domenica 28 novembre 2010

III di Avvento

Dopo esserci fermati in questo cammino di Avvento su due tappe in cui abbiamo risaldato la convinzione che il Signore verrà nella sua gloria e che la nostra storia cammina verso un orizzonte promettente; dopo che la Parola ci ha chiesto di vivere come figli del Regno nell’attesa della sua venuta, ora, con il tema delle profezie adempiute, dobbiamo esplicitare che in Gesù si è dato il compimento della storia della Salvezza, che in lui tutto il desiderio di felicità e di pienezza dell’uomo ha trovato risposta.

Non so voi ma vivo questa tappa con un certo imbarazzo e con il timore di essere retorico.

Noi e le nostre promesse di felicità inadempiute.

A volte ci ritroviamo a stringere fra le mani, se pensiamo ai progetti della nostra vita, un pugno di sabbia che scivola via lentamente o poco più. Ci sembra che i momenti belli siano passati da molto e ormai è il tempo di tirare qualche bilancio, spesso tragicamente in rosso. La felicità è qualcosa che assaporiamo difficilmente e sfugge via come il vento. Ci sembra che le cose urgenti, sempre troppe e troppo oberanti, ci facciano perdere di vista quelle necessarie e che alla fine non siamo noi i veri protagonisti dei nostri giorni. La fede, è vero, ci sostiene ma è un appiglio che non ci fa palpitare come un tempo, forse è una riserva per sperare che domani sia migliore. In noi non riusciamo insomma a vedere nulla di definito e tanto meno una profezia di felicità compiuta.

Se lo sguardo si allarga alla storia e al tempo presente, ai poveri, agli ultimi, a chi rantola nella miseria e nella povertà, troppo spesso causate dall’egoismo di pochi ricchi e potenti, si rischia di perdersi nel buio. Ma anche passando sulle nostre strade, scorgendo le case del nostro quartiere, se riusciamo a guardare poco più in là del nostro cammino, ci assale la paura, la tentazione di giudicare tutto come un equilibrio molto precario sopra la follia, o, in certi angoli dove alcuni nostri giovani buttano via la loro vita nel baratro del non-senso, ci si chiede dov’è il Signore e la sua mano.

Ringrazio però il Signore perché oggi ci fa compagnia Giovanni e la sua notte del cuore e della fede

Una vita spesa per annunciare cosa e chi guardando alla sopraffazione dei potenti e alla sua stessa vita costretta in carcere? La notte del cuore è il buio di non sentire più nulla, di non vedere Dio dalla tua parte, è la sensazione di essere entrati nel deserto e di aver smarrito per sempre le ali della Grazia spirituale. L’invio dei suoi a Gesù forse potremmo leggerlo come un grido a ridosso della disperazione per avere un abbozzo di risposta da cui ricucire un senso. Gesù chiede a Giovanni di affinare lo sguardo, di tendersi oltre il proprio dolore, di scendere nella profondità di ciò che appare e riconsiderare tutto alla luce della fede in lui, il Messia che non è venuto a spezzare e a recidere, a bruciare e a spazzare via il male e chi lo compie, ma il Dio-con-noi che ama stare fra gli ultimi come ultimo, povero fra i poveri in una logica di totale solidarietà per riempire dal di dentro di speranza chi è nell’abisso della disperazione. Chissà se Giovanni sarà riuscito a ricostruire un senso. Noi sappiamo che il suo destino di precursore si è compiuto anche nel martirio e che la sua vita non è stata spesa invano. Proprio con la sua carica profetica, con le sue notti del cuore, con la sua morte, Gesù elogia Giovanni e lo dice più grande fra i nati di figli di donna. Ora raccogliamo il suo testimone perché siamo inviatati anche noi ad andare oltre le nostre notti del cuore. In fondo è solo questione di sguardi!

Dobbiamo affinare lo sguardo, Signore, per vederti all’opera e scoprire che oltre le apparenze, tu ci sei, c’è una storia che non appare e che non fa clamore, la tua storia con noi.

Dobbiamo lasciare che le profezie si avverino in noi, dobbiamo accogliere la notizia buona che Dio Padre è per noi, che siamo racchiusi e custoditi da sempre nel suo abbraccio, che non ci manca nulla che Dio non ci abbia dato e che anche le nostre sofferenze sono parte di un disegno di salvezza se vissute come una Passione, una croce per amare; che dietro alle nostre delusioni c’è sempre un oltre che è la Speranza; che Dio solo porta a compimento i nostri abbozzi di vita e la felicità sta anche nella convinzione che qualcun altro potrà raccogliere il nostro testimone.

