domenica 28 febbraio 2010

II di quaresima

Caro Pietro,
anche qui a Sicar in Samaria non si parla d’altro che di voi e della vostra comunità.
Abbiamo saputo dei giorni violenti dell’ultima Pasqua, della morte del Maestro e, sono certa di interpretare il pensiero di tutti noi, proprio non riusciamo a spiegarci come sia potuto accadere – ma questa è solo una delle cose che non capiamo di voi Giudei! – ; sappiamo anche della voce sempre più insistente sulla sua Risurrezione – e non fatico a credere che la Vita non può essere arginata – e del resto, il vostro coraggio, ne è una testimonianza.
La mia vita scorre tranquilla ai piedi di questo monte: non ho più bisogno di salirci per convincermi di piegare la benevolenza di Dio con le mie offerte, né ho mai pensato di trasferirmi da voi; il tempo in cui sognavo di fuggire via da tutto e da tutti è finito: Dio è in me e la sua tenerezza mi abbraccia e mi dà il coraggio ogni giorno di essere autentica. Ora vivo da sola. Alla fine anche l’ultimo compagno di viaggio si è rivelato un abbaglio: gli uomini non sanno mentire e di me, come gli altri del resto, voleva soltanto fare una preda, un terreno di conquista.
Ho preso il coraggio fra le mani e mi sono decisa a scriverti questa lettera: forse queste righe potranno esserti utili un giorno se dovrai raccontare ai tuoi fratelli chi era il Maestro e come sia bastato un incontro per far rinascere una vita, la mia.
Avevo vergogna allora anche solo ad uscire di casa, a incrociare lo sguardo cattivo della gente, anche di quegli uomini che di notte ti sognano e poi di giorno si allineano come ipocriti al giudizio degli altri. Anche quel giorno volevo solo fare in fretta. Vedere un uomo a quel pozzo mi ha preoccupato. Sentire che voleva bere dalla mia anfora mi ha fatto tremare di spavento. Ostentavo sicurezza ma dentro di me il cuore batteva forte; ho risposto mettendomi sulla difensiva e avevo solo voglia di fuggire. Ma il suo sguardo aveva un qualcosa di diverso, le sue parole erano sì misteriose ma cariche anche di una promessa. Pensavo di dover scendere nella profondità di quel pozzo con la mia anfora e in realtà lui è sceso nell’inferno della mia esistenza: mi ha detto tutto quello che avevo fatto e non mi giudicava, mi conosceva e mi faceva sentire amata, spalancava davanti a me una possibilità di una vita diversa proprio mentre io mi ero rassegnata a sopravvivere divorata da mille e più sensi di colpa. Ho capito così che non era uno come gli altri, non pretendeva ma dava amore e per questo era un profeta, un uomo di Dio, il suo Messia come poi mi ha rivelato. Voleva acqua da me e in realtà è stato lui a darmi Verità come una sorgente freschissima di cui non ho più potuto fare a meno. Abbiamo parlato di Dio, io che lo vedevo come un Giudice che presto o tardi mi avrebbe fatto scontare tutti i miei sbagli, del suo essere Spirito e Verità – le sue parole me le porto scolpite nel cuore – che proprio mentre fa luce nel cuore ti fa sentire amato, prediletto come un figlio. Quel giorno Gesù ha guarito la mia memoria e mi ha dato le ali della fede. E mi sembrava davvero di volare quando ho lasciato la mia anfora e sono corsa a chiamare tutti per portarli da quell’uomo che era la presenza di Dio con noi. Come sono stata sfacciata a ben pensarci ma chissà anche quanta convinzione se sono riuscita a tirare lì l’intero paese! Ma ho capito solo adesso che Dio fa di creature fragili, come sono io, testimoni della sua potenza, di peccatori in conversione annunciatori della sua Misericordia.
Un giorno spero che i discepoli di Gesù, che so sono sempre più numerosi fra voi, non pensino che credere sia un’osservanza esteriore di precetti e norme, che non dimentichino mai che la vera fede nasce dall’incontro con lui, che l’avventura credente sgorga solo quando lasci che la sua Parola riconcili la tua vita.

