sabato 25 luglio 2009

Ottava dopo Pentecoste

C’è differenza fra abitare la terra e possederla. Nel primo caso la memoria al Dio che te l’ha messa fra le mani è viva e senti tutto come dono suo. Nel secondo caso ti dimentichi di Lui e inizi a piantare i paletti della tua prepotenza e quello che era dono diventa dovuto. La Parola di questa domenica ci obbliga a sostare sulla sete di potere dell’uomo contrapposta all’esempio del nostro Dio che è dono di sé in totalità, che chiama Onnipotenza l’Amore senza risparmio.
Israele vende, assieme alla fede nel Dio dei suoi padri, la sua libertà per servire gli dei di quella terra a lungo sognata e conquistata con tante difficoltà. In fondo l’idolo tace, va solo adorato, è la proiezione dei nostri desideri più reconditi e acconsente alla nostra fame di potere. Israele abbandona Dio ma Dio non riesce a dimenticare la sua eredità. È la luce fioca eppure gravida di speranza della pagina della Scrittura di oggi. Dio non riesce a tapparsi le orecchie di fronte al grido disperato di Israele e invia di tanto in tanto dei Giudici che lo raccolgano dalla dispersione e lo guidino fuori dall’abisso. È un Dio incredibilmente geloso il nostro, terribilmente passionale, che arriva a pronunciare minacce ma ha viscere di misericordia come una madre e un padre per il loro bambino quando, per la voglia di essere grande, si caccia in qualche brutto guaio e loro sono lì, pronti a raccoglierlo.
È l’atteggiamento che ha Paolo verso la sua comunità di Tessalonica: come una madre raccoglie i suoi sotto le sue ali; come un padre non manca di dare indicazioni con fermezza e autorevolezza. In più, dell’Epistola, c’è da dire, che anche Paolo probabilmente ha sentito ad un certo punto la tentazione di spadroneggiare sulla sua comunità, di essere autoritario e non solo autorevole, ma l’ha superata perché amava Cristo e ha fatto delle sue orme il sentiero costante da seguire, anche al prezzo durissimo di sofferenze e di tradimenti da parte della sua gente.
La sete di potere ad un tratto afferra i discepoli di Gesù. La cosa forse più inquietante che il contesto di questa pagina ci consegna è che la domanda di Giacomo e di Giovanni nasce quando Gesù ha già annunciato la sua Passione e la sua morte. Loro sapevano di essere in un certo senso i prediletti dal Maestro, che aveva dato loro il soprannome di figli del tuono e che spesso aveva condotto con sé e Pietro in disparte. Ma, ora che il loro Maestro stava per essere tolto di mezzo e si era probabilmente aperta la corsa alla sua successione, volevano un riconoscimento pubblico della loro autorità. E questo scatena decisamente le ire degli altri…e come dare loro torto? Ma, nell’insieme, quanta povertà di cuore, quanta mediocrità! Di questa pagina però mi colpiscono sempre due cose: la pazienza con cui Gesù ricomincia daccapo a tessere nel cuore dei suoi discepoli la trama del Vangelo che si oppone a tutte le logiche di questo mondo e poi certamente ci commuove, a distanza di tempo, che uno ad uno tutti i discepoli, dopo la Risurrezione, davvero hanno saputo bere al calice della Passione e hanno saputo immergersi nel loro Battesimo di sangue, segno che gli insegnamenti del Maestro non sono andati perduti e che hanno capito che il Regno di Dio, per attecchire, ha bisogno di povertà, nascondimento, umiltà e croce.
All’improvviso, forse perché non ti basta più vivere di sogni, forse perché hai iniziato a provare paura, forse perché senti su di te il peso della frustrazione che la vita non risparmia, inizi a stringere il pugno e a volere conquistare ricchezza, fama, vuoi possedere chi ti sta intorno e credi che questo basti ad appagare la sete di felicità che tutti ci portiamo nel cuore.
Non c’è uomo che non abbia sentito almeno una volta nella vita su di sé la seduzione del potere. Dai tempi del Giardino ci affascina l’idea di essere onnipotenti e crediamo con la nostra orgogliosa autoreferenzialità di riuscire ad essere come Dio. E quando la relazione con lui inizia ad essere troppo esigente, quando lo avvertiamo come un rivale nella nostra corsa al potere, si decide di abbandonarlo e di costruirsi altri dei, a immagine nostra.
Il potere ha la forza di un idolo sul cui altare puoi arrivare a sacrificare il meglio di te stesso e anche la vita di chi ti sta intorno. I grandi di questa terra spesso scambiano il servizio a cui sono chiamati nel gestire il potere con il delirio di onnipotenza.
Ma anche la Chiesa non è immune da questa tentazione e spesso si lascia più affascinare dai segni del potere piuttosto che vivere il potere dei segni ed essere così credibile e coerente con il vangelo che annuncia. Dobbiamo sognare e costruire ancora una Chiesa libera e che cammina sulle orme del suo Maestro di Nazareth, il crocifisso risorto, piuttosto che, per paura di perdere e di affrontare il mare in tempesta di questi anni complicati da interpretare, arrenderci ad una Chiesa complice del potere di questo mondo e che gioca la sua partita dentro ai palazzi dei potenti. Su questo punto il Vangelo davvero non ci permette sconti o scorciatoie interpretative.
Ma penso anche alla nostra comunità. Spesso ci sono lotte di potere al limite del ridicolo e del patetico per spartirsi compiti e spazi e quello che era un sevizio diventa un’occasione per fare bella mostra di sé, e quello che era un’occasione di testimonianza diventa un campo di battaglia che fa scappare scandalizzato chi si avvicina.
Abbiamo ancora bisogno che Gesù ci mostri come si fa ad amare senza trattenere ecco perchè siamo qui a Messa: converti a te, Signore i nostri cuori e mostraci il sentiero della Carità senza confini che è vivere in pura perdita di noi stessi ma, lo crediamo, solo così saremo uomini davvero realizzati e contagiosi di beatitudine.

