lunedì 24 dicembre 2012

Messa di Natale, Liturgia nella Notte

Il buio che avvolge nel silenzio ogni cosa, le nostre case e la nostra città fin sulle strade più trafficate, rende la notte il momento più adatto per meditare e contemplare. Non so se è per questa suggestione che la Liturgia ha scelto di proporre per questa celebrazione il prologo di Giovanni, così solenne nella sua cadenza, così austero e senza troppi spazi per la prosa del Natale che carichiamo di sentimentalismo; righe intense, poste all’inizio del IV Vangelo, in cui già è detto tutto di Gesù senza dare spazio ad una progressiva rivelazione del Mistero. Righe che centrano immediatamente il cuore della fede. Parole che ti pongono immediatamente con le spalle al muro e ti chiedono di schierarti.

Il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua tenda fra noi.
Verbo e carne: un ossimoro sconcertante. Una bestemmia per i cultori del sacro. Una sciocchezza per chi ama il potere e appoggia su Dio la sua autorità. Un paradosso a cui è difficile abituarsi. Il Verbo è Dio e noi Dio lo immaginiamo sempre e comunque oltre la nostra vita con i suoi disegni spesso contrapposti ai nostri, con la sua logica incomprensibile, con una durezza da piegare alle nostre esigenze, con un’onnipotenza che invochiamo per uscire dalle nostre strettoie, con un passo che ci fa nascondere quando la sua eco si avvicina, con un giudizio che ci fa tremare di paura.
La carne invece è debolezza, è pochezza, povertà, limite, finitezza, orizzonte chiuso costretto alle logiche dello spazio e del tempo. Noi siamo carne: passioni e pulsioni miste a razionalità; corpo che cresce, si esprime, ama e odia e infine muore; dipendenza assoluta dagli altri e dallo spazio e dal tempo.

Il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua tenda fra noi.
Da allora, del limite della carne, Dio sa tutto, guadagno faticoso di un’esperienza non sempre lineare. Gesù sa cosa significa piangere, gioire, offrire e ricevere tenerezza, soffrire per amore, conosce persino la seduzione della tentazione che ti porta su scorciatoie che poi non arrivano mai alla meta. Gesù dà valore alla carne anche di chi decide di incontrare il suo destino e sempre si mette in gioco per darle valore. E infine Gesù si scontra con la morte, ci mette le mani dentro, e dal di dentro le dona un significato nuovo, uno strumento di salvezza per l’altro.

C’è chi ha visto e ha girato altrove lo sguardo. C’è chi ha preferito chiudersi nell’indifferenza per non farsi toccare, per non ribaltare l’unità della misura di Dio e della propria vita. L’indifferenza infatti non turba la coscienza, non spinge a cercare oltre, non mette in discussione nulla, lascia ogni cosa a suo posto nella pace di chi si abitua a tutto.

Ma c’è chi ha visto e ha iniziato a credere e si è accorto che tutto poteva cambiare perché ha letto nella grammatica della carne di Gesù u n volto nuovo di Dio, cioè l’Amore che si è fatto prossimità, comunione, condivisione e una possibilità nuova anche per la sua vita: accogliere la luce di un Dio a te prossimo,  fa anche di te un figlio amato. Condizione nuova, da vertigine, squilibrata e per questo solo per gli audaci. Si tratta di convertire anche lo sguardo su di noi.

Perché chi si scopre figlio non può mettere a tacere quella nostalgia che ti fa alzare spesso lo sguardo verso il cielo e ti fa guardare con irriverente ironia ogni cosa che passa sotto il cielo abbandonando per sempre ciò che noi amiamo esasperare: denaro, potere e apparire.
Perché chi si scopre figlio non può più amare perdersi nella sua debolezza e renderla una giustificazione per opporre resistenza a un Dio rivoluzionario: Dio ama la tua fragilità e la rende strumento per la sua potenza.
Chi si scopre figlio si sente schiodato dai suoi peccati e chiamato, nel perdono, ad essere proiettato nel futuro.
Chi si scopre figlio rivendica per sé la forza che lo ha generato e si fa profeta per l’oggi, voce scomoda per i potenti e per chi vive di omissioni, consolazione infinita per tutti gli ultimi di questo mondo dalla cui parte è sempre preferibile stare.
Chi si scopre figlio legge dentro di sé tutta la possibilità del suo marchio di fabbrica e scopre che la vita ha valore solo se ti fai prossimo di chiunque incontri senza guardare alla sua appartenenza o ai suoi meriti, felice solo di chinarti su di lui per lavare i suoi piedi. Per dirla con Alda Merini Gesù è stato una grande catastrofe, ci ha avvicinati tutti l’uno all’altro. Dopo Gesù qualcuno ha imparato a guardarsi negli occhi, a porsi delle domande, a vedere che l’altro non era solo merce.
Chi si scopre figlio si sa cittadino del mondo, lotta per la pace e sa che questo mondo può essere un’isola che non c’è dove le armi vengono forgiate in strumenti perché nessun uomo muoia di fame e nessuno sia più soffocato nell’ingiustizia.

Perché sei qui fratello? Che cosa sei venuto a vedere, chi sei venuto a cercare? La notizia del Verbo fatto carne ci strappi all’indifferenza, al dovere di compiere un rito, alla routinarietà della nostra religione e ci consegni una vita diversa, meno comoda, decisamente però più autentica.  

domenica 23 dicembre 2012

divina Maternità di Maria-Domenica dell'Incarnazione


Abbiamo camminato con intensità in questo avvento. Abbiamo affinato il nostro sguardo e ci siamo lasciati inondare da una grande speranza perché il Signore ci ha ripetuto che non ci ha abbandonato, che la nostra storia è stata visitata, che ogni giorno, nelle pieghe più nascoste della nostra vita, possiamo rintracciare le orme del suo passaggio, e, ancora, che l’umanità accoglierà il suo Sposo perché non è orientata verso il nulla, verso un baratro apocalittico, ma verso un fine: l’incontro con lui. Abbiamo voluto trovare la mappa per vivere in coerenza nell’attesa della sua venuta perché il Signore ha deciso di vistare la nostra storia passando dalle nostre storie, di passare nella nostra città prendendo dimora in ognuno di noi. Nel sì di Maria questo mistero si compie: in lei il cielo e la terra si danno appuntamento per sempre. Vorrei sottolineare tre passaggi della Parola ascoltata, in particolare del Vangelo e poi, con semplicità, mettere nella nostra bisaccia di poveri pellegrini quelle intuizioni che ci fanno guadagnare un tratto di gioia che nessuno può strapparci.

La visita di Dio. Luca ci guida per mano e fotografa sempre più da vicino il luogo dell’accadimento che ha cambiato la storia. È in Israele, è nella Galilea, in un villaggio sperduto al nord, terra lontana dalla sacralità di Gerusalemme e ancora di più dalla frenesia politica di Roma, in una casa di poco conto dove vive una ragazza sconosciuta a tutti tranne che agli occhi di Dio. Dio guarda il cuore non l’apparenza; ciò che è importante ai nostri occhi lui lo considera un nulla: fa delle pietre scartate dagli uomini architravi di un nuovo edificio. Maria la piccola che Dio colma con la sua grandezza; Maria, promessa sposa dalle pochissime possibilità che diventa protagonista da cui dipende il sogno di Dio. Come il sole che sorge e invade con la luce ogni angolo, così quella casa ha ricevuto la visita di Dio. Una visita che è un annuncio. Vorrei fermarmi già qui. Nella prospettiva cupa che nutriamo di noi in noi, nella svalutazione costante in cui amiamo perderci, o a cui siamo nostro malgrado costretti, nella frenesia che ci regala solo pochissime isole di deserto per stare soli con Dio, spesso non ci accorgiamo di quanto noi valiamo ai suoi occhi. Più siamo deboli, più siamo piccoli, oppure più ci mettiamo dalla parte dei deboli e dei piccoli, e più Dio decide di raggiungerci, sceglierci, toccare la nostra vita, decide di non voler fare a meno di noi per costruire un mondo diverso, un angolo del suo Regno. Come Maria, diversi da Maria, ognuno con la sua vocazione, possiamo cambiare la storia. È un annuncio promettente, è un annuncio buono per le nostre vite troppo spesso ripiegate. E se iniziamo a credere che Dio chiama me e proprio me per quello che sono per comporre parte del suo mosaico allora diventiamo annuncio di Grazia e di Misericordia per i nostri fratelli assetati di speranza. Vorrei benedire Dio per tutti quelli che in questi giorni e in tutta la mia vita sono stati un lieto annuncio perché io non smettessi di sperare e continuassi a credere: dalle lacrime dei genitori appassionati all’opera educativa, uomini e donne che ancora sperano e lottano e investono sull’uomo, alla tenerezza dei nostri ragazzi che imparano a sognare in grande e mi fanno comprendere che non sono solo il nostro futuro ma sono in assoluto il presente, da chi ha dato senza trattenere e ora si accorge che i suoi sforzi non sono stati inutili.

Il sì di Maria. Maria tentenna solo per un attimo, non manca di fede, avverte sulla sua pelle probabilmente solo il brivido di una grandezza che non le appartiene e che in effetti deve ospitare dall’alto. Ma non esita a dire il suo sì. E non lo fa con rassegnazione, non ama fare calcoli, non pensa neppure a possibili risvolti inquietanti. Sente che il suo Signore non può che essere per lei e mai la priverebbe di una gioia e che, anzi, le sta preparando una inedita, più grande, imprevedibile, sorprendente. Dio si piega sulla sua piccolezza, la sfiora e poi ci entra per aprire un orizzonte inimmaginabile che ha i contorni dell’infinito e dell’eterno. A volte noi, al contrario di Maria, corriamo a nasconderci come Adamo nel giardino delle nostre architetture esistenziali perché avvertiamo il passo di Dio nella nostra vita: siamo degli inguaribili scettici e degli istintivi dubbiosi pieni di sospetto. Dio è davvero per noi e quando bussa alla nostra porta non vuole rovinarci. Certo, ci trascina fuori dalle nostre chiusure, chiede un atteggiamento di fiducia ma poi ci conduce lontano e quello che desideravamo da soli alla fine ci appare come una piccola cosa rispetto alla sua Promessa. Noi vogliamo essere felici, vogliamo essere amati, sogniamo la pace, vorremmo non finire mai; e lui ci dona una gioia che resiste come brace anche quando passa dalla croce, ci dona un amore che non viene meno e che, per non consumarsi, ci fa dono per gli altri; lui è eternità che intravvediamo in ogni attimo sempre con più forza.

