domenica 28 ottobre 2012

domenica del mandato missionario

Questa domenica, detta domenica del mandato missionario, la Parola ascoltata è davvero ricca di suggestioni. E in questa omelia non vorrei far altro che portare alla luce quelle che più mi hanno colpito, ferito, entusiasmato e condividerle con voi.

Una premessa anzitutto. La Chiesa è chiamata, nelle sue fibre, ad essere missionaria, a prolungare ancora di qualche capitolo la storia della salvezza che Dio ha deciso di scrivere con noi. La missione non è un’appendice facoltativa fra le nostre molte attività. Il dinamismo è chiaro: una comunità che è stata radunata dal Signore risorto, che ascolta la sua Parola, che spezza il Pane e decide di vivere in sua memoria, una comunità in cui il diverso è mio fratello che sono chiamato ad accogliere per quello che è nel perdono e nella festa, a cui sono chiamato a lavare i piedi, una comunità che, in altre parole, ha scoperto il segreto della gioia e che ha trovato risposta alla sua nostalgia di eternità e di infinito, non può trattenere per sé questo dono, gli scotta fra le mani, e, proprio come il fuoco, si consuma se non trova altro a cui appiccarsi e bruciare. O, al contrario, fuori di questa chiesa se il sorriso e la parola si spengono, lo stile evangelico si stempera, vuol dire che non abbiamo incontrato davvero il Signore della storia.

Ed ecco la prima di tre suggestioni. È la lettura di Atti a suggerirmela.

Filippo obbedisce alla voce dello Spirito e si lascia condurre su una strada che, in prima battuta, appare deserta e perciò insignificante. Su quella strada incontra per caso il funzionario etiope. Il dialogo che intesse con lui, il rendere ragione cioè della sua speranza, l’entusiasmo delle parole che sgorgano dal suo cuore, lascino approdare il suo interlocutore alla domanda di fede. Anche noi spesso abitiamo il deserto delle nostre città che, pur se percorse da moltissime persone, sono vuote di relazione, di attenzione all’altro; le nostre strade sono solo il contesto in cui passa  la nostra routinaria corsa verso un orizzonte che però nessuno ha chiaro. Proprio qui lo Spirito suggerisce anche a noi di stare. Siamo chiamati ad abitare la piazza; la missione si gioca qui e ora, cioè dove passa la nostra quotidianità. La speranza che portiamo dentro ci deve muovere verso il fratello che per caso-ma è davvero così?-ci sfiora. Chiudere il dialogo è chiudere la possibilità di annunciare il Vangelo. E il dialogo, per sua definizione, è fatto di ascolto e di confidenza, non è imposizione di nessun dogma ma accogliere l’altro dove si trova e con lui, per mano, avanzare a pari passo verso il disvelarsi della Verità. Solo se saremo missionari così, più che pieni di risposte, compagni del dubbio e capaci di domande radicali, faremo il gioco dello Spirito che lavora prima e meglio di noi nel cuore dei fratelli.

La seconda suggestione invece me la suggerisce l’epistola. Paolo si fa voce del desiderio di Dio che tutti gli uomini siano salvi conoscendo il Vangelo di Gesù; in altre parole, solo sapendo Gesù, solo in comunione con lui l’uomo di sempre placa il suo desiderio di felicità e si apre alla certezza dell’eterno, conosce che Dio non lascia cadere nel baratro della morte la sua vita e niente va perduto perché il nostro nome è scritto sul palmo della sua mano. Penso che proprio da parole come queste da sempre uomini e donne decidono di mettersi in viaggio per mettere radici in terre a volte lontanissime per distanza e cultura dalla loro con la sola pretesa di raccontare che la storia conosce un punto fermo che è Gesù. Anche il nostro orizzonte non può chiudersi qui nelle mura di questa chiesa o fermarsi all’orizzonte dei nostri confini. Il pensiero della nostra comunità non si reggerebbe se non fosse sostenuto dalla certezza che siamo parte di un insieme molto più grande. E l’aprire i confini significa, certo nella difficoltà, lasciare spazio all’altro e, alla fine, crescere. Mentre dai, ricevi; mentre doni, la gioia si moltiplica; mentre ti apri, si dilata il cuore. Non posso pensare che la mia gioia sia slegata dalla gioia di fratelli anche lontanissimi, la loro felicità c’entra con la mia. La meta della salvezza si raggiunge in cordata: o tutti o nessuno. E qui il pensiero di ognuno vola a quella terra magari conosciuta solo per il racconto di altri, magari perché calpestata una volta sola e che vorresti abitare di più o per cui dare di più…immaginate dove sta andando ora la mia mente?!