E se è così anche noi siamo invitati ad essere profeti per questo nostro tempo e a sovvertire per dare slancio alla nostra storia i meccanismi che distruggono l’uomo e la sua dignità.

Saremo per qualcun altro segno di profezia adempiuta.

domenica 21 novembre 2010

II di Avvento

Questa domenica si pone in continuità con quanto ascoltato settimana scorsa. Il Signore viene fra noi,e verrà come ha promesso, e noi siamo chiamati a forgiare il nostro cuore e continuamente convertire la nostra strada sul modulo esigente del Vangelo, aguzzare il nostro sguardo, tenere accesa la speranza in questa attesa. Se sapremo davvero vivere così saremo figli del Regno.

L’omelia di questa domenica potrebbe a questo punto prendere una piega un po’ moraleggiante, se non addirittura moralistica, e potrei iniziare ad elencare quali sono gli aspetti su cui dobbiamo lavorare per vivere in pienezza la nostra vocazione alla santità: che ne è del nostro rapporto con Dio, con gli altri e con noi stessi? Ma sono convinto che non andremmo molto lontano, forse sarebbe uno sprone per certi versi azzeccato, per altri inutile, comunque superficiale.

Perché per un cristiano l’aspetto morale è sempre in secondo ordine, è una conseguenza della vita spirituale. Chi si sa amato da Dio, chi si abbandona al suo abbraccio benedicente, chi sa custodire nel cuore la certezza di essere figlio necessariamente saprà anche vivere bene e saprà fare dell’amore il parametro della sua vita. Figli del Regno non si è perché si emerge con i propri sforzi ma perché ci si lascia sommergere dalla Misericordia.

E ora proviamo a interrogare la Parola e a chiederle di darci qualche suggerimento sulla nostra verità di figli, quasi una cartina di tornasole per capire se stiamo procedendo nella direzione giusta o qualcosa in noi si è inceppato. E se è così forse dobbiamo dedicarci di più alla preghiera, a riprendere l’immersione nel Mistero di Dio.

Figli del regno, ci suggerisce Baruc, sono quelli che vivono nella gioia perché guardano ad oriente e vedono sorgere l’alba. Figlio è chi sa cogliere che Dio c’è ed è all’opera come Padre, che la salvezza viene dalle sue mani e che sul nostro mondo splende ormai la sua luce. È bandito ogni pessimismo, ogni disperazione, ogni critica feroce come se questi fossero i tempi peggiori di sempre. Non si vuole nascondere la drammaticità di questo scorcio del nostro presente, eppure il credente sa leggere nelle vene della storia la salvezza che scorre come un fiume, sa sentire sulla sua pelle e su quella di ogni uomo il respiro buono, pieno di amore del Padre. Per questo si può gioire, danzare, darsi alla gioia. Se non arde come brace in fondo al cuore la nostra gioia, e a tratti riprende a fiammeggiare, forse si è annebbiata la nostra verità di figli. Se le nostre comunità non sanno più dare gioia nelle relazioni ma solo peso, angoscia, un senso di depressione perché oberate di cose da fare, se le nostre liturgie trasmettono solo pedanteria forse anche come Chiesa dobbiamo fare conversione e tornare a contemplare il sorriso di Dio. Del resto, per chi saremo credibili se non abbiamo in noi un guizzo di gioia, chi mai si aggiungerà a noi se non saprà avvertire un brivido di felicità.

Figli del regno, ci suggerisce Paolo, sono quelli che sanno prendere sulle loro spalle il peso del fratello più debole, è chi fa della sua vita un’icona vivente dell’Amore di Cristo. C’è una certa propensione all’amore, alla cura di chi è più povero, come un marchio di fabbrica, quasi un tratto di carattere che dice l’identità della nostra famiglia.