L’attesa di Maria e l’incarnazione. L’angelo lascia Maria e in lei inizia l’avventura della vita del Figlio di Dio. Il Vangelo non alza quasi mai il velo sui mesi dell’attesa, nicchia di straordinaria intensità per ogni donna e quindi anche per Maria. Inizia così l’incarnazione del Verbo, della contemplazione del Dio-uomo, tutti ossimori di cui, probabilmente, non sentiamo più la forza scandalosa. Dio si fa carne, Dio si fa prossimo a noi, Dio si fa uomo e si lascia accudire da una donna. È il sovvertimento di ogni schema religioso abituale, una bestemmia per la maggior parte degli uomini di sempre perché è più rassicurante credere che Dio stia in un orizzonte altro rispetto a me e che io gli stia sottomesso. Interpella invece la nostra libertà la fede in un Dio che decide di farsi tuo compagno di viaggio e che mette nelle tue mani ciò che è suo e prende il tuo per stringere alleanza e fare comunione. A noi non resta che adorare, parola che alcuni vogliono derivi da “ad-orem” il gesto di portare la mano alla bocca per lo stupore. Auguro a ognuno giorni carichi di stupore capace di sovvertire le nostre abitudini, capaci di restituirci l’inatteso anche di noi stessi.

sabato 10 novembre 2012

Domenica di Cristo Re dell'universo

Mi piace che sia proprio la festa di Cristo Re dell’Universo a chiudere l’anno liturgico. Forse il titolo di re a noi non dice molto…chi decise di fissare questa festa, negli anni difficili dei totalitarismi, quando il mondo vibrava sotto il vento delle promesse di uomini forti, violenti, cinici, voleva centellinare nelle parole e nei segni di un rito l’idea di un Dio confonde con la sua logica la logica del potere, che il paradosso della sua debolezza è la vera forza, che ai suoi occhi conta quanto noi abilmente scartiamo perché riteniamo di poco valore; Dio solo saprà tirare alla fine i cardini della Storia, raccogliere fra le sue mani le nostre storie, anche quelle in tonalità minore e che non appariranno mai negli annali ufficiali, e dirà una parola di Giudizio che è speranza perché l’unico metro che stringerà fra le mani sarà quello dell’amore. Non conteranno le nostre alchimie esistenziali, i nostri buoni discorsi, le nostre corse, i nostri progetti…non conterà nemmeno la fede:  ma solo la fede e le mille strategie che avranno gettato legna sul fuoco della Carità, l’unico tratto che ci renderà riconoscibili come figli ai suoi occhi.

E proprio a un Signore così vorrei, questa sera, consegnare la mia preghiera e la mia vita.   

Io non credo più ai segni del potere mi convince il potere dei segni, del segno della croce
Signore, questa sera di fronte alla pagina di questo Vangelo, allo scarno ma evocativo discorso che è la tua croce, sento il peso quasi scandaloso dell’alternativa che tu sei stato per noi. Non hai mai ricercato il potere, non hai mai assecondato la tentazione di schiacciare con la forza la libertà dei tuoi figli. Sei passato in mezzo a noi e ti sei messo all’ultimo posto, fino alla fine, per poter servire ognuno e particolarmente chi la vita ha inchiodato a mille delusioni o alla povertà o condannato all’esclusione e alla sofferenza. Hai invece pensato ogni giorno di regalarci segni di un amore paziente, di un lento seminare, di un investimento nella tua creatura e nella sua dignità. Hai scelto il potere dei segni. E alla fine il segno della croce. Quando cioè hai capito che oltre ogni parola bisognava consegnarsi, spalancare le braccia, ritrarti perché noi potessimo dire liberamente il nostro sì e convincerci che Dio non ha altre pretese su di noi se non quella di amarci e fare comunione, ti sei lasciato inchiodare. E da quella prospettiva dici il perdono, dici una misericordia senza fine, inauguri il tempo di un mondo nuovo e di un modo nuovo di amare. Perdonami per tutte le volte che batto il sentiero opposto, per quando mi lascio convincere, oltre le migliori intenzioni e i discorsi più belli, che conta alla fine solo chi ha successo, apparenza e potere. Perdona quando le nostre comunità vivono cercando consolazione nei numeri o nelle conferme degli applausometri. Perdona per quando la tua Chiesa si fa ancora connivente con il potere e i suoi segni e dimentica che solo facendo sua come te, in memoria tua, la sua croce potrà tornare ad essere credibile.  

Io non credo più in Dio, credo nel Dio crocifisso
Mi sento di dirti questo, Signore, questa sera. Non credo più in Dio perché ho incontrato la povertà senza riscatto; ho incontrato i piccoli che pagano l’ingiustizia dei grandi nei termini della fame, della violenza, della disperazione; ho visto che l’uomo può decidere di distruggersi senza che nessuno possa fermarlo; ho visto in non pochi giovani la noia che li uccide. Ho visto e non credo più in Dio…credo nel Dio crocifisso, che dà risposta alla mia ricerca di verità, che si fa compagno proprio di questi ultimi, che dà senso e valore alla sofferenza se vissuta con amore, che quando si abbassa è allora che riceve vita e risurrezione ed è preludio di un’alba di rivoluzione, che mi indica un cammino diverso e mi dona le lenti nuove con cui posso giudicare il mondo non in modo superficiale ma con gli occhi di chi scopre, dietro alle ferite, le feritoie di luce, dietro alle crepe e al diroccamento il progetto di un nuovo edificio.

Io non ho paura…so che mi abbraccia il perdono
Se mi perdo nell’infinito delle mie debolezze e dei miei limiti, se lascio che in me risuoni solo l’eco dei miei sbagli, se conto il tempo perso dietro a tutto ciò che non ha valore provo paura e angoscia. Io non ho paura e mi sento come un bambino felice se invece lascio dilagare in me la tua voce che al ladro e a tutti i derelitti della storia come me promette perdono, abbraccio, vita nuova, eternità, riscatto strappato all’ultimo istante; perché ciò che conta non è il tracciato del percorso e se è segnato da buche, tornanti e sentieri senza via d’uscita ma solo arrivare alla meta e farsi raccogliere da te.

Io non ho più così paura a scegliere di spezzarmi come te.
Perché tu hai aperto una strada e altri dietro di te ti hanno seguito e mi danno il coraggio di dire il mio sì e ogni giorno prendere il mio destino e decidere di mettermi in gioco per amore, costi quel che costi.

domenica 4 novembre 2012

seconda domenica dopo la Dedicazione

Penso che sia semplice cogliere il filo rosso che collega questa domenica alle altre due. Abbiamo celebrato la festa della dedicazione del Duomo, abbiamo riscoperto quindi che la Chiesa, questa Chiesa che vive sulle nostre strade, fra le nostre case che è, come amava dire papa Giovanni XXIII, fontana del villaggio, è parte, non esclusiva, ma fondamentale della storia della salvezza e, per non tradire se stessa e soprattutto il suo Signore, deve lasciarsi condurre dal Vangelo fino agli estremi confini. Oggi, se volete sotto un’altra prospettiva rispetto a quella di domenica scorsa, ci viene detto che la nostra missione è preceduta, o meglio sarebbe dire, prende forma, dal sogno che Dio ha che ogni uomo conosca il Vangelo della Misericordia.
E così la Chiesa vive in sé questa contraddizione di termini che disorienta anche le leggi sociologiche di base che indicano nell’autoconservazione la logica di ogni gruppo: è comunità ben definita ma sempre aperta; pur dovendo porre un recinto per rendersi visibile non può mai alzare un muro invalicabile fra sé e il mondo, non può mai dirsi sufficientemente satura; mentre accoglie in casa un nuovo fratello e lo fa accomodare, Dio le chiede di non chiudere alle sue spalle la porta perché qualcun altro sta già entrando; mentre si prende cura di alcuni fratelli e passa fra loro a lavare i piedi, Dio le chiede di sorridere a qualcun altro che sta cercando una via d’accesso per ricevere sui suoi piedi la stessa acqua calda del servizio; e quando vorrebbe alzare gli argini, chiudere la porta per stringere fra le mani ciò che ha già credendo che le basti, lo Spirito la chiama a guardare oltre.

Vorrei lasciare emergere dalle letture appena ascoltate le diverse prospettive di quel sogno che il Padre nutre perché ogni uomo conosca la sua salvezza. Perché il nostro è un Dio così: vigile, che guarda sempre oltre i confini e immagina l’accesso di nuova gente nella sua tenda e si adopera perché la sua casa sia sempre più larga, più spaziosa, più comoda al rischio di aprire un cantiere infinito, al rischio di rendere provvisoria ogni struttura, modificabile nel tempo e per questo elastica. Il Dio dell’Alleanza è tutt’altro che rigidità.

Nella lettura Isaia ci racconta la predilezione che Dio ha anche per uomini e donne di confini lontani, che non appartengono al Popolo che lui da sempre si è scelto. Queste parole sono come una benedizione, una carezza che placa l’ansia di felicità dell’ uomo. Ogni uomo porta nel cuore una nostalgia profonda di Dio che lo spinge ad alzare le sue mani verso il cielo nei momenti di dubbio, paura ma anche di fronte allo stupore della vita e del mondo. Aldilà di ogni percorso tortuoso, spesso ad andamento sinusoidale, Dio raccoglie nel suo abbraccio la sua creatura e la stringe a sé con una premura infinita.

Paolo invece ci ricorda che l’Amore di Cristo, niente di più grande l’uomo poteva conoscere di Dio, ci ha preceduto. Non abbiamo fatto nulla per meritarcelo, non ci salviamo con le nostre forze ma c’è in principio un dono, un amore che si piega sui nostri limiti e sulle nostre ferite e le rende feritoie di luce. La prima parola che Dio pronuncia sulla tua vita è perdono, il tuo passato lo chiama perdono, i tuoi sbagli li butta come un anello in un oceano, il tuo presente si riempie di futuro e tu ti scopri qui e ora parte di una nuova avventura sospesa fra l’estasi e l’estroversione, cioè fra la contemplazione grata di quello che lui ha fatto per te e la vocazione di essere segno per ogni fratello che incroci di questo amore che tutto abbraccia e tutto copre.