Con affetto
La donna di Samaria

sabato 20 febbraio 2010

prima di quaresima

un’immagine e un piccolo dizionario
Quaresima, un itinerario che va dalla testa ai piedi, dice don Tonino Bello in una delle sue riflessioni. La Quaresima in effetti inizia con la cenere sul capo e termina con l’acqua sui piedi alla sera del giovedì santo: un segno penitenziale e uno di servizio. Dalla testa ai piedi è un itinerario apparentemente più corto di due metri ma che in realtà è una parabola di una conversione non indifferente che ogni anno ci viene ricordata: il cammino cristiano è sempre un partire dalla propria pochezza e insufficienza per poi, raccolti nell’abbraccio della Pasqua, decidere di essere in tutto come Gesù, anche noi capaci di carità autentica.
Buon cammino a tutti! L’augurio è per ognuno di partire dalla propria testa, di scegliere in tutta libertà di rimetterci alla scuola di Cristo, per poi arrivare ai piedi di qualcun altro, fratello o sorella, che attende il nostro servizio per poter rinascere.
Vorrei ora sfogliare con voi un piccolissimo dizionario dei termini più importanti della Quaresima o, se preferite la metafora del viaggio, una guida per non rimanere disorientati dalle molte suggestioni.
digiuno e penitenza, ovvero l’educazione della libertà. Sono 2 parole assolutamente fuori moda, sembrano un retaggio dei tempi passati quando tutto attorno a noi, e dunque in noi, parlava cristiano. Mi piace invece la temerarietà della Chiesa, che con una pazienza millenaria, non smette di raccomandarne la pratica. Digiuno e penitenza sono privarsi di un qualcosa per correggere qualche cattiva abitudine, qualche tendenza che ci allontana dalla logica del Vangelo; è come rimettere il piede sul freno di una macchina troppo accelerata di cui rischiamo di perdere il controllo; è riprendere con coraggio in mano il destino della propria vita e non permettere che altri o altro rispetto a noi la vivano al nostro posto. La regola di astenersi da qualche cibo il venerdì è solo un’indicazione perchè poi ognuno aggiunga la sua penitenza: ripensando alla propria vita, che cosa ha ingabbiato la nostra libertà che si era decisa per Gesù? E così qualcuno potrà scegliere uno spazio preciso e un tempo più disteso per la preghiera, qualcun’altro dovrà fare i conti nel regolare meglio il tempo; altri dovranno lavorare sul linguaggio sapendo che la lingua uccide più della spada mentre altri ancora dovranno interrogarsi sul proprio rapporto con le ricchezze (cf. il Discorso della Montagna, Mt 5,1 ss.).
Memoria battesimale: questa parola ricorre soprattutto nella nostra liturgia ambrosiana che ricalca l’itinerario che i catecumeni dovevano affrontare nell’ultimo tratto che li separava dalla celebrazione del Battesimo. Ricordare è esercitarsi nella gratitudine per la Grazia che ci precede: noi siamo figli di Dio innanzitutto e nonostante tutto, il resto è non sciupare la nostra chiamata alla santità. In questa prospettiva si capisce allora perchè il peccato è un’occasione persa, un perdere posizione, un vero e proprio peccato, appunto!
Purificazione: di domenica in domenica la quaresima ci farà passare attraverso il fuoco della Parola del Vangelo di Giovanni, per riordinare la memoria, le azioni, lo sguardo, le paure e le relazioni. Il Signore ci chiede l’autenticità, quaresima è bandire le mezze misure. Sicuramente in almeno uno di questi aspetti, dobbiamo lasciare alla Grazia di rimodellarci.
Sproporzione, quella che ci sorprenderà alla fine di questi 40 giorni fra noi e Gesù che si è consegnato per amore nostro e ci ha amati sino alla fine. Non sapremo mai emergere con le nostre opere, le nostre capacità: il cristiano è uno che si lascia sommergere dalla tenerezza di Dio.
La Liturgia di oggi però ci ricorda che la condizione per fare quaresima sta nel voler entrare nel deserto, metafora di cammino, certo anche di fatica, ma soprattutto di un nuovo tempo di amore per il nostro Dio. Ma tutto dipende dal nostro sì. E ancora siamo chiamati a scegliere di convertire la nostra direzione incerta sulla bussola delle stesse scelte di Gesù. Il Pane è segno della ricchezza e dell’immediatezza: Gesù sceglie la fede e l’ascolto della Parola, oppone a quella logica il suo rapporto con il Padre. La povertà è il segno evidente che nella vita basta Dio e i doni che lui fa, contro ogni ansia, contro ogni fame. Gettarsi dal Pinnacolo del Tempio è la tentazione dell’apparire, del successo, di misurare ogni azione con i parametri degli applausometri o dell’audience, è smarrire, alla lunga la propria libertà e diventare, in nome della popolarità, ricattabili. Gesù sceglie la semplicità. Non vorrà trattenere nemmeno uno dei suoi discepoli con numeri di magia strabilianti ma vorrà conquistarli con la sola forza dell’amore. E infine ecco comparire la tentazione del potere, la più insidiosa, la più attraente perchè quasi convince l’idea che solo il dominio potrà cambiare il mondo. Gesù sceglie il servizio e di sprofondare povero fra i poveri convinto che le cose si possono cambiare solo dal di dentro. E noi in cosa dobbiamo orientarci meglio, a cosa dobbiamo voltare le spalle per fare nostra la strada di Gesù?