domenica 19 luglio 2009

settima dopo pentecoste

La nostra corsa lungo le pagine della Scrittura prosegue in queste domeniche del tempo dopo Pentecoste e oggi facciamo sosta con Israele che, sotto la guida di Giosuè, è impegnato nella battaglia di Gàbaon, una delle tante per conquistare e trovare stabilità nella Terra promessa da Dio. Il sole e la luna si fermano per un intero giorno: Dio si impegna in prima persona per garantire vittoria al suo popolo. È un Dio che non sta sicuro sulle retroguardie; non lo precede neppure oltre risparmiandosi la fatica della lotta, come chi si sottrae al pericolo, come chi si considera diverso e non si sporca le mani con i problemi della sua gente: sta in mezzo, dove la battaglia impazza, dove il pericolo è in agguato e il nemico si fa insidioso e proprio la sua presenza permette al popolo di alzare la testa e gli dà il coraggio di combattere sino alla fine. A questa pagina fanno eco le altre letture; anzitutto Paolo ai Romani ribadisce che nulla potrà mai separarci dall’Amore di Cristo. E in quell’elenco così intenso, in un crescendo commovente, Paolo elenca le difficoltà che lui in prima persona ha dovuto affrontare per vincere la battaglia dell’annuncio del Vangelo e da cui ne è uscito vincitore, sempre più testardamente innamorato di Cristo. E poi il brano di Vangelo di Giovanni in cui Gesù, durante il discorso di addio dell’ultima cena, mette in guardia i suoi dai pericoli e dalle tribolazioni che dovranno affrontare nel suo nome, perché sappiano che cosa li attenderà, quasi per condividere con loro il suo stesso destino di croce, perché non fuggano di fronte alle prime difficoltà, perché un servo non è più grande del suo Maestro. Ma a chi persevererà sino alla fine sarà dato di condividere il Regno, la Gloria della Risurrezione, la vita in pienezza che è la comunione con il Padre.
Quali spunti per la nostra storia ci suggerisce la Liturgia della Parola di questa domenica, quali intuizioni per il nostro cammino, e ancora a quali vene d’acqua freschissima attingere per proseguire sul nostro itinerario di fede.
Penso anzitutto che dobbiamo anche noi fare i conti con la dura parola della croce: se hai deciso di seguire Cristo non puoi risparmiarti dalla battaglia, se pensavi di trovare pace in realtà con lui ti trovi nella tribolazione, se pensavi di vivere tranquillo forse non hai ascoltato bene il Vangelo o non hai iniziato a metterlo in pratica. La Parola è come un fuoco che inizia a bruciare dentro, che non sfuma i contorni delle cose ma li esaspera, che non edulcora la realtà ma alza il velo delle sue contraddizioni, essere discepoli di Gesù significa trovarsi a fare i conti con una sensibilità esasperata che fa soffrire per ogni ingiustizia o ipocrisia, significa avere il cuore ferito a immagine del suo, significa diventare accoglienti all’estremo e fare largo ad ogni problema che bussa con insistenza alle tue porte, significa scendere in battaglia ogni giorno per conquistare un pezzo di Regno e per seminare comunque la Parola che salva. La prima vera battaglia è con se stessi, con le ferite che ci portiamo dentro e che attendono di essere sanate, è con quella forza che ti spinge a tornare indietro e a non rincorrere il sogno di santità, è con il male che ti tenta ad ogni attimo e che talvolta ha il sopravvento. Ma poi sei chiamato a fare i conti anche con il male che sta attorno a te. Vi confesso che quando ero in Seminario spesso, a sera inoltrata, mi fermavo a guardare dall’alto della collina di Venegono le luci dei paesi poco distanti e, rare volte, si riusciva a gettare lo sguardo in là fino alla nostra città. E sognavo di essere prete immerso fra la mia gente, sognavo di essere santo e di poter facilmente condurre la mia gente a Cristo: sognavo una realtà troppo fittizia, schermata dai miei desideri più che dalla verità del Vangelo. Diventato prete, messo piede finalmente nella realtà, ho iniziato a fare i conti seriamente anche con il male che c’è nelle nostre strade, con quel sommerso che noi nemmeno immaginiamo che scorre come un fiume nero sotto le apparenze perbeniste delle nostre vite e che si chiama droga, violenza, denaro e successo, solitudine, egoismo, chiusura all’altro, il nulla che inghiotte i nostri giorni, il relativismo esasperato per cui il bene di uno diventa il bene di tutti e la realizzazione personale va perseguita anche al prezzo altissimo della vita degli altri, è un’economia che affama i poveri per rendere i ricchi sempre più ricchi. La testimonianza al Vangelo se non si unisce alla sofferenza rimane sterile e il seme per portare frutto davvero deve morire. Siamo chiamati, a immagine di Cristo che si incarna fino alle estreme conseguenze, a sporcarci le mani proprio qui e ora e a fare bene quel poco che siamo chiamati a fare. Sarà forse solo una goccia nell’Oceano ma, come diceva madre Teresa, senza di quella l’Oceano avrebbe comunque una goccia in meno
Ma non basta dire questo. Trascureremmo la Verità più forte che oggi abbiamo ascoltato se dimenticassimo di dire che nella nostra battaglia abbiamo dalla nostra parte il nostro Dio secondo la sua Promessa. A volte non lo vediamo ma perché ci è troppo accanto per scorgerne completamente i suoi tratti, è troppo impegnato a spianarci davanti la strada e noi siamo troppo attenti a poggiare bene i nostri piedi. Ma alla fine ci ritroveremo abbracciati a lui e potremo fare il bilancio e capire che anche per noi lui si è impegnato sino alla fine.
E ora stiamo per entrare nel Mistero della Pasqua dove morte e vita si sono sfidati a duello e Cristo ne è stato vincitore. E noi con lui. E per questo avremo una gioia profondissima che, anche in mezzo a tante tribolazioni, nulla potrà strapparci.