E Infine il Vangelo, con il linguaggio semplice ma assolutamente provocatorio delle parabole, ci ricorda chi sono i prediletti su cui Dio posa lo sguardo da sempre perché abitino la sua casa: i piccoli, i poveri, gli emarginati, gli esclusi che non meritano affatto un posto defilato alla mensa della Chiesa ma il posto centrale. Il Vangelo è per i poveri perché è capace di riscatto e di rivoluzione.

Vorrei riprendere quanto già dicevo all’inizio, ovvero vorrei cogliere qualche spunto per essere Chiesa che si lascia modellare dalle mani di un Dio così. Da questa sera ci è lecito sognare:
una Chiesa che non si chiude per paura del mondo perché sa che Dio oggi e qui la sta chiamando a tessere questa tela del Regno in cui ogni uomo, proprio tutti, ha diritto di accesso. Se si alzano barricate abbiamo perso ogni sfida.
Una Chiesa che non guarda alle apparenze ma considera ogni uomo un fratello da servire soprattutto se ultimo e povero.
Una Chiesa che diventa in sé segno di pace e di condivisione. L’unità e la comunione non significano omologazione ma convivialità di differenze, come i colori dell’arcobaleno.

Proviamo a mettere mano insieme ad un progetto così?

domenica 28 ottobre 2012

domenica del mandato missionario

Questa domenica, detta domenica del mandato missionario, la Parola ascoltata è davvero ricca di suggestioni. E in questa omelia non vorrei far altro che portare alla luce quelle che più mi hanno colpito, ferito, entusiasmato e condividerle con voi.

Una premessa anzitutto. La Chiesa è chiamata, nelle sue fibre, ad essere missionaria, a prolungare ancora di qualche capitolo la storia della salvezza che Dio ha deciso di scrivere con noi. La missione non è un’appendice facoltativa fra le nostre molte attività. Il dinamismo è chiaro: una comunità che è stata radunata dal Signore risorto, che ascolta la sua Parola, che spezza il Pane e decide di vivere in sua memoria, una comunità in cui il diverso è mio fratello che sono chiamato ad accogliere per quello che è nel perdono e nella festa, a cui sono chiamato a lavare i piedi, una comunità che, in altre parole, ha scoperto il segreto della gioia e che ha trovato risposta alla sua nostalgia di eternità e di infinito, non può trattenere per sé questo dono, gli scotta fra le mani, e, proprio come il fuoco, si consuma se non trova altro a cui appiccarsi e bruciare. O, al contrario, fuori di questa chiesa se il sorriso e la parola si spengono, lo stile evangelico si stempera, vuol dire che non abbiamo incontrato davvero il Signore della storia.

Ed ecco la prima di tre suggestioni. È la lettura di Atti a suggerirmela.

Filippo obbedisce alla voce dello Spirito e si lascia condurre su una strada che, in prima battuta, appare deserta e perciò insignificante. Su quella strada incontra per caso il funzionario etiope. Il dialogo che intesse con lui, il rendere ragione cioè della sua speranza, l’entusiasmo delle parole che sgorgano dal suo cuore, lascino approdare il suo interlocutore alla domanda di fede. Anche noi spesso abitiamo il deserto delle nostre città che, pur se percorse da moltissime persone, sono vuote di relazione, di attenzione all’altro; le nostre strade sono solo il contesto in cui passa  la nostra routinaria corsa verso un orizzonte che però nessuno ha chiaro. Proprio qui lo Spirito suggerisce anche a noi di stare. Siamo chiamati ad abitare la piazza; la missione si gioca qui e ora, cioè dove passa la nostra quotidianità. La speranza che portiamo dentro ci deve muovere verso il fratello che per caso-ma è davvero così?-ci sfiora. Chiudere il dialogo è chiudere la possibilità di annunciare il Vangelo. E il dialogo, per sua definizione, è fatto di ascolto e di confidenza, non è imposizione di nessun dogma ma accogliere l’altro dove si trova e con lui, per mano, avanzare a pari passo verso il disvelarsi della Verità. Solo se saremo missionari così, più che pieni di risposte, compagni del dubbio e capaci di domande radicali, faremo il gioco dello Spirito che lavora prima e meglio di noi nel cuore dei fratelli.

La seconda suggestione invece me la suggerisce l’epistola. Paolo si fa voce del desiderio di Dio che tutti gli uomini siano salvi conoscendo il Vangelo di Gesù; in altre parole, solo sapendo Gesù, solo in comunione con lui l’uomo di sempre placa il suo desiderio di felicità e si apre alla certezza dell’eterno, conosce che Dio non lascia cadere nel baratro della morte la sua vita e niente va perduto perché il nostro nome è scritto sul palmo della sua mano. Penso che proprio da parole come queste da sempre uomini e donne decidono di mettersi in viaggio per mettere radici in terre a volte lontanissime per distanza e cultura dalla loro con la sola pretesa di raccontare che la storia conosce un punto fermo che è Gesù. Anche il nostro orizzonte non può chiudersi qui nelle mura di questa chiesa o fermarsi all’orizzonte dei nostri confini. Il pensiero della nostra comunità non si reggerebbe se non fosse sostenuto dalla certezza che siamo parte di un insieme molto più grande. E l’aprire i confini significa, certo nella difficoltà, lasciare spazio all’altro e, alla fine, crescere. Mentre dai, ricevi; mentre doni, la gioia si moltiplica; mentre ti apri, si dilata il cuore. Non posso pensare che la mia gioia sia slegata dalla gioia di fratelli anche lontanissimi, la loro felicità c’entra con la mia. La meta della salvezza si raggiunge in cordata: o tutti o nessuno. E qui il pensiero di ognuno vola a quella terra magari conosciuta solo per il racconto di altri, magari perché calpestata una volta sola e che vorresti abitare di più o per cui dare di più…immaginate dove sta andando ora la mia mente?!

Infine, l’ultima suggestione me la consegna il Vangelo. Mi consola anzitutto che Gesù consegni a uomini incerti nella fede il messaggio di salvezza…mi sento anch’io così interpretato in queste righe così schiette! Davvero più siamo deboli e più siamo adatti all’amore trasformante di Dio. Nell’annuncio di questi uomini, nella loro difficoltà a viverlo per primi, si leggerà la cura paziente di Dio e la sua Grazia che tutto copre. Ma poi Gesù dà ai suoi di compiere segni che accompagnano le parole. Non i segni del potere, ma il potere dei segni. Anche se purtroppo i primi si sono moltiplicati lungo la storia della Chiesa offuscando la radicalità del Vangelo, oggi noi dobbiamo riscoprire la forza dei segni. Il segno non costringe ma interpella, smuove, chiede di essere interpretato. Il Vangelo si deve cioè annunciare sempre con una carica rivoluzionaria di carità altrimenti rimane lettera morta. Non posso proclamare le beatitudini se non lotto perché qui e ora gli ultimi trovino un ancora di felicità. Non posso annunciare la vittoria del risorto se tanti fratelli rimangono sulla croce della povertà o della sofferenza senza nessuno che li schiodi. Ma soprattutto non posso pensarmi in missione se non divento con tutto me stesso segno di una vita nuova, quasi un prolungamento di Gesù.

domenica 21 ottobre 2012

dedicazione del Duomo di Milano

Questa è la terza tappa che fa da cerniera da un tema all’altro nel lezionario ambrosiano nel tempo dopo Pentecoste. Dalla Pentecoste al Martirio del Battista: abbiamo fatto sosta su alcune storie che ci hanno raccontato la fedeltà di un Dio che ancora oggi, in noi come in quegli uomini, cerca alleati per costruire il suo Regno. Dal Martirio del Battista alla festa di oggi l’obiettivo si è fissato su Gesù come la stella polare, il fine e il centro della rivelazione; in lui trova senso anche la nostra attesa di felicità; in lui l’ansia di infinito ed eterno trova riposo; vivere a sua immagine, fare cioè dell’amore la cifra unica di ogni nostra scelta, significa non sprecare nella banalità i nostri giorni. E da oggi si apre la riflessione sulla Chiesa, segno, certo non unico, al presente della storia della salvezza, luogo dove si dà l’incontro con una Parola capace di dare forma alle nostre scelte più vere, casa dove lasciarsi modellare dal Segno della Pasqua di Gesù, recinto da oltrepassare per diventare missionari sulle strade del mondo.

Come in ogni cantiere c’è un prefabbricato dove i geometri e gli ingegneri assieme ai capomastri custodiscono i disegni originari della loro opera, così questa festa ci mette fra le mani il sogno di Dio per la sua Chiesa, per la nostra comunità. Ho pensato a 3 tratti irrinunciabili, a 3 architravi su cui deve poggiare la nostra vita comune.

1 quest’oggi noi facciamo festa per la realtà di una Chiesa incarnata in una storia e in un tempo ben precisi, di una Chiesa che assume il volto di una Cattedrale, il duomo. Se Chiesa è realtà universale, legame di uomini e di donne diversi e, se pur lontanissimi, uniti da Gesù, l’unico Buon Pastore, confermati nella fede da Pietro; se Chiesa è quella trama fittissima di storie di santità e di peccato, la cui complessità è conosciuta da Dio, Chiesa è anche quella particolare, quella comunità che dimora sulle nostre strade, è realtà appoggiata alle nostre case, è dimora che sento vicino alla mia vita; è la Chiesa che profuma di popolo e che a volte ci fa dire che è l’unica credibile perché resiste negli ideali del Vangelo e non abbassa la testa e non asseconda le logiche del potere e della ricchezza e dell’apparire; è la Chiesa della periferia con tutto il suo potenziale di creatività, fucina di una primavera nuova che il vertice non può ancora vedere o che, a volte colpevolmente, non vuole ascoltare; è la Chiesa del mio quartiere con volti precisissimi che a volte ci commuovono per la loro bellezza e a volte ci deprimono per la loro meschinità. Ma in questa trama di seconda mano passa Dio e le sue orme rimangono indelebili. Proprio nella vita di questa Chiesa marginale Dio ha deciso di mettere i paletti della sua tenda, proprio qui e ora io lo posso incontrare e afferro quel testimone di fede che altri mi hanno consegnato fra le mani e che io devo trasmettere alle nuove generazioni se non voglio tradire la mia storia.