Infine, l’ultima suggestione me la consegna il Vangelo. Mi consola anzitutto che Gesù consegni a uomini incerti nella fede il messaggio di salvezza…mi sento anch’io così interpretato in queste righe così schiette! Davvero più siamo deboli e più siamo adatti all’amore trasformante di Dio. Nell’annuncio di questi uomini, nella loro difficoltà a viverlo per primi, si leggerà la cura paziente di Dio e la sua Grazia che tutto copre. Ma poi Gesù dà ai suoi di compiere segni che accompagnano le parole. Non i segni del potere, ma il potere dei segni. Anche se purtroppo i primi si sono moltiplicati lungo la storia della Chiesa offuscando la radicalità del Vangelo, oggi noi dobbiamo riscoprire la forza dei segni. Il segno non costringe ma interpella, smuove, chiede di essere interpretato. Il Vangelo si deve cioè annunciare sempre con una carica rivoluzionaria di carità altrimenti rimane lettera morta. Non posso proclamare le beatitudini se non lotto perché qui e ora gli ultimi trovino un ancora di felicità. Non posso annunciare la vittoria del risorto se tanti fratelli rimangono sulla croce della povertà o della sofferenza senza nessuno che li schiodi. Ma soprattutto non posso pensarmi in missione se non divento con tutto me stesso segno di una vita nuova, quasi un prolungamento di Gesù.

domenica 21 ottobre 2012

dedicazione del Duomo di Milano

Questa è la terza tappa che fa da cerniera da un tema all’altro nel lezionario ambrosiano nel tempo dopo Pentecoste. Dalla Pentecoste al Martirio del Battista: abbiamo fatto sosta su alcune storie che ci hanno raccontato la fedeltà di un Dio che ancora oggi, in noi come in quegli uomini, cerca alleati per costruire il suo Regno. Dal Martirio del Battista alla festa di oggi l’obiettivo si è fissato su Gesù come la stella polare, il fine e il centro della rivelazione; in lui trova senso anche la nostra attesa di felicità; in lui l’ansia di infinito ed eterno trova riposo; vivere a sua immagine, fare cioè dell’amore la cifra unica di ogni nostra scelta, significa non sprecare nella banalità i nostri giorni. E da oggi si apre la riflessione sulla Chiesa, segno, certo non unico, al presente della storia della salvezza, luogo dove si dà l’incontro con una Parola capace di dare forma alle nostre scelte più vere, casa dove lasciarsi modellare dal Segno della Pasqua di Gesù, recinto da oltrepassare per diventare missionari sulle strade del mondo.

Come in ogni cantiere c’è un prefabbricato dove i geometri e gli ingegneri assieme ai capomastri custodiscono i disegni originari della loro opera, così questa festa ci mette fra le mani il sogno di Dio per la sua Chiesa, per la nostra comunità. Ho pensato a 3 tratti irrinunciabili, a 3 architravi su cui deve poggiare la nostra vita comune.

1 quest’oggi noi facciamo festa per la realtà di una Chiesa incarnata in una storia e in un tempo ben precisi, di una Chiesa che assume il volto di una Cattedrale, il duomo. Se Chiesa è realtà universale, legame di uomini e di donne diversi e, se pur lontanissimi, uniti da Gesù, l’unico Buon Pastore, confermati nella fede da Pietro; se Chiesa è quella trama fittissima di storie di santità e di peccato, la cui complessità è conosciuta da Dio, Chiesa è anche quella particolare, quella comunità che dimora sulle nostre strade, è realtà appoggiata alle nostre case, è dimora che sento vicino alla mia vita; è la Chiesa che profuma di popolo e che a volte ci fa dire che è l’unica credibile perché resiste negli ideali del Vangelo e non abbassa la testa e non asseconda le logiche del potere e della ricchezza e dell’apparire; è la Chiesa della periferia con tutto il suo potenziale di creatività, fucina di una primavera nuova che il vertice non può ancora vedere o che, a volte colpevolmente, non vuole ascoltare; è la Chiesa del mio quartiere con volti precisissimi che a volte ci commuovono per la loro bellezza e a volte ci deprimono per la loro meschinità. Ma in questa trama di seconda mano passa Dio e le sue orme rimangono indelebili. Proprio nella vita di questa Chiesa marginale Dio ha deciso di mettere i paletti della sua tenda, proprio qui e ora io lo posso incontrare e afferro quel testimone di fede che altri mi hanno consegnato fra le mani e che io devo trasmettere alle nuove generazioni se non voglio tradire la mia storia.