sabato 13 febbraio 2010

ultima domenica dopo l'Epifania

La liturgia di queste due domeniche ci sta aiutando a preparare il cuore alla quaresima che è ormai alle porte. In quel tempo la Parola si farà spada che penetra nella profondità della nostra vita per purificare il cuore, per azzerare le nostre distanze da Gesù, per darci il giusto slancio scuotendoci dalle nostre inerzie e sclerotizzazioni. Il richiamo al perdono oggi, e alla divina clemenza settimana scorsa, però ci ricordano che non si muove nemmeno un passo sul cammino di santità se prima non ci si scopre amati teneramente, raccolti nell’abbraccio del Padre, sorretti dal perdono ogni volta che cadiamo. È come nell’educazione: i ragazzi, soprattutto quelli in difficoltà, raramente cambieranno uno stile di vita distruttivo in nome di qualche obbligo, di qualche buon precetto moralistico o per paura di un castigo; sapranno diventare uomini, prenderanno il volo nel cielo della vita solo se capiranno per chi farlo (il perché lo sanno bene, fino alla nausea!), perché si sapranno amati da qualcuno, perché al loro fianco avranno scoperto una persona capace di sporcarsi le mani con la loro storia anche nei momenti più difficili.
Perdono significa dono grande, extra, smisurato, inestimabile. Mi piace rimarcare questa idea di infinito: nella Parola si dice anche che come dista l’oriente dall’occidente così Dio allontana da noi le nostre colpe e come è alto il cielo sulla terra così è grande la sua Misericordia. Il perdono è come un nodo che viene fatto alla corda della nostra amicizia con Dio recisa dal nostro peccato: più nodi ci sono e più i due estremi si avvicinano, più Dio rivela in noi la forza del suo perdono e più ci riconduce a casa, ci avvicina a sé, ci fa simili a lui.
Nella prima lettura si sottolinea la diversità fra noi e Dio: noi possiamo perdonare a chi ci sta accanto mentre Dio perdona l’umanità intera. In effetti la nostra capacità di perdono è molto limitata, non è mai immediata – stento davvero a credere in chi, dopo magari un torto anche grave, è subito pronto a sbandierare il suo perdono – e va esercitata proprio pregando tanto e soprattutto lasciandosi riconciliare all’infinito dal Padre: non a caso nella preghiera del Padre nostro continuiamo a chiedere aiuto nel perdonare gli altri perché Dio perdona a noi.
Ma ora vorrei con voi sottolineare almeno un passaggio del brano evangelico che in sé è molto eloquente e su cui invito ognuno a tornare magari preparando il proprio esame di coscienza per una confessione che ci faccia entrare bene in quaresima. Mi colpisce anzitutto questo scambio di sguardi che passa fra Gesù e Zaccheo arrampicato sul sicomoro. È il capolino di due storie, di due alterità che si incontrano e si donano l’una all’altra. Zaccheo con la sua vita piena di sbagli e di solitudine, Gesù con la sua esasperata voglia di cercare uno ad uno chi si è perso nel sentiero della vita, fino a scendere nei dirupi più profondi e nei meandri più nascosti. Zaccheo si scopre amato come non mai in quello sguardo, si sente ricercato, voluto, oggetto di attenzione e di tenerezza e scende subito dall’albero. È veloce anche a cambiare rotta e a ricambiare con quattro volte tanto quanto aveva rubato. Questa è la parabola della nostra fede: ci si lascia raggiungere da Dio anche nelle regioni più in ombra del nostro cuore, dove tutti noi abbiamo qualche ferita, ci sentiamo inchiodati a qualche colpa, quella parte segreta che abbiamo paura a raccontare anche a noi stessi. E quando scopriamo che Dio ci ama per quello che siamo e vuole ricucire il suo amore con noi proprio a partire dalle nostre debolezze in noi rifluisce la vita come a primavera, sentiamo l’impulso di amare come ha fatto lui; sono sempre più persuaso che, se non scopriamo sulla nostra pelle cosa significa il perdono, difficilmente saremo discepoli: forse saremo solo praticanti di una fede monotona e vuota come quella della folla anonima che non manca di rumoreggiare per la decisione di Gesù di entrare a far festa nella casa di Zaccheo.
Vorrei concludere infine con due appelli. Il primo me lo suggerisce il passaggio di questa seconda lettera di Paolo ai Corinti in cui invita la comunità intera a perdonare di cuore quel tale che probabilmente lo aveva offeso nella persona di un suo rappresentante. La comunità cristiana, se vuole riscoprire il suo fascino, è chiamata ad essere luogo del perdono e dunque della festa. La nostra comunità che dice di incontrare il Signore nella Parola e nei Sacramenti, che vanta numerosi progetti di carità, forse dovrebbe esercitarsi di più nell’arte del perdono, nell’accogliere l’altro che ci sta accanto proprio a partire dalla sua debolezza, dalle sue ferite e dal suo peccato. Non si può celebrare il Cristo e pugnalarsi a vicenda chiudendosi in piccoli gruppi che alzano fra loro barricate di pregiudizio.
L’ultimo appello è ad ognuno e a me per primo: oggi la vita conduce molte persone su sentieri insidiosi, pieni di inciampi e di continue soste; oggi la corsa di ogni occupazione tende a frammentare e a distruggere il cuore così che ciò che a noi sembra evidentemente giusto per molti è assolutamente relativo. Dobbiamo unire alla critica profetica sempre il sorriso misericordioso, dobbiamo mostrare il volto di un Vangelo che profuma di perdono: è il prezzo di una fede che vuole farsi contagiosa.