domenica 5 luglio 2009

quinta dopo pentecoste

In queste Domeniche lasciamo che il nostro cuore attinga alla storia della salvezza per sentire anche sulla nostra vita la presenza di Dio e scorgere nelle vene della nostra storia le tracce del suo passaggio
La Parola di oggi: uno sguardo sintetico
L’Alleanza di Dio con Abramo e la sua discendenza
Il commento che Paolo fa di questa pagina: la giustificazione indipendente dalle opere alla luce delle diatribe in seno alla comunità cristiana. Non conta la circoncisione della carne ma quella del cuore, conta la fede. Per Abramo la circoncisione fu solo il segno di un’Alleanza stretta. Prima viene la sua fede e la sua adesione a quella Parola che Dio gli rivolge. La benedizione di Dio è per tutte le genti indipendentemente dall’appartenenza ad un popolo.
Cristo è la porta per accedere alla benedizione data ad Abramo: siamo chiamati ad innamorarci di Gesù e a fare di lui il segreto della nostra vita.

Alcuni spunti per approfondire
Anche noi, figli benedetti da Dio
«Non molto tempo fa, nella mia comunità, ho avuto un’autentica esperienza personale del potere di una vera benedizione. Poco tempo prima che ciò accadesse avevo iniziato una funzione di preghiere in una delle nostre cappelle. Janet, una handicappata della nostra comunità mi disse: “Henri, mi puoi benedire?”Io risposi alla sua richiesta in maniera automatica tracciando con il pollice il segno della croce sulla sua fronte. Invece di essere grata, lei protestò con veemenza: “no, questa non funziona. Voglio una vera benedizione!” Mi resi subito conto di come avevo risposto in modo formalistico alla sua richiesta e dissi: “Oh scusami…ti darò una vera benedizione quando saremo tutti insieme per la funzione”.Lei mi fece un cenno con un sorriso e io compresi che mi si richiedeva qualcosa di speciale. Dopo la funzione, quando circa una trentina di persone erano sedute in cerchio sul pavimento, io dissi: “Janet mi ha chiesto di darle una benedizione speciale. Lei sente di averne bisogno adesso”. Mentre stavo dicendo questo, non sapevo cosa Janet volesse veramente. Ma Janet non mi lasciò a lungo nel dubbio. Appena dissi “Janet mi ha chiesto di darle una benedizione speciale” lei si alzò e venne verso di me. Io indossavo un lungo abito bianco con ampie maniche che coprivano sia le mani che le braccia. Spontaneamente Janet mi cinse tra le sue braccia e pose la testa contro il mio petto. Senza pensare, la coprii con le mie maniche al punto da farla quasi sparire tra le pieghe del mio abito. Mentre ci tenevamo l’un l’altra io dissi: “Janet voglio che tu sappia che sei l’Amata Figlia di Dio. Sei preziosa agli occhi di Dio. Il tuo bel sorriso, la tua gentilezza verso gli altri della comunità e tutte le cose buone che fai, ci mostrano che bella creatura tu sei. So che in questi giorni ti senti un po’ giù e che c’è della tristezza nel tuo cuore, ma voglio ricordarti chi sei: sei una persona speciale, sei profondamente amata da Dio e da tutte le persone che sono qui con te.”