2 Nel brano di Vangelo di Giovanni ritrovo il secondo architrave. Si è Chiesa non semplicemente per un’esigenza di aggregazione, anche se per molti di noi tutto è iniziato così: presto o tardi ci scontreremmo con i nostri limiti e ben presto la comunione si infrangerebbe. Non si è nemmeno Chiesa, paradossalmente, per volere bene al mondo, per amare i poveri o per abbracciare un ideale di un mondo diverso, un’utopia rivoluzionaria: troppo presto rimarremmo feriti da una frustrazione immensa di fronte al male che sembra sempre avere l’ultima parola e che disordina le cose; a nostri fratelli se noi portassimo noi stessi offriremmo solo, nella brocca per lavare i loro piedi, acqua fredda. Si è Chiesa perché c’è Gesù che ci raccoglie, solo perché c’è una relazione sostanziale con lui, solo perché lui passa nella nostra vita e ci chiama per nome, non si ferma di fronte ai nostri limiti, non fa conto delle tenebre che abitano nel nostro cuore perché lui è luce, non cerca in noi la perfezione per amarci ma ci riveste di Grazia perché noi valiamo ai suoi occhi per quello che siamo. E poi ci restituisce a dei fratelli che hanno già condiviso o che stanno per condividere la stessa identica condizione, uomini e donne che sanno di essere raccolti e salvati per Grazia e che non vantano alcun merito e per questo smascherati, liberi, pronti al perdono e non al giudizio. Le pecore ascoltano la voce di Gesù, si lasciano conoscere da lui e lo seguono. Sono i tre verbi costitutivi dell’essere Chiesa.

3 Paolo nella sua prima lettera ai corinti ribadisce con molta forza che è stato Dio a costruire, anche attraverso le sue mani e in comunione con altri, quella comunità. Ognuno dei credenti, in quanto uomo, salvato per Grazia, è tempio di Dio. Restare con Gesù, essere con lui, dare spazio a lui nella nostra vita ad un certo punto ti mette nella condizione di lottare perché ad ogni fratello sia riconosciuta la sua dignità di uomo. La Chiesa non è una comunione autoreferenziale, non puoi rinchiuderti in un benessere psichico e fingere di assecondare il Vangelo voltando le spalle al mondo. Appena fai tappa con Gesù si spalanca immediatamente l’orizzonte della strada. La Chiesa o è missionaria, o lotta perché la mia felicità sia compartecipata anche da altri, in particolare i piccoli, o presto esaurisce nelle sue mani il dono della fede che ha ricevuto.

domenica 7 ottobre 2012

6 dopo il Martirio del Battista - per la festa di riapertura dell'oratorio di SNEC