Infine, ci suggerisce Giovanni nel racconto di Luca, figli sono quelli che sanno rimettersi in discussione sempre e sanno prendere fra le mani con coraggio la loro vita anche dandole delle sferzate se si è fuori strada. La giovinezza del cuore, quella che più conta, sta proprio nel saper cambiare azzerando l’orgoglio. Ognuno di noi, se oggi ci mettessimo in fila davanti al Battista, potrebbe sentire parole che toccano sul vivo la propria vita, con estrema concretezza. Del resto non è sui principi ma sui frutti concreti che si vede quanto siamo fratelli di Cristo, portatori della speranza del Regno. Ma qui si apre un ambito molto riservato, un colloquio che ognuno in settimana è opportuno riprenda con Dio e con la propria coscienza. Per tutti vale l’idea che noi siamo chiamati non a fare cose straordinarie, impossibili, ma a fare bene le piccole cose di ogni giorno che ci sono chieste, perché in esse c’è la nostra possibilità prima e ultima di essere santi. Immaginare di essere santi solo se si può compiere questa o quella impresa è un perdersi via dietro a fantasie inutili. Madleine Delbrel ci dà un elenco preciso di momenti in cui Dio viene a bussare alla nostra porta e noi spesso ci attardiamo in altro disprezzando queste occasioni per essere figli e non lasciarci amare.

Ogni piccola azione è un avvenimento immenso nel quale ci viene dato il paradiso, nel quale possiamo dare il paradiso. Non importa quel che dobbiamo fare: tenere in mano una scopa o una stilografica. Parlare o tacere, rammendare o fare una conferenza, curare un malato o battere a macchina. Tutto ciò non è che la scorza della realtà splendida, l’incontro dell’anima con Dio rinnovata ad ogni minuto, che ad ogni minuto si accresce in grazia, sempre più
bella per il suo Dio. Suonano? Presto, andiamo ad aprire: è Dio che viene ad amarci. Un’informazione?…eccola: è Dio che viene ad amarci E’ l’ora di metterci a tavola? Andiamoci: è Dio che viene ad amarci Lasciamolo fare.

sabato 13 novembre 2010

I di Avvento

Il percorso della Parola. Inizia oggi il tempo dell’avvento che, nella nuova versione del lezionario del rito ambrosiano, è parte del Mistero dell’Incarnazione. Celebriamo in modo unitario il mistero di un Dio che progressivamente si è rivelato, con segni e la parola dei profeti, al suo popolo e nella pienezza dei tempi si è fatto carne, prossimo all’uomo, ha piantato i paletti della sua tenda in modo definitivo nella nostra storia, conosce il sapore della nostra fatica, le lacrime del nostro dolore, la gioia dei momenti di festa; un Dio così che si rivela al mondo come promessa di salvezza e compimento della gioia. Buon cammino, dunque! Il Signore ci dona ancora questi giorni perché possiamo diventare più profondi, attenti, affinare il nostro fiuto spirituale, riscoprire la certezza di essere figli amati e poi per essere più agili dietro a lui come discepoli e più disinvolti come apostoli, portati dalla Parola fino agli estremi confini della terra.

Il già e il non ancora: un’idea che contraddistingue questo tempo. Se c’è un’idea che ricorre costantemente nella filigrana di questi giorni è quella racchiusa sinteticamente nell’espressione già e non ancora. Già, perché il Signore è già venuto fra noi, la storia della salvezza ha già trovato il suo culmine, tutto è stato detto, compreso il giudizio su questo mondo e si è aperto il tempo del Regno. I giorni di Avvento sono anche della memoria, un ripercorrere con Israele i passi dell’avvicinarsi del messia ecco perché continueremo ad ascoltare la parola dei profeti come se anche in noi dovesse accendersi la fiamma dell’attesa o forse solo perché riscopriamo la portata della venuta di Cristo, e ci accorgiamo che dopo di lui nulla è più come prima. Ma non ancora ci è data la stabilità del Regno e la sua definitività, noi sappiamo che Gesù ritornerà nella Gloria. Questo proietta il nostro sguardo in avanti e Avvento è l’occasione per riprendere fra le mani il senso del tempo e capire che non è un eterno ritorno, un piatto e ripetitivo susseguirsi di errori o di successi ma un progressivo salire verso l’alto, un camminare verso l’eternità. Note sulla spiritualità di Avvento Basta solo questo per trarre alcune conclusioni che potrebbero essere delle note sulla spiritualità d’avvento, una sinfonia che dobbiamo comporre in noi stessi per essere credenti autentici. Sei già nella pienezza del tempo: metti un nuovo paio di occhiali sul naso. È bandita ogni forma di lamentosità, di critica aspra sull’oggi. Il credente è uno che sa che Cristo c’è stato e cammina con noi e sa che la notte è già alla fine, vede in ogni attimo sorgere l’alba e vede germogliare i segni del tempo nuovo mentre tutti indugiano sulla secchezza dei rami. Risveglia la speranza perché tutto volge alla pienezza. Noi possiamo scommettere seriamente su un mondo diverso perché Dio mantiene le sue promesse e verrà a dare fondamento sicuro al suo regno. Sperare è mettersi al lavoro per un mondo migliore. Vigila su te stesso e il tuo amore nello scorrere del tempo: aumenta la preghiera e afferra il tempo per i capelli senza che sia lui a sopraffarti. Non è facile abitare sospesi fra il già e il non ancora. Lo scorrere del tempo può logorarci, può affievolire la speranza. Per questo i giorni di Avvento ci chiedono un surplus di preghiera per ancorarci a Gesù. Ricorda che devi essere profeta per qualcuno. Ascoltare la voce dei profeti ci obbliga a diventare noi stessi profeti, portatori di speranza per i nostri fratelli a cui siamo prossimi.