2 Nel brano di Vangelo di Giovanni ritrovo il secondo architrave. Si è Chiesa non semplicemente per un’esigenza di aggregazione, anche se per molti di noi tutto è iniziato così: presto o tardi ci scontreremmo con i nostri limiti e ben presto la comunione si infrangerebbe. Non si è nemmeno Chiesa, paradossalmente, per volere bene al mondo, per amare i poveri o per abbracciare un ideale di un mondo diverso, un’utopia rivoluzionaria: troppo presto rimarremmo feriti da una frustrazione immensa di fronte al male che sembra sempre avere l’ultima parola e che disordina le cose; a nostri fratelli se noi portassimo noi stessi offriremmo solo, nella brocca per lavare i loro piedi, acqua fredda. Si è Chiesa perché c’è Gesù che ci raccoglie, solo perché c’è una relazione sostanziale con lui, solo perché lui passa nella nostra vita e ci chiama per nome, non si ferma di fronte ai nostri limiti, non fa conto delle tenebre che abitano nel nostro cuore perché lui è luce, non cerca in noi la perfezione per amarci ma ci riveste di Grazia perché noi valiamo ai suoi occhi per quello che siamo. E poi ci restituisce a dei fratelli che hanno già condiviso o che stanno per condividere la stessa identica condizione, uomini e donne che sanno di essere raccolti e salvati per Grazia e che non vantano alcun merito e per questo smascherati, liberi, pronti al perdono e non al giudizio. Le pecore ascoltano la voce di Gesù, si lasciano conoscere da lui e lo seguono. Sono i tre verbi costitutivi dell’essere Chiesa.

3 Paolo nella sua prima lettera ai corinti ribadisce con molta forza che è stato Dio a costruire, anche attraverso le sue mani e in comunione con altri, quella comunità. Ognuno dei credenti, in quanto uomo, salvato per Grazia, è tempio di Dio. Restare con Gesù, essere con lui, dare spazio a lui nella nostra vita ad un certo punto ti mette nella condizione di lottare perché ad ogni fratello sia riconosciuta la sua dignità di uomo. La Chiesa non è una comunione autoreferenziale, non puoi rinchiuderti in un benessere psichico e fingere di assecondare il Vangelo voltando le spalle al mondo. Appena fai tappa con Gesù si spalanca immediatamente l’orizzonte della strada. La Chiesa o è missionaria, o lotta perché la mia felicità sia compartecipata anche da altri, in particolare i piccoli, o presto esaurisce nelle sue mani il dono della fede che ha ricevuto.

domenica 7 ottobre 2012

6 dopo il Martirio del Battista - per la festa di riapertura dell'oratorio di SNEC

Caro don Santino,

mi fa un po’ strano scriverti. Per me non sei che un nome che compare in un elenco relativamente lungo di nomi affisso in sacristia. E anche se c’è qualche foto che ti ritrae, proprio non riesco a fissare nella mente i tuoi lineamenti. Ma perché scripta manent, il tuo nome lo lego ad una tua lettera datata 1913 che ho trovato in archivio. So che non è buona educazione ficcare il naso nella corrispondenza degli altri ma qui si tratta di oratorio e proprio non ce l’ho fatta a trattenermi. Chiedevi a un industriale della zona di cederti un appezzamento di terra perché volevi costruirci un oratorio dove accogliere come si deve i tuoi ragazzi che ti trovavi costretto a tenere come prigionieri (cit.) nel giardino della casa canonica. E poi, in modo chiaro, facevi presente l’urgenza di non lasciare sulla strada molti altri ragazzi perché il rischio che si traviassero (cit.) era tutt’altro che lontano.
Non ho mai capito se quel pezzo di terra ora è il campo di calcio o quello di basket e non ho ancora capito quando te lo hanno venduto o, conoscendo le doti dei preti, regalato! Fatto sta che mi piace pensare che da quella data ha avuto inizio l’avventura dell’oratorio alla Barona.
Oggi è la festa per la ripresa delle attività ordinarie dopo lo straordinario dell’estate. Dopo 100 anni, caro don, non possiamo certo vantare di avere grandi strutture. Non, non te ne faccio una colpa. Del resto, ai tuoi tempi, le norme sulla sicurezza non si sapeva nemmeno cosa fossero! Per fare oratorio bastava un campo anche se polveroso, un buon numero di adulti per i giochi e tanti ragazzi e infine un prete che facesse catechismo e che si rendesse disponibile a confessare. Chiedo anche a te di essere buono e di non rimproverarci se per esempio al posto della Grotta della Madonna ora ci sono improponibili gabinetti e se il tetto del teatro fa acqua da tutte le parti. E poi tranquillo, non ti scrivo per chiederti in sogno qualche numero – a volte l’enalotto mi pare la sola unica soluzione – e tanto meno una buona raccomandazione perché qualche industriale ci aiuti a risistemare un po’ il tutto: con la crisi che c’è…non mi faccio illusioni!
Vorrei parlarti invece dei nostri ragazzi e rassicurarti del fatto che non è venuta meno quella passione educativa la stessa che, immagino, in una notte insonne, ti ha fatto prendere in mano il coraggio di scrivere a qualche benefattore, dopo giorni passati a sognare ad occhi aperti che cosa avrebbe significato per la zona un oratorio. Sarà il Vangelo di oggi ad aiutarmi a parlare di educazione.

Vedi, come te, anche io sono preoccupato dei giovani sulla strada. Ma era la stessa preoccupazione di quel padrone di casa, la stessa preoccupazione di Dio. La noia li divora, li afferra e gli avvelena il cuore facendogli credere, a poco a poco, di non valere nulla, spegne i loro sogni, li costringe ad un eterno presente senza speranza di futuro, non si lasciano scottare dal fuoco di una rivoluzione da compiere nella storia che li attende come protagonisti. E su queste strade, come in quella piazza, non ci sono molti adulti che spaccano il muro dietro al quale altri adulti colpevolmente li isolano.

Ci sarà almeno uno disposto a chiamarli per nome? È la sfida dell’oratorio che sognavi, è la sfida che attende anche noi oggi. Come mi piacerebbe che gli educatori che oggi ricevono il mandato, e io per primo con loro, fossimo almeno un riflesso, anche sbiadito basterebbe, del Padre che non si arrende, che esce dalla sua casa, varca il muretto di confine della sua proprietà e va sulla piazza anche alle ore più improbabili a raccogliere quanta più gente possibile. Educare i ragazzi è la sfida che vale la pena rischiare per il futuro ma anche per il presente della nostra città.

Abbiamo bisogno di educatori che escano di casa, che si lascino scomodare, che non siano strabici cioè con un occhio all’orologio e uno negli occhi dei ragazzi. Che conoscano le strade dove si rintanano per incontrarli ed essere per loro, in gratuità, in totale perdita di se stessi.

Abbiamo bisogno di educatori affascinanti, che sappiano parlare ai ragazzi, magari come diceva don Bosco, al loro orecchio facendo capire loro quanto sono preziosi ma non per quello che possono dare ma per quello che sono, che si facciano loro compagni di viaggio, che riescano a dire al loro cuore che c’è un’opera grande da costruire assieme, il Regno, e che senza le loro mani tutto è più povero.

Abbiamo bisogno di educatori che dicano con la loro vita la bontà di Dio che non guarda al merito ma che dà tutto per Grazia. Un buon educatore è uno che si lascia divorare, che non può fare a meno della Messa perché ha scoperto che prima di lui c’è uno, Gesù Cristo, che si è fatto pane spezzato, amore incondizionato e che ci chiede di fare come lui per non buttare via nella banalità la nostra vita.
Caro don Santino, se dopo 100 anni alla Barona ci sarà un oratorio magari povero di strutture ma con un cuore ardente così, penso che avremo centrato l’obiettivo che ti riproponevi e non avremo tradito l’eredità che, assieme a molti altri, ci hai messo fra le mani; un oratorio che racconti la logica paradossale di un Dio che chiama ciascuno per nome. Niente di più che un segno. Un interrogativo posto nella vita del quartiere come inquietudine per molti. Buon inizio a tutti, allora!    

domenica 30 settembre 2012

5 dopo il martirio del Battista - per la festa di riapertura dell'oratorio di Berni e Bono

Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico...
perdonami, Gesù, se oggi, il giorno della festa del nostro oratorio, non riesco a trattenermi ma mi va di prendere il senso della tua parabola storpiando il contesto. Ti prometto che non piegherò nulla a mio piacimento e poi, lo sai bene, questa gente che ho di fronte è molto in gamba e, nel caso, sapranno cestinare questa predica senza dimenticare quanto appena ascoltato. A questi patti, non puoi negarmi l’autorizzazione…

