sabato 25 dicembre 2010

Santo Stefano

Con la messa della vigilia siamo entrati nell’ottava del Natale ovvero otto giorni che possono essere considerati come un giorno solo, un arco di tempo che la liturgia gioca a farci vivere come un giorno solo: è troppo grande il mistero che è accaduto, l’evento di un Dio che si fa uomo e va incontro alla sua creatura in uno slancio di comunione e di totale condivisione, che non è possibile costringere la nostra contemplazione nell’esiguità di poche ore. E così il Natale viene approcciato sotto differenti prospettive fra cui quella di Stefano, di san Giovanni Evangelista o i ss. Martiri Innocenti . Dal 1 gennaio, dalla memoria della circoncisione del Signore, il tempo riprenderà a scorrere. Non c’è dunque da stupirsi se oggi non si celebra una messa domenicale, davvero una rarità per il rito ambrosiano, ma la festa di un santo. Stefano, a modo suo, ci racconta il Natale di Cristo.

Alcuni pensieri sparsi

Quasi non abbiamo ancora smesso di cantare le canzoni natalizie e il cuore è ancora commosso di fronte all’evento della nascita di Gesù che già si parla di morte, sangue, martirio. La scena è collocata nei giorni della comunità apostolica, nel tempo che segue la croce e la risurrezione del Signore. Cattivo gusto oppure altro? Nella morte di Stefano leggiamo chiaramente i tratti della morte di Cristo. Il Natale non è lontano dalla Pasqua. Così scrive in una preghiera don Luigi Serenthà

E' Natale, Signore, o già subito Pasqua? Il legno del presepe è duro, come legno di croce. Il freddo ti punge, quasi corona di spine. L'odio dei potenti ti spia e ti teme...quanti segni di morte, Signore in questa tua nascita, comincia così il tuo cammino tra noi, la tua ostinata decisione di essere Dio, non di sembrarlo. Grazie, Signore, per questa ostinazione, per questo sparire, per questo ritirarti che schiude un libero spazio per la mia libera decisione di amarti.

Quel bambino nato per noi non ha mai stretto le sue mani, le sue braccia le ha allargate definitivamente sul legno un giorno diventato uomo, non ha mai trattenuto nulla per sé ma si è dato tutto, senza risparmiarsi in nulla. Ha amato sino alla fine e ci ha detto che la gratuità arriva a dare anche la vita. E se vuoi essere suo discepolo, se vuoi essere dei suoi, non puoi troppo indugiare nello struggimento del canto degli angeli ma devi metterti in camino anche tu, amare nella tua vocazione senza risparmiarti in nulla. Un Dio così è radicale, avvincente ma anche esigente. Chi celebra il Natale deve essere messo di fronte alle conseguenze pericolose che stanno dietro l’adorazione di un bambino in una mangiatoia.

Dio che ti nascondi, Dio che non sembri Dio, Dio degli stracci e delle piaghe, Dio dei pesi e delle infamie, io ti amo. Non so come dirtelo, ho paura di dirtelo perché talvolta mi spavento e ritiro la parola; eppure sento che devo dirtelo: io ti amo! … Nella gioia di questo nascere, nello stupore di poterti amare, io accetto, io voglio, io chiedo che anche per me, Signore, sia subito Pasqua.

Un altro pensiero è per Stefano che, dicevamo, a modo suo, ci racconta il Natale di Cristo. La sua storia mi suggerisce il tema del rinascere. Stefano, non sappiamo bene come e quando, è uomo rinato in Cristo nel battesimo ma che è rinato, per fedeltà al Signore, anche nella disponibilità a servire e ad assumere l’incarico di diacono. È uomo dell’estasi, contempla i cieli aperti, è immerso in Dio. Ma è anche uomo estroverso, sprofondato fra i poveri della terra, perché non si può amare Dio che non vedi se non ami i fratelli a cui sei accanto. Fede e carità non sono mai elementi antitetici ma si richiamano sempre con urgenza. Spesso nascere alla fede fa nascere in noi lo slancio della carità autentica così come è vero che nel servizio all’altro sono nate storie di fede interessantissime. Infine Stefano rinasce anche nel suo martirio, rinasce al cielo, accetta che la Pasqua del suo Signore sia anche la sua. Se contempli il natale di Cristo non puoi non ri-nascere ogni giorno anche tu. Anzitutto questo vuol dire che in Gesù hai davvero la possibilità di ricominciare seriamente daccapo e che non c’è mai un punto fisso su cui puoi essere inchiodato, fossero anche gli errori più profondi e laceranti che ti porti dentro come un’ombra che hai vergogna tu stesso a guardare; ma poi questo vuol dire che dobbiamo rinascere alla maniera di Gesù, essere in questo tempo eco della sua presenza, segno che rimanda a lui, raggio della sua vita con la nostra fede attenta e la carità operosa.

