sabato 10 novembre 2012

Domenica di Cristo Re dell'universo

Mi piace che sia proprio la festa di Cristo Re dell’Universo a chiudere l’anno liturgico. Forse il titolo di re a noi non dice molto…chi decise di fissare questa festa, negli anni difficili dei totalitarismi, quando il mondo vibrava sotto il vento delle promesse di uomini forti, violenti, cinici, voleva centellinare nelle parole e nei segni di un rito l’idea di un Dio confonde con la sua logica la logica del potere, che il paradosso della sua debolezza è la vera forza, che ai suoi occhi conta quanto noi abilmente scartiamo perché riteniamo di poco valore; Dio solo saprà tirare alla fine i cardini della Storia, raccogliere fra le sue mani le nostre storie, anche quelle in tonalità minore e che non appariranno mai negli annali ufficiali, e dirà una parola di Giudizio che è speranza perché l’unico metro che stringerà fra le mani sarà quello dell’amore. Non conteranno le nostre alchimie esistenziali, i nostri buoni discorsi, le nostre corse, i nostri progetti…non conterà nemmeno la fede:  ma solo la fede e le mille strategie che avranno gettato legna sul fuoco della Carità, l’unico tratto che ci renderà riconoscibili come figli ai suoi occhi.

E proprio a un Signore così vorrei, questa sera, consegnare la mia preghiera e la mia vita.   

Io non credo più ai segni del potere mi convince il potere dei segni, del segno della croce
Signore, questa sera di fronte alla pagina di questo Vangelo, allo scarno ma evocativo discorso che è la tua croce, sento il peso quasi scandaloso dell’alternativa che tu sei stato per noi. Non hai mai ricercato il potere, non hai mai assecondato la tentazione di schiacciare con la forza la libertà dei tuoi figli. Sei passato in mezzo a noi e ti sei messo all’ultimo posto, fino alla fine, per poter servire ognuno e particolarmente chi la vita ha inchiodato a mille delusioni o alla povertà o condannato all’esclusione e alla sofferenza. Hai invece pensato ogni giorno di regalarci segni di un amore paziente, di un lento seminare, di un investimento nella tua creatura e nella sua dignità. Hai scelto il potere dei segni. E alla fine il segno della croce. Quando cioè hai capito che oltre ogni parola bisognava consegnarsi, spalancare le braccia, ritrarti perché noi potessimo dire liberamente il nostro sì e convincerci che Dio non ha altre pretese su di noi se non quella di amarci e fare comunione, ti sei lasciato inchiodare. E da quella prospettiva dici il perdono, dici una misericordia senza fine, inauguri il tempo di un mondo nuovo e di un modo nuovo di amare. Perdonami per tutte le volte che batto il sentiero opposto, per quando mi lascio convincere, oltre le migliori intenzioni e i discorsi più belli, che conta alla fine solo chi ha successo, apparenza e potere. Perdona quando le nostre comunità vivono cercando consolazione nei numeri o nelle conferme degli applausometri. Perdona per quando la tua Chiesa si fa ancora connivente con il potere e i suoi segni e dimentica che solo facendo sua come te, in memoria tua, la sua croce potrà tornare ad essere credibile.  

Io non credo più in Dio, credo nel Dio crocifisso
Mi sento di dirti questo, Signore, questa sera. Non credo più in Dio perché ho incontrato la povertà senza riscatto; ho incontrato i piccoli che pagano l’ingiustizia dei grandi nei termini della fame, della violenza, della disperazione; ho visto che l’uomo può decidere di distruggersi senza che nessuno possa fermarlo; ho visto in non pochi giovani la noia che li uccide. Ho visto e non credo più in Dio…credo nel Dio crocifisso, che dà risposta alla mia ricerca di verità, che si fa compagno proprio di questi ultimi, che dà senso e valore alla sofferenza se vissuta con amore, che quando si abbassa è allora che riceve vita e risurrezione ed è preludio di un’alba di rivoluzione, che mi indica un cammino diverso e mi dona le lenti nuove con cui posso giudicare il mondo non in modo superficiale ma con gli occhi di chi scopre, dietro alle ferite, le feritoie di luce, dietro alle crepe e al diroccamento il progetto di un nuovo edificio.

Io non ho paura…so che mi abbraccia il perdono
Se mi perdo nell’infinito delle mie debolezze e dei miei limiti, se lascio che in me risuoni solo l’eco dei miei sbagli, se conto il tempo perso dietro a tutto ciò che non ha valore provo paura e angoscia. Io non ho paura e mi sento come un bambino felice se invece lascio dilagare in me la tua voce che al ladro e a tutti i derelitti della storia come me promette perdono, abbraccio, vita nuova, eternità, riscatto strappato all’ultimo istante; perché ciò che conta non è il tracciato del percorso e se è segnato da buche, tornanti e sentieri senza via d’uscita ma solo arrivare alla meta e farsi raccogliere da te.