Caro don Santino,

mi fa un po’ strano scriverti. Per me non sei che un nome che compare in un elenco relativamente lungo di nomi affisso in sacristia. E anche se c’è qualche foto che ti ritrae, proprio non riesco a fissare nella mente i tuoi lineamenti. Ma perché scripta manent, il tuo nome lo lego ad una tua lettera datata 1913 che ho trovato in archivio. So che non è buona educazione ficcare il naso nella corrispondenza degli altri ma qui si tratta di oratorio e proprio non ce l’ho fatta a trattenermi. Chiedevi a un industriale della zona di cederti un appezzamento di terra perché volevi costruirci un oratorio dove accogliere come si deve i tuoi ragazzi che ti trovavi costretto a tenere come prigionieri (cit.) nel giardino della casa canonica. E poi, in modo chiaro, facevi presente l’urgenza di non lasciare sulla strada molti altri ragazzi perché il rischio che si traviassero (cit.) era tutt’altro che lontano.
Non ho mai capito se quel pezzo di terra ora è il campo di calcio o quello di basket e non ho ancora capito quando te lo hanno venduto o, conoscendo le doti dei preti, regalato! Fatto sta che mi piace pensare che da quella data ha avuto inizio l’avventura dell’oratorio alla Barona.
Oggi è la festa per la ripresa delle attività ordinarie dopo lo straordinario dell’estate. Dopo 100 anni, caro don, non possiamo certo vantare di avere grandi strutture. Non, non te ne faccio una colpa. Del resto, ai tuoi tempi, le norme sulla sicurezza non si sapeva nemmeno cosa fossero! Per fare oratorio bastava un campo anche se polveroso, un buon numero di adulti per i giochi e tanti ragazzi e infine un prete che facesse catechismo e che si rendesse disponibile a confessare. Chiedo anche a te di essere buono e di non rimproverarci se per esempio al posto della Grotta della Madonna ora ci sono improponibili gabinetti e se il tetto del teatro fa acqua da tutte le parti. E poi tranquillo, non ti scrivo per chiederti in sogno qualche numero – a volte l’enalotto mi pare la sola unica soluzione – e tanto meno una buona raccomandazione perché qualche industriale ci aiuti a risistemare un po’ il tutto: con la crisi che c’è…non mi faccio illusioni!
Vorrei parlarti invece dei nostri ragazzi e rassicurarti del fatto che non è venuta meno quella passione educativa la stessa che, immagino, in una notte insonne, ti ha fatto prendere in mano il coraggio di scrivere a qualche benefattore, dopo giorni passati a sognare ad occhi aperti che cosa avrebbe significato per la zona un oratorio. Sarà il Vangelo di oggi ad aiutarmi a parlare di educazione.

Vedi, come te, anche io sono preoccupato dei giovani sulla strada. Ma era la stessa preoccupazione di quel padrone di casa, la stessa preoccupazione di Dio. La noia li divora, li afferra e gli avvelena il cuore facendogli credere, a poco a poco, di non valere nulla, spegne i loro sogni, li costringe ad un eterno presente senza speranza di futuro, non si lasciano scottare dal fuoco di una rivoluzione da compiere nella storia che li attende come protagonisti. E su queste strade, come in quella piazza, non ci sono molti adulti che spaccano il muro dietro al quale altri adulti colpevolmente li isolano.

Ci sarà almeno uno disposto a chiamarli per nome? È la sfida dell’oratorio che sognavi, è la sfida che attende anche noi oggi. Come mi piacerebbe che gli educatori che oggi ricevono il mandato, e io per primo con loro, fossimo almeno un riflesso, anche sbiadito basterebbe, del Padre che non si arrende, che esce dalla sua casa, varca il muretto di confine della sua proprietà e va sulla piazza anche alle ore più improbabili a raccogliere quanta più gente possibile. Educare i ragazzi è la sfida che vale la pena rischiare per il futuro ma anche per il presente della nostra città.

Abbiamo bisogno di educatori che escano di casa, che si lascino scomodare, che non siano strabici cioè con un occhio all’orologio e uno negli occhi dei ragazzi. Che conoscano le strade dove si rintanano per incontrarli ed essere per loro, in gratuità, in totale perdita di se stessi.

Abbiamo bisogno di educatori affascinanti, che sappiano parlare ai ragazzi, magari come diceva don Bosco, al loro orecchio facendo capire loro quanto sono preziosi ma non per quello che possono dare ma per quello che sono, che si facciano loro compagni di viaggio, che riescano a dire al loro cuore che c’è un’opera grande da costruire assieme, il Regno, e che senza le loro mani tutto è più povero.

Abbiamo bisogno di educatori che dicano con la loro vita la bontà di Dio che non guarda al merito ma che dà tutto per Grazia. Un buon educatore è uno che si lascia divorare, che non può fare a meno della Messa perché ha scoperto che prima di lui c’è uno, Gesù Cristo, che si è fatto pane spezzato, amore incondizionato e che ci chiede di fare come lui per non buttare via nella banalità la nostra vita.
Caro don Santino, se dopo 100 anni alla Barona ci sarà un oratorio magari povero di strutture ma con un cuore ardente così, penso che avremo centrato l’obiettivo che ti riproponevi e non avremo tradito l’eredità che, assieme a molti altri, ci hai messo fra le mani; un oratorio che racconti la logica paradossale di un Dio che chiama ciascuno per nome. Niente di più che un segno. Un interrogativo posto nella vita del quartiere come inquietudine per molti. Buon inizio a tutti, allora!