E infine, sempre pensando a Stefano, mi colpisce molto il rapporto singolare che sta fra lui e Saulo che poi sarà Paolo. Stefano nemmeno sa che nel momento della sua morte, con quel modo di morire perdonando e donando la vita, sta seminando il vangelo in un uomo apparentemente chiuso e ostile. La testimonianza, se autentica e non moralistica, non è mai sterile. Il discepolo di Cristo sa che, come lui è rinato, deve generare altri alla fede. Solo qui si dà il compimento di una vocazione. Anche noi, fermi ancora davanti alla mangiatoia, abbiamo fra le mani un incarico e una responsabilità che nessuno potrà portare a termine al nostro posto: raccontare il vangelo alle nuove generazioni oppure dire questa Parola che salva a qualcuno ma in modo che lo Spirito agisca attraverso di noi in lui. Ogni volta che qualcuno nasce alla fede è ancora Natale sulla terra.

venerdì 24 dicembre 2010

Natale, messa nella notte

È Natale! L’oggettività dell’evento oltre il nostro sentire

Viene il Signore, ormai l’ora è giunta. E viene non perché la città è vestita a festa; non perché questo mondo assomiglia particolarmente al Paradiso; viene anche se non sentiamo più la magia del Natale e un po’ ce ne dispiace e ci sembra di tradire il senso di questo giorno; viene non perché siamo giusti, anzi, viene proprio per farci giusti, strappandoci all’abisso della nostra disperazione. Viene il Signore in punta di piedi e passa sulle nostre strade, sfiora le porte delle nostre case, anche quelle blindate dalla paura o dall’indifferenza, quelle dove ogni giorno si lotta, si spera, si fanno i conti con la precarietà, la perdita del lavoro, la malattia. Viene il Signore dove c’è violenza, dove c’è la guerra, dove i diritti dei poveri vengono calpestati, dove la vita dei piccoli è ferita e lui, piccolo con loro, tende la mano e rende giustizia, riaccende i sogni e la speranza, restituisce dignità. Viene il Signore, è una certezza, e il suo è un Natale buono per noi, e ce lo diciamo: buon Natale!

Il Verbo si fece carne, l’infinito e l’eterno nel de-finito e nel tempo, mistero di solidarietà.

Il Verbo si fece carne: in tutta la loro austerità, queste parole raccontano il Mistero di un Dio che ha deciso di abitare la nostra città piantandovi i paletti della sua tenda, di accogliere la sfida del tempo, di essere nostro compagno in tutto, anche con quella sete di eternità per cui vorremmo fermare l’attimo in cui siamo felici, anche nel nostro bisogno di infinito che sentiamo quando non siamo con le persone che più amiamo. Il tempo con il suo logorio oppure con la sua rapidità che sconcerta; lo spazio che a volte ci sembra prigione, limite invalicabile, sono illuminati ormai dal di dentro, sono riscattati, gli appartengono. E, presi per mano da lui, ci avviamo verso l’eterno e l’infinito perché la comunione dà a lui ciò che è nostro, ma dona a noi ciò che è suo.

Il Dio dell’Alleanza si fa bambino, questo è il modo migliore per raccontarsi alla sua creatura. È tenerezza assoluta, così, di fronte a noi, ci è chiaro che non è davvero venuto a togliere nulla ma a dare tutto, ci chiede, arreso e con le braccia allargate, ritratto per fare spazio alla nostra libertà, di volergli bene.