Un ragazzo scendeva da via Teramo a via Boffalora. Potrebbe anche essere da via Mazzolari a via De Pretis o San Vigilio. Voglio parlare di un ragazzo della Barona, uno qualsiasi, come i tanti che mi capita di incrociare in oratorio, in strada, sui corridoi della scuola, sui campi da gioco. Ad un certo punto, sulla sua strada, incrociò la noia. A differenza del protagonista del tuo racconto, che senza dubbio avvertì immediatamente il dolore e la paura, il nostro ragazzo non si accorse all’inizio di cosa gli stava capitando. La noia del resto è così. Ti afferra  e poco per volta ti rende freddo, insensibile, spegne ogni piccola fiamma di passione che può dare senso alla tua vita, ti spinge a salire in superficie e a restarci. E alla fine si ritrovò incapace di credere in se stesso, gli sembrava di vivere in un eterno presente senza passato e senza futuro, gli sembrava che anche alle amicizie non si potesse dar credito fino in fondo accettando così la logica del branco. Solo nel cuore, ogni tanto, ma solo quando di notte non riusciva a prendere sonno, gli sembrava di aver dentro uno strano richiamo a qualcosa di diverso, i poeti direbbero, la voglia di felicità.
Per caso sul suo cammino passò un sacerdote. Ma sarà per la fretta di correre ad uno dei tanti impegni che riempiono la sua fittissima agenda, sarà per la scarsa creatività del linguaggio, sarà per un senso di frustrazione profondo, ma non fece altro che rimbrottarlo. Per fortuna il ragazzo non capì molto di quanto gli veniva rimproverato.
Passò anche un insegnante. Aveva un bagaglio di conoscenza tale che avrebbe fatto trasalire di entusiasmo chiunque ma i suoi occhi non brillavano più come la brace. Aveva in bocca sempre lo stesso ritornello e le sue minacce erano ormai armi spuntate. “Come faccio a credere che vale la pena spendersi per quello che mi dici se tu sei il primo che non ci crede?” sembrava dire il ragazzo con uno sguardo di sfida.
Anche un anziano si accorse di lui ma vide e, ovviamente borbottando, passò oltre. Per lui i ragazzi erano ormai un universo misterioso e a tratti minaccioso. “Ma come si fa a buttarsi via così” – pensò – quando lui, alla sua età, già lavorava e non pensava solo a divertirsi.
Insomma, quel ragazzo, come il disgraziato della parabola, per molto, troppo tempo rimase un invisibile. Chiunque passava non faceva altro che mettere un mattone al muro che lo separava dal mondo e lo sommergeva nell’abisso, lontano dai salvati.
Ma un giorno incontrò un educatore. Forse era un prete, forse un insegnante, forse solo un uomo appassionato della vita. Si fermò senza giudicare, lo ascoltò, iniziò, certo non senza fatica, ad amare quello che il ragazzo amava, sapendo che era l’unico modo per condurlo ad amare ciò che amava lui. Ci volle del tempo ma il ragazzo pian piano si sentiva più forte e iniziò a sgretolare quel muro di insoddisfazione liberando la voglia di felicità. L’educatore gli insegnò che felice è chi si lascia possedere da ciò che è infinito ed eterno. Quando vide che iniziava a camminare sulle sue gambe, quando si accorse che c’era in fondo al cuore un amore che gli restituiva la passione e il gusto delle cose, l’educatore sparì dalla sua vita per sempre. E fu felice.

Potrei fermarmi qui aggiungendo che proprio quest’ultimo è l’educatore che si fa prossimo dei nostri ragazzi. E la questione ci riguarda perché proprio dalla passione educativa, dalla qualità con cui emergono figure educative fra noi, si denota la buona salute di una comunità.
Vorrei però tenere fermi tre pensieri e regalarli a chi oggi riceve il mandato di andare ed educare a nome di tutti i nostri ragazzi…

1 parti sempre da chi incontri e non dai tuoi schemi. È più difficile perché occorre ascolto e pazienza. L’oratorio deve modellarsi in base all’esigenza dei ragazzi. Ma avremo risposto alla chiamata di essere una rete gettata sul quartiere per incontrare molti, seguire tanti, accompagnare a Gesù alcuni.   

2 il prossimo sei tu! È indelebile la traccia che puoi lasciare nel cuore di un ragazzo. Se solo ci accorgessimo del valore dei nostri sì e scoprissimo come siano, per i ragazzi, porte spalancate al Mistero di Cristo proveremmo un brivido.

3 devi lasciarti tu per primo raccogliere da una cura premurosa, quella di Gesù per te. Perché alla fine è lui solo il buon Samaritano o, se preferite, il vero educatore che guarisce la tua ansia di felicità piegandosi sul tuo bisogno.

Un’ultima idea e questa la voglio regalare ai ragazzi e ai loro genitori. L’oratorio è un coacervo a volte inestricabile di proposte e di cammini, puoi passare da qui a là come ci si muove in un grande parco cittadino. Ma lo scopo è di incidere nelle fibre più profonde del tuo essere di imprimere nel tuo cuore un marchio di fabbrica che ti porterai dentro per tutta la vita: l’amore per l’altro, amarlo al punto di mettere la sua gioia sempre prima della tua. È anche il senso della fede.
Buon inizio a tutti, allora!

sabato 22 settembre 2012

4 dopo il Martirio del Battista

Un uomo si era perduto nel deserto e si trascinava da due giorni sulla sabbia infuocata. Era ormai giunto allo stremo delle forze. Improvvisamente vide davanti a sé un mercante di cravatte. Non aveva con sé nient’altro: solo cravatte. E cercò subito di venderne una al pover’uomo, che stava morendo di sete. Con la lingua impastoiata e la gola riarsa, l’uomo gli diede del pazzo: si vende una cravatta a uno che muore di sete? Il mercante alzò le spalle e continuò il suo cammino nel deserto. Alla sera, il viaggiatore assetato, che strisciava ormai sulla sabbia, alzò la testa  e rimase allibito: Era nel piazzale di un lussuoso ristorante, con il parcheggio pieno d’automobili! Una costruzione grandiosa, assolutamente solitaria, in pieno deserto. L’uomo si arrampicò a fatica fino alla porta e, sul punto di svenire, gemette: “Da bere, per pietà!”. “Desolato, signore… – rispose il compitissimo portiere – Qui non si può entrare senza cravatta…”.
Mi piace sottolineare il brano di Vangelo appena ascoltato con questa piccola storia…c’è una quotidianità che non va disprezzata, anche se sembra assurda o paradossale. Ma su questo avremo modo di soffermarci più avanti.

Il lezionario di questo periodo, inaugurato dopo Pentecoste, ci ha fatto percorrere la storia della salvezza e, dopo la festa del Martirio del Battista, ci sta facendo sostare sul Mistero di Gesù come l’enigma di tutta la storia dell’uomo, vero e proprio centro, cuore pulsante, stella polare attorno a cui ruota e acquista senso ogni parola d’amore di Dio per il suo popolo.
Ma questa Parola chiede di incarnarsi, di diventare il respiro dei nostri giorni. E allora lasciamoci mettere con le spalle al muro dall’unica domanda che conta: chi è Gesù per te? Forse solo un nome, forse un’idea, un’utopia, un richiamo morale…forse un Dio da piegare alle tue domande, comunque troppo lontano, troppo distante, troppo diverso. Domenica scorsa Gesù, di fronte alla domanda di Nicodemo che voleva comprendere qualcosa di più di lui, non ha dato risposte convenzionali - del resto non si è mai lasciato imbrigliare nell’aridità di uno stretto confine concettuale, anche se religioso - e ha capovolto i termini della questione: chi sei tu? cosa cerchi? cosa si muove nel tuo cuore? per comprendere chi sono io parti dal tuo bisogno di felicità, dalla tua voglia di novità, di scuoterti da quello che ti àncora ad una vita piatta e ripetitiva. E io sono la mano tesa che ti raccoglie dall’abisso della tua omologazione per condurti su sentieri di eternità. Sappiamo che Nicodemo questo salto di fede lo compirà. Gli interlocutori di Gesù nel brano di Vangelo di oggi invece rimangono zavorrati alla loro convinzione di conoscere ogni cosa di Dio e non lasciano nessuno spiraglio aperto alla sorpresa, alla novità, allo stravolgimento: riducono l’esistente, e anche il pensiero di Dio, alla loro ristrettezza mentale. Gesù non può essere dal cielo perché è nato fra noi, conosciamo i suoi passi, la polvere dei suoi piedi è la stessa che calpestiamo anche noi. Dio deve essere necessariamente altro, entrare a gamba tesa nella storia, in modo eclatante, rivoluzionario. L’umanità di Gesù diventa l’ostacolo per la loro fede.
In questo dialogo che si farà sempre più serrato Gesù invece chiede loro nuovamente di fidarsi, di lasciarsi rapire dallo Spirito, di lasciarsi condurre lontano, di iniziare a masticare quei bocconi di pane che sono la sua Parola e i suoi segni per comprendere di volta in volta qualcosa in più di lui. Perché lui è come Pane, anzi è Pane.
Lui è il Pane. Il Pane è il necessario che ti nutre. Lui ti è necessario se non vuoi smarrire la tua vita nella banalità.  
Il Pane è buono. Lui è l’amore che cerchi quando sei assettato di felicità, è la tua possibilità per uscire dal deserto della tua solitudine.
Il Pane è la sua carne per a vita del mondo. Non c’è altro da dire: lui è il volto di un Dio che si fa passione fino a dare la vita perché la tua vita sia rimessa in gioco nella libertà.
Chi è allora Gesù per te? Non fermarti alle apparenze. In un ritaglio dei tuoi giorni passerà e ti offrirà la sua mano. Molto spesso accade dietro alle parole di qualche fratello di fede oppure dietro al sorriso di un piccolo o alla domande dei poveri.  Non pensare che sia poca cosa o addirittura inutile come una cravatta in un deserto! Non voltargli le spalle. In gioco c’è una posta altissima: ospitare Dio nella tua casa. E, credimi, con lui un bagaglio di vita eterna, avrai guadagnato il mondo intero!

Come un inciso. Fra quei Giudei che non hanno compreso, di sicuro, c’è anche qualcuno che aveva compreso troppo bene. Qualcuno che forse aveva iniziato a sospettare che, alla lunga, l’amicizia con Gesù lo avrebbe condotto sul crinale di decidere di fare come lui, in sua memoria e dare la vita per amore degli altri. E si è tirato indietro per paura. Stai attento, perché quando hai fatto un miglio con Gesù, in amicizia con lui, senti nel cuore la spinta irrefrenabile di donarti a sua immagine. Stai attento perciò quando fra poco farai la comunione, la strada è in salita e ora lo sai bene!

domenica 9 settembre 2012

2 dopo il Martirio del Battista

Oggi, proprio in questo giorno che noi ci permettiamo di considerare solo un numero su una pagina di un diario, è il giorno della salvezza. Oggi puoi chiamare il tuo passato perdono perché Dio ti ama per quello che sei, anche per i tuoi peccati; oggi puoi chiamare il tuo futuro speranza perché il presente già profuma di eterno. Oggi, in questo giorno preparato per te fin dall’infinità del tempo, Dio ha scelto di farsi tuo compago di viaggio. Oggi Dio ha deciso di non volere fare a meno di te per portare a compimento il suo sogno di felicità per l’uomo. Questo oggi è dal momento in cui Dio ha deciso di rivelarsi in modo definitivo in Gesù. Ma oggi noi ci scopriamo anche libertà chiamata a scegliere di fronte alla mano tesa di Dio: ogni tuo giorno può essere il momento per ricominciare daccapo a tessere la tua storia con Dio oppure puoi volgergli le spalle e chiuderti nella pretesa di essere salvezza a te stesso e inseguire i tuoi imperativi morali.

