domenica 25 aprile 2010

IV di Pasqua




Oggi la Chiesa intera celebra la giornata di preghiera per le vocazioni. È bello vedere questo sporgersi della Chiesa sulle nuove generazioni, sentire il calore della preghiera, intenso come un abbraccio, perché i nostri ragazzi e i nostri giovani non sciupino la vita in piccoli orizzonti, non si disperdano nell’affanno del quotidiano, credano che per essere felici bisogna immaginare alla grande la propria vita, e così sappiano tessere, in un dialogo d’amore con il Padre, nella logica di un disegno unitario, le loro emozioni, i loro desideri, le loro paure e poi mettano la loro vita al servizio di qualcuno senza risparmiarsi perché c’è più gioia nel dare che nel ricevere!
Ma fa bene a tutti, indipendentemente dalle scelte già compiute o dall’età, riflettere sul tema vocazionale perché la vocazione altro non è che il nostro personalissimo modo di essere cristiani, la concretizzazione della nostra fede. Dunque potremo chiederci oggi se abbiamo una sufficiente lucidità sulla nostra vocazione tanto da considerarla il nostro modo irripetibile e unico di essere alla sequela di Gesù; potremo anche chiederci come è cresciuta, si è evoluta, si è specificata con il passare del tempo perché, se è vero che si sceglie un orizzonte definitivo in cui muoversi nella vita, è pur sempre vero che spesso, nella vocazione, ci sono poi innumerevoli vocazioni, chiamate ulteriori che specificano la prima: penso ai sacerdoti che nel loro ministero doverosamente rivolto a tutti iniziano a sentire forte la passione educativa magari per i ragazzi ai margini e in difficoltà, oppure per i malati; penso a una coppia che sente la chiamata alla vita e ad un tratto, grazie ai loro figli, scopre la bellezza di crescere con loro oppure, quando avanza l’età o irrompe la malattia, uno dei due avverte forte la vocazione di mettersi nuovamente al servizio dell’altro ma ora anche nel suo dolore. Sono passaggi non scontati che vanno vissuti nella preghiera e nel discernimento degli spiriti, in una lotta a volte sofferta con se stessi e con gli altri, sono scelte non programmate che rendono accidentato il progetto iniziale ma per questo non meno bello.
E poi il motivo di preghiera di oggi ne porta con sé anche un altro: se è vero che i giovani devono essere sostenuti nel loro cammino di ricerca e di decisione, è anche vero che, accanto, devono avere non maestri cattedratici, magari sapienti ma molto distanti, ma testimoni, persone affascinanti e credibili nella loro scelta di vita. Dobbiamo pregare dunque anche perché nella Chiesa gli adulti siano compagni di viaggio dei giovani non a parole ma con l’esempio, che raccontino con i fatti la bellezza e la gioia della loro vocazione pur nella fatica di ogni giorno. Penso ora in particolare alla mia scelta vocazionale: se i giovani non percepiscono dalla vita dei preti una promessa di felicità, difficilmente potranno decidersi per diventarlo anche loro. Dunque la Chiesa dovrebbe pensare non solo a promuovere la pastorale vocazionale ma anche a chiedersi se la vita dei sacerdoti sia in condizioni sostenibili e dunque promettenti - mi chiedo che bellezza percepisce un giovane vedendo il sacerdote sommerso dalla burocrazia della gestione ordinaria del sacro; mi chiedo che ne è del vulnus aperto nella Chiesa, anche per il futuro, dalla controtestimonianza atroce di quei sacerdoti che si sono macchiati di pedofilia - e, allo stesso modo, la proposta del matrimonio deve essere sostenuta da una testimonianza limpida di amore che trasfigura e rende più belli, più santi…altrimenti qualcuno potrebbe davvero credere che in realtà, sposarsi, non è che un atto formale e che ingabbia l’amore!
Sarebbe interessante oggi interrogare queste letture nella prospettiva vocazionale. Mi limito a commentare tre passaggi del Vangelo.
Gesù e la sua amicizia, dimorare per lui nel cuore del Padre: questo è il cuore della vocazione, di ogni vocazione, è il segreto che sta sotto le scelte più azzardate. Anche Paolo, penso, potrebbe condividere questa affermazione. Perché scopri che l’amore di Gesù per te è vero, concreto, smisurato, allora ti decidi a seguirlo in una scelta di vita definitiva che abbia alla base i valori del suo Vangelo. E più in te palpita questo amore, pulsa nelle vene a pressione altissima, e più rischierai, alzerai la posta in gioco per vivere in coerenza la tua scelta di vita.
Amore gli uni per gli altri: nell’amore si rivela la verità di ogni vocazione. Non c’è scelta di vita cristiana che non sfoci nella Carità. E se la Carità si affievolisce, se viene meno l’amore è perché si è a corto di fede. Portare frutto, ma quando e come? Nella logica del Vangelo, che spesso è antitetica al nostro volere vedere qui e ora i risultati dell’opera delle nostre mani, quando hai scelto di seguire Gesù e di amare gli altri, anche se non te ne accorgi hai aggiunto una goccia d’amore all’Oceano della storia…certo, poca cosa! Ma anche senza quella goccia, lo sappiamo, le cose sarebbero state diverse. E gli altri, dopo di noi, se ne accorgeranno e ci ringrazieranno