. Appena dissi queste parole, Janet alzò la testa e mi guardò; il suo largo sorriso mi mostrò che aveva veramente sentito e ricevuto la benedizione. Quando Janet tornò al suo posto, un’altra donna handicappata alzò la mano e disse: “Anch’io voglio una benedizione”. Si alzò e, prima che mi rendessi conto, mise il suo viso contro il mio petto. Dopo che io le dissi parole di benedizione, molti altri handicappati vennero esprimendo lo stesso bisogno di essere benedetti. Ma il momento più toccante si verificò quando uno degli assistenti, un giovane di ventiquattro anni, alzò la mano e disse: “E io?” “Certo”, risposi. “Vieni”. Lui venne e quando ci trovammo di fronte, lo abbracciai e dissi: “John, è così bello che tu sia qui. Tu sei l’Amato Figlio di Dio. La tua presenza è una gioia per tutti noi. Quando le cose sono difficili e la vita è pesante, ricordati sempre che tu sei Amato di un amore infinito.” Pronunciate queste parole, egli mi guardò con le lacrime agli occhi e disse: “Grazie, grazie molte”. Quella sera compresi l’importanza della benedizione e dell’essere benedetto e l’ho intesa come il vero segno che contraddistingue l’amato. Le benedizioni che diamo gli uni gli altri sono espressione della benedizione che riposa su di noi da tutta l’eternità. (J.H. Nouwen, Sentirsi amati)
Sapere che anche noi siamo i figli benedetti ci dona le ali e ci fa sentire di fronte al nostro Dio come bambini che non devono avere paura di nulla. E poco importa delle ferite che ci portiamo nel cuore. Deve valere per noi la certezza dello sguardo pieno d’amore di Dio che è un papà buono e pieno di premure per ognuno di noi.
Credo sia importante sentire in noi la voce di Dio che ci benedice e ci apre l’orizzonte di una terra Promessa. Penso che sia importante che nella nostra comunità, aldilà delle tante parole sprecate per mille progetti, per mille dotte elucubrazioni pastorali, aldilà dell’atavica tendenza di parlarsi alle spalle e pugnalarsi sottolineando il punto debole gli uni degli altri, ci sia il coraggio di benedirsi con parole di amore autentiche che fanno sentire il potere della benedizione di Dio, di sentrisi amati proprio nelle ferite e nelle proprie zone d’ombra.
Ma la Parola di oggi ci pone di fronte anche la domanda sulla nostra fede. Credere è ben più che sapere dei principi. Credere è ben più che adesione formale a dei riti. Credere è ben più che dirsi cristiani. Credere è anzitutto un’esperienza d’amore con Gesù. Ci lasciamo amare da lui e lo amiamo a nostra volta alla follia e così veniamo sorpresi dalla sua luce.
E per questo mistero d’amore ci rapisce la voglia di essere come lui e incarnare, ognuno con la sua vocazione, ognuno con il bagaglio della sua vita, i tratti del Figlio.
Non abbiamo bisogno di cristiani di facciata ma di uomini e di donne rapiti dal Mistero di Cristo, fuori di sé per la gioia, tutti protesi a Dio, estatici, tutti protesi verso gli altri nella carità discreta di ogni giorno, estroversi.