Un Dio che dà valore al corpo e che lo abita in tutta la sua potenzialità d’amore; un Dio che sa il peso della carne, della sofferenza, che si fa crocifisso e che soffre. Di fronte al dolore del mondo, all’ingiustizia che schiaccia i poveri e che ho trovato in certe case, alla solitudine a cui sono abbandonati con troppa facilità i nostri ragazzi o al nulla e al non senso che divora i più fragili dei nostri giovani; il pensiero fisso, quasi ossessivo delle cicatrici nel cuore e sul corpo dei bambini di Sarajevo mi convincono che non possiamo più credere in Dio, ma è straordinario credere in un Dio così! Impazzirei al pensiero di un Dio lontano, distante, arbitro imparziale di fronte al male che distrugge i piccoli del mondo: invece è consolante trovarlo nella mischia, accanto a chi soffre, spalla contro spalla, ultimo fra gli ultimi ad aprire la strada verso un oltre che è riscatto. E se lo vogliamo trovare, da quel giorno, dobbiamo stare anche noi fra i poveri della terra.

La grammatica della nostra vita non può più essere la stessa dal momento che abbiamo incontrato il Verbo fatto carne. Giovanni dice che chi lo accoglie riscopre il potere di diventare figlio di Dio. Ho pensato che sei figlio di Dio se ritrovi lo stupore ogni mattina perché sai che, nelle vene della storia, c’è la Storia di un Dio alleato dell’uomo e che a noi non mancherà nulla altrimenti ce lo avrebbe già dato.

Sei figlio di Dio se per questo conservi il sorriso

Sei figlio di Dio se hai una speranza accesa nel cuore che non è ottimismo, che va oltre ogni paura, ed è la convinzione di un amore che sempre ci precede.

Sei figlio di Dio se trovi in lui il principio del riscatto, e per questo sai ricominciare sempre daccapo.

Sei figlio di Dio se fai del tuo corpo una dedica d’amore al mondo.

Sei figlio di Dio se lotti per la dignità di ogni vita perché sai che ogni uomo è stato amato a caro prezzo.

Sei figlio di Dio se fai delle sue scelte le tue scelte, delle sue idee fisse i principi su cui più intestardirti: la rivoluzione di un Regno che sovverte ogni potere forte e mette i poveri al centro.

Sei figlio di Dio se sei coerente e perdi tempo con chi meno lo merita sapendo che non è mai tempo perso, se ami in gratuità quando meno l’altro se lo aspetta.

Sei figlio di Dio se sai tessere una trama di unità in ogni angolo che ti trovi ad abitare perché hai scoperto che Dio è comunione.

domenica 19 dicembre 2010

VI di Avvento, della divina maternità di Maria

Penso siano due le sottolineature di questa domenica ultima di Avvento, immersa nella Grazia dei giorni imminenti al Natale, detti giorni di colui che è accolto. Da una parte c’è un rincorrersi di parole che liberano la gioia perché è vicino il giorno del Signore e dall’altra ci viene chiesto di fermarci a contemplare Maria, a farci prendere la mano da lei che è madre perché dal suo sì abbiamo ricevuto Gesù e sorella perché i suoi passi devono diventare anche i nostri.

A proposito della gioia per il Natale ormai prossimo basta dare eco alla lettura di Paolo. Dobbiamo ritrovare quel sorriso che nessuna preoccupazione o nessuna tristezza possono spegnere. Dio infatti si è fatto vicino, ci tende la sua mano, si fa uno di noi per farci diventare come lui, ci mette a parte della sua vita, porta a compimento in noi quella nostalgia di eterno e di infinito che ci portiamo nel cuore. Un Dio così porta scritto sul palmo della sua mano il nostro nome e non ci fa mancare nulla di quanto è necessario. Ed è per questo che la comunità non può essere affannata, disperata, sempre intenta a inseguire nell’ansia ciò che pensa di non avere. La comunità che celebra il Dio fatto carne sprizza gioia, pace e accoglienza. È una comunità che si fa testimonianza aperta senza il bisogno di troppe parole ma con i fatti. Se forse siamo poco accoglienti è perché siamo a corto della fede nel Dio che ci ha accolti nel suo abbraccio.