domenica 18 aprile 2010

terza di Pasqua

Queste domeniche del tempo pasquale, mentre ci conducono speditamente al giorno della Pentecoste in cui la Chiesa rinascerà nell’abbondanza del dono dello Spirito creatore e creativo, ci aiutano ad affinare i nostri sensi per scoprire la presenza del Risorto nella storia, nella nostra vita e nella Chiesa. Se fossimo certi e convinti che Gesù non muore più ma cammina in mezzo a noi, non resisteremmo al bisogno di danzare di gioia, di slanciarci nella festa, di superare i guadi oscuri che la vita, con la sua corsa affannata, ci fa attraversare.
Il lezionario delinea i tratti del suo volto. Oggi in particolare siamo chiamati a riscoprire nel Risorto la luce della nostra vita.
Vorrei allora anzitutto interrogare la Parola del Vangelo, così pregnante, chiedendole cosa significava per i protagonisti e cosa vuol dire per noi accogliere la testimonianza luminosa di Gesù. E poi vorrei dare un’eco alle letture chiedendoci in che senso la Chiesa è chiamata oggi, sull’esempio di Paolo, ad essere testimonianza della Luce del Risorto per la vita del mondo.
Gesù non usa mezzi termini per parlare della sua missione, non edulcora il suo insegnamento, non scende a compromessi sulla sua persona. Gesù poneva chi lo ascoltava molto spesso con le spalle al muro: è proprio come la luce del sole a mezzogiorno che accorcia la lunghezza delle ombre o come la luce dell’alba che irrompe improvvisa e fa svanire le tenebre della notte. Lui è la Verità uscita dal Padre, chi vuole conoscere Dio deve percorrere la sua via, lui dà testimonianza al Padre e il Padre la rende a lui attraverso le sue opere. Chi ascoltava e gli stava di fronte invece voleva rinchiuderlo in uno schema predefinito, voleva imprigionarlo in un’idea che stava stretta, voleva annullare il confronto per non aprirsi e cambiare il cuore. Lo giudicava per non uscire allo scoperto, lo attaccava per paura di dover convertirsi alla verità di Dio: non il Dio della Legge che si accontenta di chiederci di non praticare il male, ma il Padre che chiede ai suoi figli di essere buoni come è lui e che chiede che l’Amore diventi il parametro esclusivo di ogni scelta. Non il Dio della tradizione, non l’idea illusoria che a salvarci saranno le nostre forze e le nostre opere, ma il Padre che salva per Grazia e nella Misericordia rende la nostra debolezza punto di forza. La luce avanza, scardina i chiavistelli più tenaci e irrompe. Chi la lascia entrare rinuncia a quelle zone d’ombra, a quelle nicchie sicure in cui rifugiarsi e lentamente diventerà una persona nuova. Entrerà a far parte della famiglia di Dio. Anche noi possiamo oggi aprirci alla luce che è Gesù e riconoscerlo all’opera nella nostra vita, aprirci alla certezza che Dio è Padre anche per noi e che la nostra vita si può giocare in uno scenario di totale estroversione, di amore ai fratelli, e in un’estasi assoluta, nella continua contemplazione del volto del Padre. Oppure possiamo chiuderci a lui e sprofondare nel buio della disperazione o, almeno, della stanchezza che si manifesta nella critica a tutto e a tutti. Negli occhi dei credenti deve brillare una luce diversa, una fiamma di speranza e di carità; i cristiani devono avere un occhio acceso di passione per l’uomo e per Dio. E questo tratto rende incredibilmente giovani anche i più vecchi. E se non c’è luce, non c’è fiamma negli occhi, possiamo anche essere giovani ma in fondo, siamo come morti. La vita è in pienezza solo se è slancio d’amore alla maniera di Gesù. Anche per noi dunque vale l’alternativa forte del Maestro: la sua via è l’unica per colorare la vita dei colori della piena riuscita.
E poi abbiamo ascoltato sia negli Atti che dalle sue parole ai romani la testimonianza accesa di Paolo. Paolo, apostolo per vocazione (è interessante l’autopresentazione nelle prime righe della sua lettera), sogna di andare a Roma per condividere la sua fede con quella comunità che non era nata dalla sua opera di evangelizzazione e poi sarà la vita a portarlo lì, in catene, ma anche in quella situazione di apparente disperazione trova il coraggio di predicare il Crocifisso-Risorto, anche in quell’ora buia trova la forza di essere luce lui per chi lo vuole ascoltare e aprirgli il cuore. Il credente dopo aver accolto la luce che è Gesù diventa lui stesso luce e testimonianza del Padre.
La Chiesa ora e qui, sempre deve parlare del Vangelo, stare con il dito puntato su Gesù che passa e rendergli testimonianza; è una Chiesa che trova nella missione non un’appendice alle tante cose che già fa, ma la natura e la verità stessa di sé. Dobbiamo avere l’audacia di essere una comunità che non gioca sulle retroguardie, di essere una Chiesa che non accondiscende alla tentazione di ripiegarsi ma che in ogni occasione annuncia al mondo che la vera gioia è Cristo, una Chiesa che fa della strada l’occasione per incontrare ogni uomo e raccontargli la straordinaria notizia della Risurrezione. Sogniamo una Chiesa che rinasce dalle sue tenebre perché è abitata dalla luce del Signore e che non deve avere paura di portare la luce dell’amore in ogni situazione del nostro mondo che attende l’alba perché soffre nella notte del tempo in cui ora è costretto a stare.