E ora provo a riprendere solo qualche aspetto del vangelo che abbiamo appena ascoltato a cui fanno eco le due letture nella tematica del ritorno del Figlio dell’uomo.

I discepoli si compiacciono delle pietre del Tempio: sembrano dover durare per sempre! E invece Gesù relativizza tutto, perché è così: ciò che è dell’uomo ha un inizio, dura ma volge inesorabilmente alla fine. Solo Cristo resta. Parlare della fine del Tempio per un ebreo, significava parlare della fine del mondo. Ecco allora perché i suoi lo incalzano con la domanda sul quando accadranno queste cose. Gesù con dolcezza sostituisce la loro questione e sposta l’asse del discorso sul come, come resistere nell’attesa del suo ritorno. Perché la fine in realtà è un fine, la venuta nella Gloria del Crocifisso-Risorto. Importante è preparare questo ritorno e non soccombere nell’attesa nemmeno di fronte all’eco di violenza e di catastrofe che si sente in ogni epoca della storia. Il tempo è proprio una sfida: può logorare, dissipare, disperdere, affievolire oppure può lasciar emergere il meglio di noi e insegnarci a lottare contro tutto ciò che tenta di distruggere il nostro amore. Se l’amore di molti si raffredderà, il discepolo deve amare e annunciare il vangelo fino agli estremi confini della terra. Questa parola è vera anche per noi che attendiamo il ritorno del Signore: sapere che Cristo è ciò che rimane e ci rimane ci permette di guardare a tutto con una certa relatività. E di reimpostare la nostra scala di valori. Più che alla bellezza dei nostri progetti, dei nostri piani, delle nostre chiese dobbiamo concentrarci su di lui e nutrire il nostro amore per lui. Sull’importanza del resistere nello scorrere del tempo si diceva qualcosa anche prima. Davvero prendiamo fra le mani i nostri giorni e domandiamoci se abbiamo resistito nei nostri sogni oppure siamo stanchi e dispersi o se il male che abbiamo ricevuto non ci ha messo qualche blocco nel cuore per cui ci ritroviamo più spenti e ripiegati su di noi. Una conclusione: la perseveranza degli eletti abbrevierà i giorni della pena. A chi dovremo dire grazie alla fine della storia?. Forse a quelle anime che nel silenzio si raccolgono in preghiera per la gioia del mondo intero, forse a chi nella fatica dei giorni tiene viva la fiamma dell’ideale, forse a chi resiste e continua a vivere nello stile del Vangelo. Non lo sapremo mai. forse a qualcuno che è presente fra noi anche oggi o forse anche a noi stessi se ci scopriremo caldi e perseveranti.