Ecco la prospettiva teologica che ci viene proposta dalla Liturgia della Parola di questa domenica. Se dovessimo trovare un sottotitolo questo potrebbe essere: la salvezza e il rifiuto. Perché sia Isaia che il Vangelo in particolare ci raccontano, in termini differenti, lo stesso mistero di tenebre che soffocano la luce presenti nel cuore dell’uomo. È un filo rosso che, a ben pensarci, percorre tutta la Scrittura. Da una parte un Dio che predilige e sceglie come eredità un popolo e non si arrende perché ha deciso di impegnarsi per sempre nella Alleanza e, dall’altra, l’uomo che si chiude, si oppone, percorre un’altra strada, cammina su sentieri di autonomia che alla fine si risolvono sempre in disgregazione e ingiustizia verso il fratello. È così da Adamo in poi. Il Vangelo lo dice in modo parecchio drammatico: se uno si presentasse nel suo nome il Popolo lo accoglierebbe, ma proprio perché Gesù viene da Dio, proprio perché ascoltando lui e vedendo i suoi gesti puoi avvertire il brivido della presenza dell’eterno e dell’infinito, allora ti chiudi, te ne allontani, lo imprigioni in categorie del tutto umane per mettere a tacere la coscienza e non porti nemmeno una domanda sulla sua pretesa Verità di essere dal Padre.

Ma perché accade questo, perché la libertà dell’uomo si chiude di fronte alla rivelazione di Dio, perché, piuttosto che approdare in lui e mettere a tacere le ansie che abitano nel suo cuore da sempre, insieme  a milioni di domande irrisolte, l’uomo decide di alzare un muro? Credo che una sorta di risposta, pur complessa e dettata da mille altre sfumature dipendenti dalla vita di ciascuno, sia proprio da ricercare in quella paura che hai di perdere te stesso. Credo davvero che l’uomo abbia paura che Dio in qualche modo voglia privarlo di qualcosa, che la sua presenza lo costringa a violare la sua libertà, che gli chieda di scendere a un compromesso che svilisce la sua felicità. Questa è la paura di Adamo che apre gli occhi e crede che il comando di Dio lo privi di un qualcosa, la paura che si fa terrore poi quando avverte i suoi passi nel Giardino.

Provo a pensare anche alla nostra vita. Anche noi spesso siamo tentati di chiuderci a Dio, di non voler scrutare i segni dei tempi per non accorgerci del suo passaggio, oppure capita, a volte, di vedere bene quali sono le sue orme al suo passaggio nella nostra vita ma di voler andare in tutt’altra direzione. Quante scuse accampiamo per non pregare, per non ritagliarci un’isola di deserto e di silenzio nel frastuono della città perché sappiamo che saremmo messi con le spalle al muro e di fronte a lui ci scopriremmo creature sempre di corsa ma senza spesso sapere come, dove e perché. Quante volte anche noi preferiamo chiudere la Parola perché ci obbligherebbe a una reale conversione, troppo impegnativa. Quante volte anche le nostre Eucarestie sono vissute nell’intimismo perché se la corrente della carità di Cristo ci travolgesse ci scopriremmo poi obbligati a fare di noi un dono per gli altri, ci sentiremmo in dovere almeno di lavarci i piedi gli uni gli altri. Vorrei allora proporre due chiavi risolutive per il nostro discorso, come due ancore a cui aggrapparci se ci siamo accorti che anche nella nostra vita c’è il rischio di un naufragio perché ci siamo chiusi in noi stessi e stiamo perdendo di vista l’essenziale.    

Non abbiate paura, Cristo non toglie nulla ma dona tutto. Lo diceva Giovanni Paolo II nel giorno in cui ha iniziato il suo ministero. Parole che poi lui ha avuto il coraggio anche di declinare in scenari non solo religiosi m anche politici ed economici. E quando scopriremo che l’unico modo per riscattare la nostra vita dalla banalità è proprio arrendersi a Cristo avremo scoperto che la nostra gioia non è stata per nulla sminuita ma, anzi, si è moltiplicata all’infinito per noi e per la vita del mondo.

In Isaia abbiamo letto che Dio muove guerra al suo popolo. E proprio la crisi, la solitudine, la miseria, lo sgomento portano Israele a invocare Dio di rivelarsi ancora. Sembra strano ma davvero Dio ogni tanto ci fa guerra, o meglio, come farebbe un padre, per amore, ci lascia andare anche al costo di farci raschiare il fondo di noi stessi e farci provare il brivido della miseria. Nei momenti di crisi, di dolore, di fronte alla nostra povertà e al nostro limite, di fronte alla morte, sentiamo in noi una forza che ci spinge a guardare ancora una volta in alto. Non sentiamo vergogna perché, dall’altra parte, c’è il volto di un Padre e un abbraccio che ci riporta a casa.

domenica 19 agosto 2012

dodicesima dopo Pentecoste

Geremia, una figura emblematica per dire il ruolo del profeta: guarda oltre le apparenze e denuncia, nei tempi di un apparente benessere, lo scandalo dell’ingiustizia, dell’oblio della fede e quindi della carità, lo scandalo di scelte mirate solo all’interesse personale. Geremia pagherà duramente con il carcere e con la solitudine questa predicazione che lo rendeva forte con i forti. Cosa inedita al suo tempo, per dire il lutto in cui Israele sia autocondannava a vivere, non prenderà nemmeno moglie. La sua vita diventerà un segno profetico. Nel tempo della crisi, della distruzione e della sfiducia sa annunciare le cose nuove che il Signore sta per compiere in mezzo al suo popolo. Perché Dio è misericordia, rinnegare il suo popolo sarebbe, per lui, rinnegare se stesso. L’amore che lo porta alla gelosia, a tratti alla collera è lo stesso che lo porta a considerare il suo popolo come un bambino da educare. Geremia, pur non essendo costretto, parte con Israele esiliato verso Babilonia. L’annuncio che c’è un resto d’Israele da cui Dio ricostruirà la sua storia d’alleanza sarà il motivo di sottofondo costante alla sua predicazione del post-esilio.  Il profeta è uno che nell’inverno sa vedere il crepitio del germoglio che increspa il ramo secco.
A questo brano fa eco Paolo e la sua certezza che Dio non ha dimenticato Israele ma lo sta conducendo a salvezza per sentieri misteriosi. Un cammino che non è ancora terminato, nemmeno oggi.
E chiude la proposta della Parola il brano di Vangelo in cui Gesù manda missionari i suoi discepoli. È un esperimento di missione, una sorta di prova alla missione vera che li attenderà nel tempo dopo la risurrezione. Mi colpisce soprattutto, collegando questo brano alla Parola di Geremia, che anche i discepoli devono condividere questa sorta di vocazione profetica, devono camminare portando una Parola non loro, anzi, meglio sarebbe dire, devono lasciarsi condurre lontano da una Parola che li precede e che ha la forza di cambiare la loro vita e  quella di chi li ascolterà. È una pagina molto intensa, a tratti paradigmatica, assomiglia e vuole essere una regola di vita per chiunque decide di dare disponibilità per il Regno. E noi, pur avvertendone la carica utopica, pur domandandoci se è mai possibile vivere così, sentiamo sulla pelle la sua freschezza e tutto il fascino, quasi un’irradiazione che ci spinge a farla nostra. Ecco perché mi permetto di sottolinearne alcuni passaggi:

il Regno dei Cieli è vicino: non in termini di tempo ma di prossimità reale, ti è accanto. Gioisci, stupisciti. Parti da qui per un reale cammino di conversione
guarite i malati, risuscitate i morti…partire dagli ultimi
la povertà sinonimo di gratuità e annuncio che Dio solo basta
la pace da invocare e da ricevere: è bandito l’affanno
solo a Dio il giudizio
una predicazione così è ricca di segni e povera di parole, non è disincarnata ma profuma di vita, s’incarna nell’oggi di chi ascolta. Anzi diventa una vera e propria provocazione davanti a cui sei chiamato a scegliere in che modo porti.

A noi cosa dice oggi questa parola: la nostra vocazione è profetica. Il bisogno di uomini e di donne che, per fede, che rapiti dall’utopia di un mondo diverso, di un mondo che Dio ci prepara, sanno scendere in piazza e gridare, sanno essere schietti, pronti alla denuncia ma anche capaci di consolazione. Ma forse, ancora di più, sanno essere profezia nell’ordinario dei loro giorni con scelte autentiche.
Profeti che hanno sulle labbra la parola dei segni, proprio come i discepoli nel Vangelo ascoltato. Sogniamo una Chiesa meno parolaia, meno arroccata per paura, e più dinamica…una vita così è possibile:
Mentre un giorno ascoltava devotamente la messa degli Apostoli, sentì recitare il brano del Vangelo in cui Cristo, inviando i discepoli a predicare, consegna loro la forma di vita evangelica, dicendo: "Non tenete né oro né argento né denaro nelle vostre cinture; non abbiate bisaccia da viaggio, né due tuniche, né calzari, né bastone". Questo udì, comprese e affidò alla memoria l'amico della povertà apostolica e, subito, ricolmo di indicibile letizia, esclamò: «Questo è ciò che desidero questo è ciò che bramo con tutto il cuore!». Si toglie i calzari dai piedi; lascia il bastone; maledice bisaccia e denaro e, contento di una sola tonachetta, butta via la cintura e la sostituisce con una corda e mette ogni sua preoccupazione nello scoprire come realizzare a pieno le parole sentite e adattarsi in tutto alla regola della santità, dettata agli apostoli.
Dalla Leggenda maggiore di san Bonaventura.

mercoledì 15 agosto 2012

Assunzione di Maria al Cielo

1 Maria, madre e sorella
Siamo abituati a rappresentarla nelle nostre sculture come regina, con una corona sul capo. Oppure siamo abituati nell’iconografia orientale a vederla nella sua stasi fuori dalla realtà. Il concilio Vaticano II – di cui quest’anno ricorrono i 50 anni dall’apertura – invece la chiama madre e sorella che sei corsa avanti e ci hai preceduto. A lei non viene tolto nulla e noi la possiamo sentire più vicina, più amica. E il suo sentiero diventa praticabile e percorribile anche da noi anzi lei è pronta a prenderci per mano se non ce la facciamo a camminare in qualche passaggio difficile.
Il suo itinerario può essere il nostro: lei, la Vergine dell’ascolto, lei la madre del dolore, lei la Regina degli apostoli. Ogni nostra amicizia possibile con Dio nasce dall’ascolto della Parola e dal metterci nella sua mano sicuri che la sua volontà niente toglie alla nostra gioia ama anzi le dona uno slancio di eternità. poi viene il dolore, cieco, forte, le cui parole non possono esprimerlo come il suo ai piedi della croce. Ma non è l’atto ultimo ma solo il preludio di un finale di Gloria a cui si arriva per la croce ma senza il quale nessuna croce avrebbe senso perché sarebbe esasperazione del dolore e contrario alla logica di Dio.