domenica 11 aprile 2010

II domenica di Pasqua

Mi chiedo a volte se credere nel Risorto non sia più una condanna piuttosto che una speranza! Credere in Dio va bene, credere che sia il principio ultimo e primo dell’esistenza ci risulta abbastanza logico…possiamo accettare di credere che ci dia delle norme da seguire per essere uomini retti o credere addirittura che in base a questi precetti, osservati o meno scrupolosamente, saremo giudicati. Ma che un giorno Dio si sia deciso a piantare i paletti della sua tenda fra noi, abbia preso sulle sue spalle la nostra umanità e con i suoi piedi abbia calcato la nostra stessa polvere, che si sia fatto nostro fratello e compagno di viaggio, che abbia voluto entrare in relazione con noi e che faccia dell’amore la cifra sintetica del suo rapporto mi sembra un discorso terribilmente impegnativo perché vuole cambiare il nostro cuore e non limitarsi ad una pratica esteriore. Gesù Nazareno, crocifisso e risorto continua a essere un Dio così. La nostra fede prende le mosse da un accadimento e trova espressione in una relazione personalissima e comunitaria. I 50 giorni che seguono la Pasqua sono un giorno unico in cui la Liturgia ci aiuta a risvegliare in noi la certezza della sua presenza, affinare i sensi e ritrovarlo al nostro fianco, nella nostra vita, nella Chiesa, nella storia e nel mondo. Ma sono anche giorni di conversione alla verità della nostra fede, se vogliamo, sono ancora giorni di lotta contro le tenebre della nostra incredulità o per cambiare prospettiva sul nostro Dio e dunque su noi stessi.
Ci è stato raccontato l’episodio di Tommaso che si colloca appunto otto giorni dopo il mattino della risurrezione: ecco perché puntualmente, ogni anno, noi leggiamo nella II domenica di Pasqua questa pagina di Giovanni. Ma perché Tommaso si era allontanato dalla comunità? È proprio dalla sua assenza che prende avvio la narrazione di questa pagina e il suo contenuto. Essenzialmente per un motivo di fede. Uno dei dodici, uno che Gesù aveva scelto perché lo seguisse e facesse di lui il motivo della sua vita ha sperimentato sulla sua pelle il dramma dell’incredulità. Nel suo cuore la sua sequela a Cristo si era arrestata alla croce, la sua fede e la sua speranza si erano conficcate alla morte con i chiodi della delusione. E per questo trova anche il coraggio di uscire da quel gruppo, senza darsi e dare agli altri una possibilità, senza immaginare una prospettiva futura al suo cammino. E proprio nel cuore di questa notte dolorosa il Crocifisso-Risorto lo raggiunge, si mostra in mezzo a quel gruppo riunito nel suo nome e compie la tenerezza del gesto di afferrare le dita incredule di Tommaso e portarsele al costato e sul segno dei chiodi inciso sulle mani. Gesù va alla ricerca di tutti, di ognuno, ai suoi occhi è preziosa la nostra vita e lui si è legato a noi con una fedeltà inscalfibile. Tommaso rinasce alla luce del Risorto e diventa testimone fino agli estremi confini del mondo: la tradizione ci racconta che è stato proprio lui a varcare i confini dell’oriente e portare il vangelo nelle regioni a nord dell’India . L’ultimo ad essere arrivato alla fede è quello che arriva più lontano nell’annunciarla!
Il dramma dell’incredulità dell’uomo di oggi assomiglia molto a quella di Tommaso, In noi si è fatta debole l’idea non tanto di Dio ma della vita dopo la morte, dell’eternità. Anche in noi si agitano le tenebre del non senso e lottano contro quei bagliori di fede che di tanto in tanto ci sono donati. Capita di vivere questa sensazione quando ci è strappato qualcuno di caro, oppure quando la depressione arriva con il suo carico angosciante nelle piccole morti che la vita ci riserva. Ma anche pensando alla nostra morte a volte ci assale la paura che dopo ci sia il nulla più assoluto, e che la morte sia la fine di tutto.
Io penso sia positivo essere fratelli di avventura di Tommaso, alzare le mani e arrenderci alla certezza che la parte credente in noi dovrà continuamente farsi mettere in gioco dalla parte non credente, che nel nostro cuore convivano il giorno e la notte, che ad ogni passo in avanti a volte ne seguono due indietro. E questo ci fa fratelli che siedono alla mensa di chi non crede più e di chi sperimenta e paga sulla sua pelle il dramma dell’incredulità. Capiremo il dolore dell’altro quando lo avremo sperimentato anche nella nostra esistenza. Ma scopriremo poi l’essenziale e cioè che la fede non è un problema che si risolve per assiomi ma un cammino in cui Dio si rivela al nostro cuore e ci dà la luce necessaria per il nostro cammino di ogni giorno.
E noi, come Tommaso, sperimenteremo che si può essere testimoni con il bagaglio della nostra incredulità che lotta con la fede, testimoni e non maestri cattedratici e distanti!
Ma, un ultimo dettaglio, quando la nostra fede entrerà nella notte della fatica, crediamo alla voce di qualche fratello che con forza vorrà riportarci nel cuore della nostra comunità e della Chiesa dove, con tutti i limiti possibili, brucia da sempre la fiamma dello Spirito e, grazie alla fede di qualcun altro, anche la nostra lampada smorta potrà riattizzarsi.