domenica 7 novembre 2010

Domenica di Cristo Re

Un’altra logica è possibile

Non penso sia tempo perso ricordare il contesto in cui nacque questa festa. Era l’epoca oscura dei grandi totalitarismi; in Italia si era affermato ormai da un decennio il fascismo e in Germania il nazismo come nell’est imperversava il comunismo: diversi gli spunti da cui nacquero, uguali i deliri di onnipotenza, la perdita del senso della dignità dell’uomo e la violenza. Pio XI, uomo di grande chiarezza e decisione, prendendo le distanze da quei dittatori, consegnava alla scuola popolare della fede che è la Liturgia l’idea che il solo vero Re della storia è Cristo Gesù che con la sua logica ha rovesciato i potenti dai troni e ha innalzato gli umili, che non è mai sceso al compromesso di brandire i segni del potere ma che, con il potere dei segni, camminava sulle strade della sua terra restituendo la dignità dei figli a chi la vita o la supponenza dei potenti aveva schiacciato e messo ai margini, che con la sua croce ci ha raccontato che l’unica cosa che rimane e incide nella storia è l’amore, che alla fine dei tempi tirerà i cardini della storia e giudicherà ogni uomo proprio sulla sua capacità di amare. E a distanza di così tanti anni, sull’argine del fiume del tempo colorato da troppo sangue versato inutilmente, noi possiamo dire che quell’intuizione era profetica e vera.

Di fronte a chi usa ancora il potere come mezzo per arricchirsi alle spalle dei poveri del mondo, di fronte a chi fa della politica non un servizio ma l’altare per i propri scopi sacrificando il futuro delle persone, di fronte a un’economia che marca sempre più fortemente il divario fra i poveri e i ricchi, fra il nord e il sud del mondo, ad una Chiesa che si attarda ancora in mille indugi prima ancora di rompere con i vecchi moduli e i troppi compromessi con i forti di questo mondo, celebrare Cristo come Re ci obbliga ad affinare il fiuto spirituale e a guardare le cose sotto un’altra prospettiva, quella di Dio, e spinge a giocare la nostra partita sul fronte opposto, a scendere sulle strade e farci compagni dei poveri e a investire in pura perdita di noi stessi in amore. Allora la nostra esistenza avrà senso e questa terra prenderà almeno in parte i connotati marcati del Regno che viene.

Forse sono solo giorni

Oggi è anche l’ultima domenica dell’anno liturgico. Sono pochi gli anni/ forse sono solo giorni/ e stanno finendo tutti in fretta e in fila/ non ce n’è uno che ritorni dice così una nota canzone di Lucio Dalla: e che ne è del nostro cammino di santità, della nostra conversione al Vangelo che di domenica in domenica la liturgia ci propone. Potremmo darci questa settimana come occasione per un esame di coscienza per capire se la Parola di Dio ci ha davvero plasmato il cuore, la mente e l’azione e per rilanciare il nostro proposito di seguire Gesù magari con un pizzico di tempo in più per la preghiera e per non sciupare le occasioni per vivere la carità.

La Parola

Mi vorrei soffermare quest’oggi in particolare sul brano di Vangelo di Matteo. Siamo all’improvviso proiettati alla fine della storia quando il re, Gesù, con i segni della sua Passione e della Risurrezione, giudicherà la storia e ogni uomo.

Il Giudizio non è affatto una spada minacciosa sulla nostra testa. Dio prende in seria considerazione la nostra libertà, le scelte che compiamo ogni giorno aldilà delle intenzioni. Il suo Giudizio ratifica quanto noi abbiamo deciso e gli dà la forma dell’eternità.

Il Vangelo ci mostra anche qual è il parametro in base a cui saremo giudicati così che non si possa fingere di non sapere, così che alla paura si sostituisca la voglia di fare. Non sarà la fede a salvarci, anzi non è nemmeno citata come principio per scagionare gli uni o per condannare gli altri; non si parla neppure di speranza. Solo se la fede sarà diventata carità, solo se la speranza avrà alimentato l’amore saremo salvati. Cristo ha scelto di essere l’ultimo fra i poveri di questa terra e lì ha deciso di continuare ad abitare. Si confonde con ognuno di loro tanto che quando ci saremo presi cura di loro, della loro fame, della loro sete, della loro sorte nei momenti drammatici della loro esistenza, nella concretezza delle loro domande avremo servito Gesù. Gesù non ci chiede di sovvertire dall’alto l’ordine delle cose ma dal basso, di giocarci in piccoli segni che non faranno mai cronaca ma che profumano di futuro, che rendono il mondo più bello. Il sorriso restituito ad ogni piccolo sarà un anticipo del Paradiso.

Ogni sera la Chiesa ci fa recitare il nunc dimittis il cantico di Simeone. In un passaggio dice: perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza preparata da te davanti ad ogni popolo. Questa salvezza è Gesù. non passi giorno senza aver visto Gesù in qualche piccolo per cui ci siamo messi al servizio a tempo perso, non passi giorno senza aver invocato occhi per scorgerlo fra i poveri di questo mondo che ci tendono la mano.