A proposito di Maria e della sua maternità penso sia corretto assumere una doppia prospettiva: una che dica la sua totale singolarità, che la rende unica, se vogliamo, anche distante da noi e dai nostri giorni; ma poi ci dobbiamo anche chiedere che cosa il suo esempio è da trascrivere nella grammatica dei nostri giorni e della nostra vita, in che cosa davvero ci è sorella

Maria e la sua singolarità.

Vergine e madre.

In lei c’è un mistero che racconta l’incontro singolare fra il mondo di Dio e quello dell’uomo. In lei e solo in lei c’è un abbraccio fra il cielo e la terra. In lei l’eterno si dà nel tempo, l’infinito si racchiude nel de-finito e grazie a lei Dio si fa dono.

La ragazza di Nazareth aperta al mistero di Dio: Maria, donna del suo tempo.

Della vita da adolescente di Maria sappiamo poco – probabilmente in quegli anni così veloci e drammatici si inscrive la pagina che abbaino letto oggi – possiamo però presupporre che fosse una ragazza semplice, umile, nascosta, con tante prospettive sul suo futuro come altre in quel piccolo villaggio; ma allo stesso tempo è una donna aperta a Dio e alla sua Parola, vive una quotidiana familiarità con il Dio dei padri tanto che non si spaventa quando l’angelo entra in casa sua.

La sposa di Giuseppe e il suo rapporto con Gesù di madre e di discepola.

E poi Maria ha avuto la grazia di essere sposa di un uomo di grande fede e capace di sognare come Giuseppe, avrà trovato in lui il sostegno e la forza in tanti momenti difficili e in lui un complice con cui intendersi anche solo con uno sguardo, un uomo innamorato capace di riconsegnarle la felicità e compagno con cui condividere la fede. Maria è stata poi la mamma di Gesù, di quel bambino su cui riposa tutta la speranza d’Israele, un dono prezioso da proteggere e amare e di cui un giorno diventare discepola. Ma pur sempre un bambino che ha avuto i suoi stessi occhi, le sue stesse espressioni, i suoi tratti che lo rendevano riconoscibile agli occhi dei nazareni proprio come il figlio di Maria. E lei ha avuto per lui mille premure e mille attenzioni come solo una mamma può avere. Gli ha insegnato certamente a parlare, a camminare, a non perdersi nei capricci inutili di ogni bambino, l’obbedienza a Giuseppe e poi di certo è stata lei a insegnargli a pregare e ascoltare la Parola. La divinità non toglie nulla ma anzi rende ancora più pienamente umana questa maternità.

Ma dicevamo che questa festa dice anche noi qualcosa e vuole dettare il passo per la nostra spiritualità.

Anzitutto ci viene detto che, come per Maria, anche per noi la piccolezza e debolezza sono le condizioni per accogliere la grandezza e la forza di Dio. Dio non cerca in noi eroi che emergano con le loro capacità e le loro abilità, ma persone che si lasciano sommergere dalla sua tenerezza. E più si è deboli, nascosti, semplici, come matite nelle sue mani, e più si è adatti all’amore di Dio che trasforma e modella. La casa di Nazareth in cui si è fatto presente l’angelo può essere anche la casa più nascosta e umile della Barona.

Saperci scelti e amati: questa, come per Maria, è la nostra condizione. Dio sceglie noi e proprio noi perché ci ama e ci affida un tratto del suo disegno per rendere questa terra simile al Regno dei cieli. Se sentissimo fino in fondo quanto Dio ci ama noi non resisteremmo alla gioia, saremmo persone profumate di speranza, sentiremmo il bisogno di danzare e metteremmo le ali.

E infine la vicenda di Maria ci ricorda che nei nostri sì Dio ha deciso di trascrivere il suo Sì all’umanità. Ciò che noi scegliamo vale per l’eterno e scrive un tratto di storia che nessun altro al nostro posto potrebbe portare avanti se noi dicessimo no.