sabato 3 aprile 2010

Pasqua di Risurrezione

Era ancora notte, anche se all’orizzonte un chiarore rosa annunciava il nuovo giorno, un giorno da allora mai più ordinario. Maria era andata al sepolcro. Aveva bisogno di stare a piangere là il Maestro che le aveva squarciato un orizzonte di vita quando non palpitava più nessuna speranza nel suo cuore. Aveva trovato la pietra divelta e scagliata lontano. Una prima corsa verso il cenacolo e poi ancora al sepolcro con Giovanni e Pietro che vedono ma non comprendono. E lei è rimasta lì in un pianto dirotto, forse come non le capitava più da quando era bambina nella terra di Magdala: non solo la tragedia della morte ma ora anche la beffa di non poter più avere il suo corpo. Ancora un’occhiata in quello scenario desolato e due uomini le appaiono. E poi un altro che lei confonde con il Giardiniere tanto era lontana l’idea di un Dio che irrompe nella morte con una brezza di primavera di vita eterna. E poi la sua voce, come allora, il suo nome pronunciato con quella dolcezza. Gesù è il Signore. Ora i suoi occhi, tolta la lente della disperazione e delle lacrime, vedono bene. Il Nazareno, il crocifisso è il Signore, il Risorto. Una vita così non poteva restare imbrigliata nelle tenebre della morte, una vita spesa a mani aperte per amore di Dio e dell’uomo, in pura perdita di sé, che nella Pasqua si è fatta silenzio e si è consegnata alla morte per strappare dal cuore dell’uomo la paura di un Dio lontano e nemico e stringere nel perdono un’Alleanza eterna. Tutto è come prima, tutto non è più come prima: lei, mandata a dare l’annuncio più sorprendente della storia; i discepoli chiamati a diventare da traditori e uomini confitti al dubbio, apostoli di un Dio sorprendente che si è rivelato all’uomo in Gesù; la storia intera che non è destinata ad una fine tragica o condannata ad un ciclico e insaziabile ritorno delle cose guidata da un destino avverso, ma che è rivolta ad un Regno che già c’è e che presto verrà.
Surrexit Dominus, vere! Alleluia! Non una parola fra le tante, ma la Parola che dà senso anche alla nostra storia ci ha raggiunto nella corsa del tempo, non si è più fermata e oggi ci porta qui a celebrare la presenza del Signore che non muore più, che ci ha spinto a uscire dalle nostre case per incontrarlo e per ritrovare un senso ai nostri giorni.
Noi abbiamo bisogno di vita, abbiamo bisogno di novità, abbiamo ancora bisogno di ripetercelo: Cristo non muore più e noi con lui. L’annuncio della Risurrezione cambia la nostra prospettiva, dà profondità al nostro tempo, è un fiorire di gioia sulla terra dove sono piantate le croci dei nostri giorni.
Vivere la sofferenza come croce, cioè per amore, ha senso
Vivere in gratuità, con la mano spalancata senza trattenere, presi solo dalla logica del servizio, ha senso.
Vivere la speranza su di noi ha senso: noi siamo oltre i nostri peccati, le nostre tenebre, i nostri errori, per noi c’è un orizzonte di perdono e di vita nuova.
Vivere la speranza per chi ci circonda ha senso e non è un esercizio inutilmente consolatorio: le persone che non sentiamo più da tempo perché ci hanno fatto un torto, i nostri figli che hanno poggiato i piedi su sentieri così diversi dai nostri, le persone che amiamo e che non corrispondono mai abbastanza, le persone che abbiamo giudicato cattive e perse, tutti possono cambiare, il vento della risurrezione soffia nel cuore di ciascuno per condurre tutti nella casa del Padre.
Vivere sapendo che la morte non è l’ultima parola ha senso e non è un inganno: la morte dei nostri cari che ci ha gettato nello sconforto e nella pena, la nostra morte che sentiamo ogni giorno arrivare con le partenze e gli addii dalle persone care, con le rughe che solcano il viso, con i capelli su cui si è poggiato dolce il bianco…ma in noi c’è una scintilla di eternità che sentiamo vibrare ogni giorno di più e che fa correre il nostro tempo verso l’eternità.
Vivere a immagine del Signore ha senso, anche noi spezzati, anche noi servi inutili a tempo pieno, anche noi con le mani trafitte da ferite che però sono diventate feritoie di luce.
Vivere perché la corsa dell’annuncio della Risurrezione non si fermi a noi ha senso ma, come una carezza, da queste mura scenda sulle nostre strade e salga su alle nostre case e dia luce alla nostra città.