2 il Mistero della Festa dell’Assunzione
di cosa ci parla la Festa dell’Assunzione. Il corpo di Maria, dopo la sua morte, è stato preservato dalla corruzione. Lei condivide già la condizione dei risorti con il suo Figlio in Paradiso. Non poteva, lei che è l’Immacolata concezione, lei che è la Vergine e Madre, attendere la risurrezione. La festa di oggi ci parla perciò del destino dell’umanità, della dignità dell’uomo e del suo corpo. Quanto accaduto a lei sarà anche per noi. Noi siamo destinati all’eternità, alla vita senza fine perché siamo unici e irripetibili e la nostra risurrezione sarà conferma e proiezione all’eterno delle nostre scelte nel presente. Quindi quando viviamo il nostro corpo con l’amore, abbracci, sorrisi, mani pronte e a rialzare chi è caduto, piedi agili che annunciano il Vangelo e sono là dove l’uomo soffre, tutto questo è segnato per l’eterno e già profuma di eternità, anzi è l’unico modo per riscattare dalla banalità i nostri giorni.

3 presagio di resurrezione: il Magnificat
Come credere nella risurrezione se non ne facciamo esperienza qui e ora? Siamo chiamati ad aprire gli occhi e a raccogliere nella nostra bisaccia i segni di vita eterna che in abbondanza ci circondano. Maria nel suo Magnificat ce ne dà una mappa.
Ha guardato all’umiltà della sua serva, d’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata Quando senti in te l’amore personalissimo di Dio nei momenti di preghiera e di ascolto, amore gratuito anzi non contrapposto alla tua debolezza, piuttosto che colma le tue ferite, che ti è dato in gratuità anche quando meno te lo meriti ti accorgi che la sua mano non può abbandonarti mai, e nemmeno nel passaggio della tua morte quando sarai davvero solo.
Ha rovesciato i potenti dai troni ha innalzato gli umili quando ti accorgi che aldilà di ogni sfruttamento, di ogni perversione che schiaccia i piccoli sono proprio loro a dare linfa alla storia, a incidere nei solchi dell’esistenza dei fratelli, loro con tutto il potenziale d’amore, e non i potenti, ogni volta che metti mano alla storia per riscattare chi è piccolo, affamato, disprezzato e  povero allora stai anticipando il regno.

Madre e sorella, Regina degli apostoli, tu che conosci il valore di ogni singolo atto d’amore corrici incontro e fa’ che apriamo gli occhi ai segni di Paradiso che già ci circondano e, per quello che spetta a noi, dcci di mettere mano a questo mondo perché venga il regno, gli assomigli un po’ di più di come lo abbiamo trovato noi.

domenica 12 agosto 2012

undicesima dopo Pentecoste

1 Nella terra dove aveva preso dimora stabile, in quella terra concessa al patto di non dimenticare che tutto era stato dono di Dio, Israele si era lasciato sedurre dagli idoli, aveva dimenticato il sentiero antico per batterne uno nuovo, si era lasciato rapire dalla demagogia dei potenti che, allora come oggi, sanno mistificare la realtà e creare consenso spegnendo la coscienza. Elia è uno dei pochi rimasti fedeli al Signore, non aveva avuto paura di sfidare a viso aperto l’arroganza di Gezabele e di Acab e sul Carmelo, in questa gara che, se non fosse per la finale tragica dello sgozzamento di tutti quei falsi profeti, potrebbe assomigliare ad un grande gioco, si consuma la sfida fra verità e menzogna e il popolo riceve un segno, un altro segno della forza e della presenza dell’unico Dio. Il Segno...chiederlo è nella stessa logica che ti porta a invocare un idolo: lo puoi stringere fra le mani, ti assomiglia, puoi immaginare che sia al servizio di ogni tuo bisogno, di ogni capriccio, svendendo però la tua libertà. Così il segno. Deve esserci per farci compiere quel salto di affidamento, deve spingermi fra le braccia di Dio, deve farmi superare il sospetto di non essere abbandonato ma che di Dio posso fidarmi. E se questi segni non ci sono smetto di fidarmi, inizio a pensare che questo Dio sia cattivo o che abbia chiuso la sua partita con me. Si capisce bene che la pagina di oggi parla proprio anche di noi, racconta anche la nostra logica, fotografa bene la nostra mentalità.

2 Dio concede dei segni lungo la storia della salvezza. La Scrittura ne è costellata: il mare che si apre, le rocce che danno acqua, sterili che diventano madri. Dio sa che ne abbiamo bisogno e, aldilà di tutto, lui rimane fedele alla nostra storia più di quanto noi possiamo rimanere fedeli a lui. Anche noi, nella nostra personalissima storia personale, possiamo aver ricevuto qualche segno che ha accontentato la nostra sete di eterno. Ma alla fine di tutto, nella pienezza della sua rivelazione, Dio ci dona il Segno del suo Figlio e della croce in particolare. Non ce lo aspettavamo, non è nell’ordine delle cose che avremmo chiesto. È un segno muto, da interpretare, è uno stare a braccia spalancate e con le mani aperte e lo puoi leggere come la più grande sconfitta, il grande scandalo, il grande tradimento della nostra idea di Dio oppure come la più alta dichiarazione della verità di Dio, di un amore che non trattiene nulla e si dona, che non pretende nulla e offre perdono e una nuova alleanza. Anzi, la debolezza è la sua forza, la sconfitta è la sua vittoria, lo scandalo e il paradosso sono il suo linguaggio. Penso sia proprio questo il segreto della pagina del Vangelo di quest’oggi: ci saremmo aspettati nella parabola che il figlio del re mettesse mano alla spada, che pretendesse con la forza l’obbedienza dei suoi e invece si lascia mettere le mani addosso e si lascia uccidere perché quel re crede fino alla fine nella bontà dei suoi e scommette sulla loro libertà.
Dio va a tutti gli uomini nella loro tribolazione,
sazia il corpo e l’anima del suo pane,
muore in croce per cristiani e pagani
e a questi e a quelli perdona.
(Dietrich Bonhoeffer Resistenza e Resa – Lettere e scritti dal carcere)  
Anche Elia ha dovuto fare i conti con questo segno di debolezza. Non leggeremo il seguito del racconto, vi invito a farlo personalmente. Dopo l’uccisione dei falsi profeti, Elia dovrà fuggire nel deserto per non essere catturato dalla regina Gezabele. In una grotta Dio gli appare ma non più nella forza del fuoco, nemmeno nella potenza del terremoto o nella furia del Vento. Gli parlerà con il mormorio di una brezza leggera. Qui nel fuoco Dio non parla. Lì sentirà chiara la sua voce nella debolezza. E anche lui, sceso da quel monte, dovrà annunciare la Parola del suo Signore smettendo per sempre il linguaggio della violenza e della forza.

3 Vorrei allora chiudere il discorso pensando che anche noi siamo chiamati a diventare segno della presenza di Dio, come singoli e come comunità. Ma se è vero quanto ci siamo detti fin ora non possiamo esserlo nella supponenza del linguaggio, nel restauro di antichi segni di potere, nell’arroganza di una dialettica che pretende di fare cultura e invece tende solo ad annichilire la posizione di chi ti sta di fronte. Siamo segno quando viviamo la condizione della debolezza, la paradossalità della croce, quando sappiamo amare l’altro al costo di perderci e di dimenticarci, quando ci sentiamo piccoli e deboli. È il segreto dei martiri, è il segreto di tanti semplici che ci parlano di Dio e penso ora ai malati che sanno dare luce a chi va a visitarli, a chi non conta nulla e non ha nulla eppure è ricco della gioia del Regno, penso a quelle comunità, piccolo gregge nella massa anonima delle città, dove si è capaci di vivere in un’apertura intelligente e dove si prega bene e ci si perdona tanto.

sabato 4 agosto 2012

decima domenica dopo Pentecoste

Al re Davide non era stato permesso di costruire un Tempio. Dio avrebbe costruito per lui una casa, nella doppia accezione che questo termine ha nella lingua ebraica (“bet”: casa e anche discendenza), promessa che, come tutte quelle di Dio, puntualmente si avvera in Salomone. Dio aveva deciso di vivere nomade sotto una Tenda chissà, forse per richiamare gli anni del deserto, anni di lotta, fatica, infedeltà ma indubbiamente anni per la stagione di un amore che si faceva passo a passo sempre nuovo; chissà, forse perché Dio ama la povertà e non solo a parole come spesso noi facciamo e a lui non piace stare imprigionato anche se nello sfarzo di belle pietre e di ricchissimi ornamenti oppure, chissà, forse perché voleva essere davvero in mezzo ai suoi e non davanti e neppure in fondo alla carovana di un Israele che aveva preso possesso di quella terra. Eppure oggi sentiamo di questo Tempio, anzi, siamo proiettati con la fantasia a contemplarlo nel giorno della sua inaugurazione. Noi, a distanza di tanti anni, sappiamo bene che si tratta di un’opera provvisoria e che Dio avrebbe concesso solo di tanto in tanto di dimorarci preferendo nascondersi da Israele e rivelarsi nella parola forte dei profeti o ancora in mezzo al resto di poveri scampati lungo la storia a miriadi di persecuzioni.