Io non ho più così paura a scegliere di spezzarmi come te.
Perché tu hai aperto una strada e altri dietro di te ti hanno seguito e mi danno il coraggio di dire il mio sì e ogni giorno prendere il mio destino e decidere di mettermi in gioco per amore, costi quel che costi.

domenica 4 novembre 2012

seconda domenica dopo la Dedicazione

Penso che sia semplice cogliere il filo rosso che collega questa domenica alle altre due. Abbiamo celebrato la festa della dedicazione del Duomo, abbiamo riscoperto quindi che la Chiesa, questa Chiesa che vive sulle nostre strade, fra le nostre case che è, come amava dire papa Giovanni XXIII, fontana del villaggio, è parte, non esclusiva, ma fondamentale della storia della salvezza e, per non tradire se stessa e soprattutto il suo Signore, deve lasciarsi condurre dal Vangelo fino agli estremi confini. Oggi, se volete sotto un’altra prospettiva rispetto a quella di domenica scorsa, ci viene detto che la nostra missione è preceduta, o meglio sarebbe dire, prende forma, dal sogno che Dio ha che ogni uomo conosca il Vangelo della Misericordia.
E così la Chiesa vive in sé questa contraddizione di termini che disorienta anche le leggi sociologiche di base che indicano nell’autoconservazione la logica di ogni gruppo: è comunità ben definita ma sempre aperta; pur dovendo porre un recinto per rendersi visibile non può mai alzare un muro invalicabile fra sé e il mondo, non può mai dirsi sufficientemente satura; mentre accoglie in casa un nuovo fratello e lo fa accomodare, Dio le chiede di non chiudere alle sue spalle la porta perché qualcun altro sta già entrando; mentre si prende cura di alcuni fratelli e passa fra loro a lavare i piedi, Dio le chiede di sorridere a qualcun altro che sta cercando una via d’accesso per ricevere sui suoi piedi la stessa acqua calda del servizio; e quando vorrebbe alzare gli argini, chiudere la porta per stringere fra le mani ciò che ha già credendo che le basti, lo Spirito la chiama a guardare oltre.

Vorrei lasciare emergere dalle letture appena ascoltate le diverse prospettive di quel sogno che il Padre nutre perché ogni uomo conosca la sua salvezza. Perché il nostro è un Dio così: vigile, che guarda sempre oltre i confini e immagina l’accesso di nuova gente nella sua tenda e si adopera perché la sua casa sia sempre più larga, più spaziosa, più comoda al rischio di aprire un cantiere infinito, al rischio di rendere provvisoria ogni struttura, modificabile nel tempo e per questo elastica. Il Dio dell’Alleanza è tutt’altro che rigidità.

Nella lettura Isaia ci racconta la predilezione che Dio ha anche per uomini e donne di confini lontani, che non appartengono al Popolo che lui da sempre si è scelto. Queste parole sono come una benedizione, una carezza che placa l’ansia di felicità dell’ uomo. Ogni uomo porta nel cuore una nostalgia profonda di Dio che lo spinge ad alzare le sue mani verso il cielo nei momenti di dubbio, paura ma anche di fronte allo stupore della vita e del mondo. Aldilà di ogni percorso tortuoso, spesso ad andamento sinusoidale, Dio raccoglie nel suo abbraccio la sua creatura e la stringe a sé con una premura infinita.

Paolo invece ci ricorda che l’Amore di Cristo, niente di più grande l’uomo poteva conoscere di Dio, ci ha preceduto. Non abbiamo fatto nulla per meritarcelo, non ci salviamo con le nostre forze ma c’è in principio un dono, un amore che si piega sui nostri limiti e sulle nostre ferite e le rende feritoie di luce. La prima parola che Dio pronuncia sulla tua vita è perdono, il tuo passato lo chiama perdono, i tuoi sbagli li butta come un anello in un oceano, il tuo presente si riempie di futuro e tu ti scopri qui e ora parte di una nuova avventura sospesa fra l’estasi e l’estroversione, cioè fra la contemplazione grata di quello che lui ha fatto per te e la vocazione di essere segno per ogni fratello che incroci di questo amore che tutto abbraccia e tutto copre.

E Infine il Vangelo, con il linguaggio semplice ma assolutamente provocatorio delle parabole, ci ricorda chi sono i prediletti su cui Dio posa lo sguardo da sempre perché abitino la sua casa: i piccoli, i poveri, gli emarginati, gli esclusi che non meritano affatto un posto defilato alla mensa della Chiesa ma il posto centrale. Il Vangelo è per i poveri perché è capace di riscatto e di rivoluzione.

Vorrei riprendere quanto già dicevo all’inizio, ovvero vorrei cogliere qualche spunto per essere Chiesa che si lascia modellare dalle mani di un Dio così. Da questa sera ci è lecito sognare:
una Chiesa che non si chiude per paura del mondo perché sa che Dio oggi e qui la sta chiamando a tessere questa tela del Regno in cui ogni uomo, proprio tutti, ha diritto di accesso. Se si alzano barricate abbiamo perso ogni sfida.
Una Chiesa che non guarda alle apparenze ma considera ogni uomo un fratello da servire soprattutto se ultimo e povero.
Una Chiesa che diventa in sé segno di pace e di condivisione. L’unità e la comunione non significano omologazione ma convivialità di differenze, come i colori dell’arcobaleno.

Proviamo a mettere mano insieme ad un progetto così?