storia, scendere in campo dalla parte dei poveri però e dare speranza a chi è nel buio, a chi sente forte il peso della sconfitta, a chi ha perso l’orizzonte, a chi è solo, a chi vorrebbe volare ma porta con sé, come delle stigmate, la sfiducia e la stanchezza.
Essere così è terribilmente affascinante ma anche, in verità, spaventosamente pericoloso. Accennavo già al fatto che Geremia ha rischiato molto spesso di essere ucciso perché indispettiva i potenti del tempo, ha pagato certamente con il carcere la sua profezia. E il vangelo rimarca questa pericolosità, la sottolinea con questo grido accorato e commovente di Gesù. Anche lui pagherà care le parole ma anche i gesti che annunciano un Dio vicino agli ultimi e ai poveri. E il suo destino è di tutti quelli che abbracciano il suo cammino, anche il nostro dunque…un servo non è mai di più del suo Maestro! Quante persone non fanno carriera per quella parola di troppo sul posto di lavoro in difesa di alcuni principi di legalità e umanità, quante persone vengono lasciate sole perché hanno il pallino di difendere sempre e comunque i poveri cristi,quanti vengono tagliati fuori dal mondo di chi conta perché la loro fede è giudicata inconciliabile con la cultura e la contemporaneità?
Ma se è vero che Dio c’è ed è all’opera è meglio giocare su lunga scala, scommettere sul tempo perché ride bene chi ride ultimo!

sabato 7 agosto 2010

XI domenica dopo Pentecoste

La Parola di Dio è preziosa certamente nel suo insieme, nei grandi temi che ci permettono di affacciarci nell’abisso del Mistero dell’Amore del Padre. In essa ritroviamo la grammatica dei sogni profumati di giovinezza, nuove motivazioni, spunti di conversione, bocconi di manna che ci permettono di andare avanti anche quando l’orizzonte che ci sta di fronte si annebbia. Oggi per esempio, in questo scorcio della storia della salvezza che ci viene presentato in cui il profeta Elia viene mandato al re Acab dopo che a Nabot è stata usurpata con violenza la vigna, pagina a cui sia Paolo che il Vangelo fanno da risonanza, è evidente il tema della Giustizia che è rendere a ciascuno il suo, è non strappare nulla al povero, è schierarsi sempre e lottare dalla parte di chi è debole ed è pietra di scarto della società. In Dio non esiste Misericordia senza Giustizia e, senza la Giustizia, non esiste la Carità e nemmeno la Pace.

Però anche le sfumature della Parola sono importanti, piccoli passaggi che squarciano infinite riflessioni.

Vorrei solo soffermarmi su alcune e chiedermi di volta in volta cosa questa domenica consegna alla nostra vita, o forse meglio sarebbe dire, in che cosa la Parola di oggi ci chiede di diventare essenziali, di cosa dobbiamo spogliarci per essere più poveri e dunque più audaci.

Della prima lettura mi colpisce anzitutto che Dio vuole intervenire su questa evidente ingiustizia attraverso un profeta. C’è la Parola ma è necessario che ci sia anche qualcuno che la annunci, che se ne faccio carico, che si lasci infiammare dalla sua logica e si lasci condurre alla sfida del mondo. Elia diventa non solo il portavoce di Dio ma anche l’interprete, si identifica con lui e pagherà in prima persona. La fede, l’ascolto contemplativo di Dio e della sua Parola infiammano il cuore del profeta e lo spingono ad occuparsi delle ingiustizie, a sporcarsi le mani con il fango della sua storia. Teme Dio solo e per questo diventa un temerario! Dio sta nel suo cuore e per questo non può non avere a cuore i poveri, il grido dell’umanità sofferente.

Penso che basti questo per comprendere anzitutto che una vita di fede senza uno slancio di Carità è non solo vuota ma anche falsa. E ancora credo che il nostro Dio ha bisogno di noi, ci abbia consegnato non a caso lo spirito della Profezia nel giorno del Battesimo per dire la sua Parola oggi ma più che con infinite prediche in una vita di una carità fattiva e operosa che diventa progetto per il riscatto degli ultimi e a tratti anche denuncia contro tutte le ingiustizie contro i poveri, ben oltre dunque l’assistenzialismo che comunque vede noi su un piedistallo e i poveri sempre sotto a tendere la mano. Se Dio ci sta a cuore non possiamo non accogliere nel cuore il grido dell’umanità affamata da un’economia, la nostra, che distrugge per consegnare a pochi privilegiati la quasi totalità della ricchezza; non possiamo non accorgerci dell’oppressione di chi non ha una casa o ha perso un posto di lavoro; non possiamo non accorgerci del deserto educativo che lascia soli i nostri ragazzi e non insegna loro a stendere le ali nel cielo della vita: il livello di civiltà di una società del resto si vede nel modo in cui tratta e accompagna i bambini e le nuove generazioni.

Dell’epistola sottolineo solo che Paolo punta l’obiettivo del tema della Carità all’interno della Comunità. Del resto si sa che amare il prossimo è la sfida più audace che ci è chiesta, amare i volti di chi ci sta accanto ogni giorno, di chi non nasconde le sue ferite e debolezze, di chi conosciamo anche negli aspetti più noiosi è eroico! Mi piacerebbe affiggere all’ingresso della nostra chiesa i passaggi di questa lettera perché allora diventeremmo davvero spettacolo al quartiere e al mondo dell’Amore di Dio e, così affascinanti, non avremmo bisogno di rincorrere le statistiche dei numeri dei nostri ahimè sempre in difetto ultimamente!

E poi del Vangelo mi colpisce un particolare…il resto mi sembra già così evidente! Nella Parabola si dice il nome del povero, Lazzaro appunto, mentre non sapremo mai quello del ricco. E questo non solo nell’aldilà, quando il contrappasso è di una infernale lucidità, ma anche quando le sorti non si sono ancora ribaltate e lui deve mendicare per sfamarsi. È il segno che nella storia della Salvezza che scorre nelle vene della storia ordinaria e ufficiale, Dio ha in mente non il nome dei ricchi, di quelli che contano, di chi può vantare successo, potere e denaro ma il nome delle pietre di scarto e con loro costruisce un mondo nuovo già qui, già ora. Mi piace ricordare Anna, lasciata da suo marito per un’altra donna, che porta avanti con dignità la sua vita e quella dei suoi figli e che li educa alla sobrietà e fa della povertà un valore e un tratto di orgoglio. Mi piace ricordare Amira e Sanela e tante mamme affidatarie dell’orfanotrofio di Sarajevo che accolgono nella loro casa i bambini che nessuno vuole e con amore cercano di colmare il vuoto e la lacerazione di un rifiuto. Vorrei ricordare Caterina che ogni giorno arriva in oratorio con Michele, suo nipote disabile e che ha sempre il sorriso sulle labbra e ora non solo è diventata la zia di un altro ragazzo disabile, ma di tutti i bambini dell’oratorio che educa con i fatti al rispetto e all’interazione con chi porta un handicap. Penso che Dio non solo abbia fra le mani un otre dove raccoglie le lacrime dei poveri e le conosca una ad una, ma che abbia da sempre deciso di segnare sulla roccia i gesti degli ultimi, piccole cose che noi non vediamo o che adesso scompaiono in fretta come le scritte sulla spiaggia del mare…ma mi hanno detto che non gli è bastata una sola montagna!