Per la celebrazione dell’accoglienza degli oli e della lavanda dei piedi

Questo breve incontro nel pomeriggio, sospeso fra la grande celebrazione della Messa Crismale presieduta dal Vescovo e la Messa in coena Domini, sembra cosa da poco, forse una suggestiva ripetizione del gesto che Gesù fece prima di mettersi a tavola, un preliminare dovuto ma pur sempre fugace. Io invece lo trovo un momento alto che, strappato dalla cornice ritualizzata di oggi, ha una forza provocatoria capace di metterci in crisi, di farci porre interrogativi seri sul nostro Dio che vuole farsi servo dell’uomo; sul nostro essere discepoli di un Maestro così che ha occupato l’ultimo posto e chiede altrettanto a noi; sul nostro essere comunità in Barona dove ci si accoglie e ci si ama per quello che si è e ci si mette al servizio l’uno della debolezza dell’altro, una vera e propria comunità alternativa alla logica del mondo e per questo affascinante; e infine sulla nostra verità, sempre troppo distante, di Chiesa del grembiule, pronta a smettere i segni del potere per stringere fra le mani un catino e chinarsi su tutti gli uomini in povertà, in nome del Vangelo della piccolezza.
Oggi è anche un giorno speciale per noi sacerdoti: si dice infatti che proprio il Giovedì santo, Gesù, con la sua cena, inclusa dunque la lavanda dei piedi, abbia istituito il Ministero Ordinato. È allora il momento in cui dire grazie al Signore per il dono di questa mia vocazione. Lo faccio con questa preghiera che ha guidato i momenti più intensi della mia preparazione all’ordinazione ma che ritrovo ogni giorno più vera.
Signore Gesù, Tu sei i miei giorni, non ho altri che Te nella mia vita. Quando troverò un qualcosa che mi aiuta, te ne sarò immensamente grato; però Signore, quand’anche io fossi solo, quand’anche non ci fosse nulla che mi dà una mano, non ci fosse neanche un fratello di fede che mi sostiene, Tu, o Signore, mi basti, con Te ricomincio da capo. Tu mi basti, Signore: il mio cuore, il mio corpo, la mia vita, nel suo normale modo di vestire, di alimentarsi, di desiderare è tutta orientata a Te. Io vivo nella semplicità e nella povertà di cuore; non ho una famiglia mia, perché Tu sei la mia casa, la mia dimora, il mio vestito, il mio cibo. Tu sei il mio desiderio.
Basta il Signore ma non è mai venuto da solo, si è sempre accompagnato con ognuno di voi, fratelli amati di questa comunità che ho l’onore di servire. Forse questo è anche il momento in cui chiedere scusa, e lo faccio non senza un senso di vergogna, per tutti i miei limiti, i fallimenti, i malintesi, il poco tempo donato a ciascuno con la scusa di dover sempre correre, il successo e il potere ricercato dietro