Una premessa anzitutto. La Chiesa è chiamata, nelle sue fibre, ad
essere missionaria, a prolungare ancora
di qualche capitolo la storia della salvezza che Dio ha deciso di scrivere con
noi. La missione non è un’appendice facoltativa fra le nostre molte
attività. Il dinamismo è chiaro: una comunità che è stata radunata dal Signore
risorto, che ascolta la sua Parola, che spezza il Pane e decide di vivere in
sua memoria, una comunità in cui il diverso è mio fratello che sono chiamato ad
accogliere per quello che è nel perdono e nella festa, a cui sono chiamato a
lavare i piedi, una comunità che, in altre parole, ha scoperto il segreto della
gioia e che ha trovato risposta alla sua nostalgia di eternità e di infinito,
non può trattenere per sé questo dono, gli scotta fra le mani, e, proprio come
il fuoco, si consuma se non trova altro
a cui appiccarsi e bruciare. O, al
contrario, fuori di questa chiesa se il sorriso e la parola si spengono, lo
stile evangelico si stempera, vuol dire che non abbiamo incontrato davvero il
Signore della storia.
Ed ecco la prima di tre suggestioni. È la lettura di Atti a
suggerirmela.
Filippo obbedisce alla voce dello Spirito e si lascia condurre su una
strada che, in prima battuta, appare deserta e perciò insignificante. Su quella
strada incontra per caso il funzionario etiope. Il dialogo che intesse con lui,
il rendere ragione cioè della sua speranza, l’entusiasmo delle parole che
sgorgano dal suo cuore, lascino approdare il suo interlocutore alla domanda di
fede. Anche noi spesso abitiamo il deserto
delle nostre città che, pur se percorse da moltissime persone, sono vuote
di relazione, di attenzione all’altro; le nostre strade sono solo il contesto
in cui passa la nostra routinaria corsa
verso un orizzonte che però nessuno ha chiaro. Proprio qui lo Spirito suggerisce anche a noi di stare. Siamo chiamati
ad abitare la piazza; la missione si gioca qui e ora, cioè dove passa la
nostra quotidianità. La speranza che
portiamo dentro ci deve muovere verso il fratello che per caso-ma è davvero
così?-ci sfiora. Chiudere il dialogo è chiudere la possibilità di
annunciare il Vangelo. E il dialogo, per sua definizione, è fatto di ascolto e
di confidenza, non è imposizione di nessun dogma ma accogliere l’altro dove si
trova e con lui, per mano, avanzare a pari passo verso il disvelarsi della
Verità. Solo se saremo missionari così, più che pieni di risposte, compagni del dubbio e capaci di domande radicali,
faremo il gioco dello Spirito che lavora prima e meglio di noi nel cuore dei
fratelli.
La seconda suggestione invece me la suggerisce l’epistola. Paolo si fa
voce del desiderio di Dio che tutti gli
uomini siano salvi conoscendo il Vangelo di Gesù; in altre parole, solo
sapendo Gesù, solo in comunione con lui l’uomo di sempre placa il suo desiderio
di felicità e si apre alla certezza dell’eterno, conosce che Dio non lascia
cadere nel baratro della morte la sua vita e niente va perduto perché il nostro
nome è scritto sul palmo della sua mano. Penso che proprio da parole come
queste da sempre uomini e donne decidono di mettersi in viaggio per mettere
radici in terre a volte lontanissime per distanza e cultura dalla loro con la
sola pretesa di raccontare che la storia conosce un punto fermo che è Gesù. Anche
il nostro orizzonte non può chiudersi qui nelle mura di questa chiesa o
fermarsi all’orizzonte dei nostri confini. Il
pensiero della nostra comunità non si reggerebbe se non fosse sostenuto dalla
certezza che siamo parte di un insieme molto più grande. E l’aprire i
confini significa, certo nella difficoltà, lasciare spazio all’altro e, alla
fine, crescere. Mentre dai, ricevi; mentre doni, la gioia si moltiplica; mentre
ti apri, si dilata il cuore. Non posso
pensare che la mia gioia sia slegata dalla gioia di fratelli anche
lontanissimi, la loro felicità c’entra con la mia. La meta della salvezza si
raggiunge in cordata: o tutti o nessuno. E qui il pensiero di ognuno vola a
quella terra magari conosciuta solo per il racconto di altri, magari perché calpestata
una volta sola e che vorresti abitare di più o per cui dare di più…immaginate
dove sta andando ora la mia mente?!
Infine, l’ultima suggestione me la consegna il Vangelo. Mi consola anzitutto
che Gesù consegni a uomini incerti nella fede il messaggio di salvezza…mi sento
anch’io così interpretato in queste righe così schiette! Davvero più siamo deboli e più siamo adatti all’amore trasformante di
Dio. Nell’annuncio di questi uomini, nella loro difficoltà a viverlo per
primi, si leggerà la cura paziente di Dio e la sua Grazia che tutto copre. Ma
poi Gesù dà ai suoi di compiere segni
che accompagnano le parole. Non i segni del potere, ma il potere dei segni. Anche se purtroppo i primi si sono
moltiplicati lungo la storia della Chiesa offuscando la radicalità del Vangelo,
oggi noi dobbiamo riscoprire la forza dei segni. Il segno non costringe ma interpella, smuove, chiede di essere
interpretato. Il Vangelo si deve cioè annunciare sempre con una carica rivoluzionaria
di carità altrimenti rimane lettera morta. Non posso proclamare le beatitudini
se non lotto perché qui e ora gli ultimi trovino un ancora di felicità. Non posso
annunciare la vittoria del risorto se tanti fratelli rimangono sulla croce
della povertà o della sofferenza senza nessuno che li schiodi. Ma soprattutto non posso pensarmi in
missione se non divento con tutto me stesso segno di una vita nuova, quasi un
prolungamento di Gesù.