La liturgia della Parola non tradisce questa logica di Dio e alla pagina della prima lettura associa altre due pagine che, se da una parte riducono il ruolo del tempio di pietra, dall’altra aprono orizzonti davvero emblematici per la nostra riflessione, parole che dobbiamo centellinare e porre nella nostra bisaccia di poveri pellegrini nel deserto della vita. Mi limito a sottolinearne due.

Il primo orizzonte: Dio ha deciso di considerare suo Tempio l’uomo sua creatura. C’è una bellissima pagina di don Tonino Bello che meglio di altre parole descrive questo pensiero. A Molfetta, dove lui era vescovo, fu nominata basilica minore la chiesa della Madonna dei Martiri. La sera precedente, durante una vegli presieduta da un cardinale di Roma, un giovane chiese perché basilica minore e non semplicemente basilica. Non trovò risposta migliore che questa:
Mi avvicinai alla parete del tempio e battendovi contro, con la mano, dissi: «Vedi, basilica minore è quella fatta di pietre, basilica maggiore è quella fatta di carne. L'uomo, insomma. Basilica maggiore sono io, sei tu! Basilica maggiore è questo bambino, è quella vecchietta, è il signor cardinale. Casa del re!». Il cardinale annuiva benevolmente col capo, Forse mi assolveva per quel. guizzo di genio. La veglia finì che era passata la mezzanotte. Fui l'ultimo a lasciare il santuario. Me ne tornavo a piedi verso casa, quando una macchina mi raggiunse e alcuni giovani mi offrirono un passaggio….Ma ecco che, giunti davanti al portone dell'episcopio, si presentò allo sguardo una scena imprevista. Disteso a terra a dormire, infracidito dalla pioggia e con una bottiglia vuota tra le mani, c'era lui: Giuseppe (un senza fissa dimora a cui don Tonino spesso apriva le porte di casa)…Ci fermammo muti a contemplare con tristezza, finché la ragazza che era in macchina dietro di me mormorò, quasi sottovoce: «Vescovo, basilica maggiore o basilica minore?». «Basilica maggiore» risposi. E lo portammo di peso a dormire. All'alba, volli andare a vedere se si fosse svegliato…Giuseppe riposava, sereno...Mi venne spontaneo rivolgermi al Signore a ripetere coi salmo: Lo hai fatto poco meno degli angeli. Mi attardai per vedere se avesse le ali. Forse le aveva nascoste sotto il guanciale.
C’è una dignità che nessuno può toglierci, niente può cancellare, né il giudizio degli altri e nemmeno il guaio più grosso in cui possiamo esserci cacciati noi con le nostre mani, né la solitudine da cui spesso ci sentiamo avvolti e neppure la povertà o la sofferenza. Al massimo possiamo illuderci di averla persa, l’abbiamo persa di vista, iniziamo a credere a quelle voci in noi, contro di noi, che non valiamo più nulla ma non è vero! Perché sei uomo tu sei figlio, perché tu hai mente e cuore, fantasia e libertà tu sei prezioso. E questo è l’invito a una vera e propria rivoluzione perché possiamo riscattarci e riemergere dalle nostre ferite, è una lotta perché in nessun angolo della nostra città e del nostro quartiere più nessuno sia calpestato nella sua dignità togliendogli casa, accoglienza, lavoro. Se è vero che l’uomo vale più degli angeli, che noi siamo stati creati a immagine e somiglianza di Dio, allora ogni insulto all’uomo, ogni azione che calpesta la sua bellezza è una bestemmia gravissima!

Il secondo orizzonte. Nel Vangelo leggiamo un gesto di Gesù accompagnato da parole durissime tutt’altro che improvvise e dettate dalla collera di un istante. Gesù a Gerusalemme, pochi giorni prima della sua passione, compie un’azione simbolica, sceglie di porre un segno profetico convinto del potere che ogni segno può avere contro i segni del potere che tentano di ingabbiare anche Dio e di calpestare la verità. Il tempio non è più casa di preghiera ma covo di ladri, luogo dove non solo si compra e si vende, dove lo spirito del denaro, del potere e dell’apparire hanno preso piede e con la loro forza subdola si mettono in aperto contrasto con Dio. è diventato luogo di ipocrisia. La preghiera era diventata pretesto per coprire l’ingiustizia consumata a spese del povero fuori dalle mura del tempio, si pensava che bastasse offrire un sacrificio per lavarsi le mani e la coscienza. Gesù invece lega alla dimensione spirituale quella della Giustizia che è essenzialmente amore e scelta preferenziale per i poveri e i piccoli. Ecco perché li chiama a sé e proprio nel tempio li guarisce e lascia che alzino la voce. Credo che questo ci metta con le spalle al muro come singoli e come Chiesa. Ci obbliga cioè a rivedere la mappa della nostra vita spirituale: se la fede non diventa carità stiamo sbagliando strada, siamo vittime di uno spiritualismo cieco. Se dopo anni che veniamo a messa non siamo migliorati nemmeno di un poco nelle nostre relazioni, nell’attenzione all’altro, ai piccoli che bussano alle nostre porte forse stiamo pregando un dio diverso dal Padre di Gesù. E infine, come Chiesa, se i giochi di potere, il peso della ricchezza, lo scandalo delle amicizie con i forti e i tradimenti verso la classe degli ultimi sono diventati una regola che dà scandalo e fa alzare a troppe persone la voce come una denuncia  forse abbiamo bisogno di una nuova stagione di conversione e per chiedere perdono, di una nuova primavera in cui battere con decisione il cammino evangelico della povertà che significa imitazione del Maestro.

domenica 15 luglio 2012

settima dopo Pentecoste

Mosè ha ceduto il passo a Giosuè e Israele entra nella terra della Promessa. Non è Mosè a condurli, Il testo sacro ci dice che anche lui mancò di fede alle sorgenti di Massa e Meriba e per questo fu punito. Trovo molto suggestivo un commento rabbinico al perché di tanta severità nei confronti di un uomo fra i più grandi dell’alleanza. Se è vero che Mosè rappresenta la Legge e la Terra l’alleanza di Dio con l’uomo, la comunione fra lui e la sua creatura, la meta raggiunta del cammino di una vita buona, allora si comprende che non è la legge a farti entrare in questa dimensione. La Legge ti indica la strada, ma è l’amore solo che ti fa percorrere il cammino.

A parte questa suggestione, Israele in quella terra deve lottare. Dio è dalla sua parte ma non gli è risparmiata la fatica della conquista, la dimensione della lotta. E la pagina di oggi ci racconta proprio un momento di guerra nata da un’alleanza a Gabaon. Sono molte le domande che potremmo porci riguardo alla Verità del nostro Dio, a quale sia realmente il suo volto, al suo presentarsi oggi come un Dio che muove alla guerra e distrugge i nemici con forza implacabile. Ma su questo credo che si possa rispondere che la comprensione dell’uomo di Dio è tutta in divenire e che questo testo leggendario coglie alcuni aspetti della rivelazione che poi sono si sono affinati e sono giunti a pienezza nella rivelazione cristiana: Paolo e Gesù nel Vangelo ci dicono che la vera lotta è la perseveranza nella tribolazione, nella fatica di conservare la fede, di resistere contro tutto ciò che in noi e attorno a noi tenta di raffreddare il nostro cuore.

Vorrei piuttosto lasciarmi afferrare da alcune suggestioni molto affascinanti che la Parola di oggi ci consegna.

1 la fede non ti esenta dalla condizione della sofferenza. Anzi, talvolta Dio ti fa passare di deserto in deserto e ti costringe a lottare con tutto te stesso. Perché l’uomo di fede a volte vive la sensazione che le tenebre del suo cuore sono pari alle luci e non riesce a fare una sintesi, vive sulla sua pelle il dramma dell’incredulità pur non rassegnandosi all’ateismo ma cercando sempre un motivo in più per credere. Un altro motivo di lotta è senz’altro contro il male che abita nel nostro cuore e che riconosciamo molto bene ma a cui spesso cediamo il passo nel quotidiano. Ci assale a volte lo sgomento, la disperazione, sappiamo che non ce la faremo mai da soli e per questo siamo tentati di mollare il colpo. Ma qui la cosa più importante da capire è che non ci salveremo con le nostre forze ma solo arrendendoci alla Grazia di Cristo. Infine l’uomo di fede talvolta, venendo dal futuro, sente bruciare sulla sua pelle il dramma dell’ingiustizia e si veste di profezia per denunciare il mondo e la sua logica di potere, denaro e apparenza. E questo lo mette spesso ai margini e lo costringe a soffrire: come tacere e come assecondare il mondo se hai visto che il pensiero di Dio è altro e in ogni tempo c’è sempre qualcuno che calpesta la dignità dell’uomo?

2 la lotta del credente e la certezza di essere sostenuto. Come Giosuè  e tutto Israele lottano ma al loro fianco riscoprono Dio che interviene con segni prodigiosi. E come dice Paolo nulla ci può separare dall’amore di Cristo. Proviamo allora ad andare con la memoria ai momenti di grande difficoltà. Chi di noi non ha mai sentito ad un certo punto la mano di Cristo stretta alla sua. Oppure chi non ha mai vissuto l’esperienza di incontrare uomini e donne molto provati ma con una fede immensa e capace di lasciaric a bocca aperta ocme uno splendido fiore nel deserto.  

3 il credente è a immagine di Cristo: un perdente rispetto alle logiche del mondo ma uno che sa che alla fine è quando ti doni con amore che ti ritrovi e salvi il mondo. Dalla tua lotta che alla fine t porta a donarti senza trattenere nulla, a credere che l’unica forza che vince il mondo è l’amore e proprio per questo ti consegni per amore, tacendo, sapendo che per l’oggi l’importante è seminare. Altri poi raccoglieranno.

Dio non si è rivelato per togliere la sofferenza e nemmeno per spiegarcela: Dio si rivela per abitarla assieme a noi.