all’apparenza di un servizio, le mie fughe dal campo di battaglia dove si fa più forte la mischia - e chissà che anche i posti vuoti di questo pomeriggio non siano un eloquente rimprovero per il mio sonnacchioso servizio. So però una cosa: vi amo con sincerità, siete parte di me e mi avete reso parte di voi e mi vanto di dirmi della Barona anche se non sono nato qui, sono felice di consumarmi con voi e per voi, cerco in tutti i modi di prendervi per mano e di camminare incontro al Signore anche se mi accorgo di essere più portato da voi che io a trascinare! Ma alla fine poco conta: l’importante è fermarci davanti a lui e lasciarci sommergere dalla sua tenerezza.
La lavanda dei piedi: gesto di servizio disinteressato. Vorrei riflettere con voi sul fatto che ho lavato i piedi a dei bambini, dei giovani e degli educatori che rappresentano l’intero oratorio. All’appello, ma non nel mio cuore, mancano i ragazzi del cortile e quelli più in difficoltà del quartiere perché l’oratorio sono anche loro, l’oratorio è per loro e se non riesce a raggiungerli fallisce la sua missione di essere rete gettata sul quartiere per raccontare la bellezza dell’avventura cristiana.
1 Lavare i piedi ai giovani vuol dire che noi siamo occupati da loro e non preoccupati per loro. I giovani non vogliono accanto a loro persone che mettono prima (il pre della parola preoccupazione lo dice bene!) i loro ideali magari mai realizzati o i loro sogni incompiuti, persone che parlano sulle loro teste. Vogliono compagni discreti di viaggio, persone che li stimano e credono in loro per quello che sanno e possono dare, fratelli più grandi, autorevoli certo, ma comunque in relazione, occupati della loro felicità, solidi come un chiodo piantato nella roccia di una parete di montagna da scalare.
2 Servire e non servirsi. C’è una bella differenza tutta data da quel si, riflessivo, ancora una volta a dirci che i giovani fuggono chi pone il proprio egoismo come obiettivo nella loro educazione. Servire i giovani vuol dire accettare la loro differenza da noi e i loro ideali, significa stare dalla loro parte quando soffrono e anche quando sono felici, vuol dire offrire loro la ricchezza della vita spirituale e di carità e indicare al momento giusto le possibili mete. Servono dunque adulti che per primi queste cose le conoscono, non maestri cattedratici ma testimoni umili e autentici…forse per questo oggi in molti rinunciano ad essere educatori!
3 I loro piedi e non altro…vuol dire che i giovani hanno un cammino tutto loro da fare che non sempre coinciderà con il nostro. Ma possiamo imparare a camminare insieme perché si sa che da soli si va più in fretta, ma insieme decisamente più lontano!