Gioisci Maria, piena di Grazia, prega per noi perché anche noi ci sentiamo colmati del suo amore che tutto giustifica e tutto fa nuovo. E donaci una scintilla della tua gioia perché possiamo mettere fuoco al mondo intero.

domenica 12 dicembre 2010

V di Avvento

Il nostro cammino in questo tempo di avvento, con questa domenica, arriva decisamente ad una svolta. Se infatti nelle scorse settimane abbiamo riflettuto sul Mistero di un Dio che ha mantenuto fede alle sue promesse affacciandosi sullo scenario della storia dell’uomo e che ritornerà nella sua gloria, con oggi vogliamo sentire il palpito dell’antico Israele, farci compagni di quella folla che attendeva la venuta del Messia: è come un gioco a tirare indietro le lancette del tempo perché in noi si accenda il desiderio di vedere il volto di Dio e poi stupirci di averlo incontrato in Gesù di Nazareth proprio come accadde oltre duemila anni fa ai giusti d’Israele. Solo se desideriamo vedere il Signore, solo se sentiamo di avere bisogno di lui in questo scorcio della nostra vita, solo se sapremo trovare in lui la sorgente che sazia la nostra voglia di infinito e di eternità, solo se capiamo che lui ci prenderà dall’alto per dare senso alla nostra gioia e alla nostra sofferenza sarà davvero Natale.

Tappa obbligatoria è la riva del Giordano dove predica e battezza Giovanni. Di lui si dice nel Vangelo che è il testimone della luce perché tutti credessero per la sua Parola oppure, nella lettura profetica, si dice che è il messaggero che prepara la via.

Giovanni chiedeva alla gente che accorreva a lui di cambiare vita, di allargare lo spazio della tenda del cuore per accogliere il Messia e il suo giorno. Anche a noi la sua voce ricorda che ci sono ostacoli del cuore che impediscono a Gesù di fare comunione con la nostra vita. La ricerca del potere, del successo e dell’apparire diventa altare su cui immolare la parte migliore di noi e ci fa dimenticare ciò che più conta. Questa è la radice del male che c’è nel mondo e nessuno di noi è escluso o può dirsi al riparo.

Giovanni era l’amico dello Sposo che ha saputo farsi da parte perché il suo popolo, come una sposa, incontrasse il Dio dell’Amore. Anche noi siamo chiamati a vivere il nostro incontro con Gesù come una sposa. Il nostro Dio infatti è anzitutto amore, ciò che meglio lo descrive è la metafora sponsale, è dono totale di sé senza risparmiarsi in nulla, non ha altri strumenti per avvincere la nostra libertà se non quello di un amore totale. E più lo ameremo e più lo conosceremo. Senza slanci estatici difficilmente comprenderemo la radice della nostra fede che è tutt’altro che moralismo sbiadito ma piuttosto avventura appassionante e coinvolgente che dà le ali al cuore.

Giovanni era un testimone e ci insegna a guardare non al dito ma a ciò che esso indica. Mentre Gesù passava lo chiama Agnello di Dio che toglie il peccato, il male che è in noi, dal mondo. A quelle parole alcuni dei suoi discepoli si staccano da lui e iniziano a seguire il maestro di Nazareth, avvertono che c’è in lui una promessa di felicità che il Battista non poteva donare. La gioia sta tutta nel poter essere persone nuove totalmente libere dal male che sfigura la nostra bellezza e la nostra dignità. Con Gesù anche noi possiamo ogni giorno ricominciare daccapo perché è uno che il nostro male, i nostri sbagli, quel senso di colpa che ci soffoca, se lo prende in carico e se lo getta alle spalle per sempre.

Ma credo che questa domenica abbia anche un altro messaggio da darci. Se oggi avremo ascoltato Giovanni e ci saremo lasciati portare per mano da lui all’incontro con Gesù, per riscoprire il suo volto, ci sentiremo noi stessi investiti del compito di diventare per qualcuno testimoni del Messia e della sua presenza nelle vene della nostra storia. Dobbiamo lasciare la chiesa in cui siamo entrati con una certa rapidità perché fuori c’è un mondo di persone che attendono la nostra testimonianza come il deserto l’acqua per poter fiorire. Non si attenderanno da noi una lezione, non una nota moraleggiante, vorranno scorgere sul nostro volto il sorriso di chi ha incontrato una Speranza per poter vivere.