sabato 25 febbraio 2012

prima di quaresima




Si apre davanti a noi un tempo, quaranta giorni, in cui possiamo con decisione e coraggio riprendere in mano la nostra vita e, nella luce della Grazia, nella consapevolezza che il nostro Dio è Padre, abbraccio riconciliante e che lotta sempre per la nostra gioia - non dimentichiamo il messaggio della Liturgia delle due domeniche precedenti – smussare gli angoli, lasciar illuminare gli angoli bui, temperare i nostri desideri, in una parola, modellare la nostra libertà.

La Quaresima infatti è il tempo in cui con più forza la sapienza della Chiesa richiama una verità essenziale: lo scorrere del tempo, la piega delle abitudini, un certo rassegnato fatalismo, la svendita quotidiana dei sogni di fronte al prammatismo della mentalità corrente, rischia di sclerotizzare la nostra vita. Ci si trova ad un tratto più rigidi, meno disposti ad amare, meno slanciati al Cielo e con i pugni chiusi verso il fratello, ci si trova in definitiva molto distanti dalla logica del Vangelo e dalla vita di Gesù. Lavorare su noi stessi ne va della nostra felicità: la vita davvero è una sola e il rischio è che, se non prendiamo noi il comando su di essa, siano gli altri a viverci o sia altro a trasformarci in burattini e a muover ei fili.

Vorrei allora segnare l’inizio di questa omelia riprendendo in mano quelle parole che sono la grammatica di questo tempo che la tradizione della Chiesa ci consegna.

Il deserto. Il deserto non è l’assenza dell’altro ma il silenzio e la presenza di Dio in esso. Nel frastuono della città deserto può diventare una chiesa povera dove si celebra la messa con forte partecipazione; può essere la nostra camera per la preghiera del mattino quando ancora tutto in casa e sulle strade tace, può essere anche il vagone di una metropolitana con in mano un Vangelo o fra le dita un rosario, può essere la cattedrale dove decidiamo di sostare nella pausa pranzo. Ciò che conta è poter mettersi in ascolto della Parola di Dio come di una promessa, lasciar dilagare in noi la nostalgia per quella che è la sua Speranza, saper riallacciare i fili di un colloquio cuore a cuore che ci rende più docili e ci restituisce alla nostra bellezza di uomini e donne.

Il digiuno. Questa pratica non è mai passata di moda anche se, certo, si è adattata a noi che non sappiamo più molto cosa significa la fame o la rinuncia. Eppure ha un carica simbolica potentissima. È segno di dominio, di padronanza, di signoria sugli istinti. Rinuncio al cibo e dico a me stesso che posso farcela; posso rinunciare a quelle abitudini che si sono impossessate di me e che sviliscono la mia vita. In questo senso allora digiuno significa anche moderare le parole – come invidio i santi che aprivano bocca o per parlare a Dio o per parlare di Dio – abbracciare come promettente la sobrietà nei consumi, evitando sprechi di tempo e di beni.

La penitenza. Non ha senso una penitenza fine a se stessa, ma sempre se volta all’educazione della nostra volontà per renderci più fedeli al Vangelo. Dobbiamo conoscerci per sapere su quali punti stiamo azzardando troppo al rischio di smarrirci e proprio su questi lavorare con radicalità. Ad esempio, se abbiamo l’impressione che ci manchi sempre il tempo per occuparci delle cose più importanti, dobbiamo chiederci se abbiamo perso la bussola che ci fa discernere fra ciò che è urgente e ciò che è necessario e avere il coraggio di buttarci su ciò che più conta che è sempre l’amore. Il resto è davvero cenere che verrà spazzata via con lo scorrere dei giorni e di cui nessuno avrà ricordo.

E così, stretta in pugno la strategia di questo tempo, possiamo comprendere meglio il brano di Vangelo che fedelmente fa da portale d’ingresso alla Quaresima. È lo Spirito a condurre Gesù nel deserto. Lo Spirito gli suggerisce questa lotta, lo spinge ad affrontare la tentazione di poter essere e fare altro rispetto al disegno del Padre. Amo pensare che anche Gesù sia stato libero di poter scegliere un’altra strada, che anche lui, perché vero Uomo, ha potuto come me sentire la possibilità di essere legge a se stesso e, in nome dell’autonomia, di poter imbattersi su un cammino di perdizione; mi piace pensare che anche lui abbia dovuto faticare per tutta la vita per modellare i suoi pensieri, il suo cuore, la sua vita a una Parola promettente ma non facile e comunque con un tornaconto non immediato. Amo pensarlo così perché anch’io, nei momenti della mia tentazione, non mi senta solo. E queste tre parole sono anche le nostre tentazioni, parametro di confronto per capire dove ci siamo smarriti e quali conversioni metter e in circolo. L’avere. I sassi che diventano pane sono metafora della fame d ricchezza, di un possesso in nome del quale arrivi anche a fare violenza sulla natura, sulla tua prima di tutto. Sappiamo che, sull’altare dell’avere, l’uomo può arrivare a immolare le cose più belle della sua vita: sogni, ideali ma anche relazioni e amicizie. Gesù dice no perché lui vuole essere il Figlio povero perché testimone che Dio solo basta per essere felici e che, sotto le sue ali, non ci manca nulla che già non ci abbia dato. Povertà poi è sinonimo di libertà. L’apparire. E cosa ci sarebbe di più spettacolare tanto da lasciar ammutolite le folle che lanciarsi da una torre altissima per poi farsi salvare dagli angeli, cosa inaudita e vietata ad ogni uomo. E chi mai avrebbe fermato la gente di fronte a questo gioco di prestigio, chi mai avrebbe messo in dubbio la divinità di Gesù? Ma la via che lui sceglie è un’altra. Il suo essere Figlio, Dio, doveva essere intuito nelle pieghe della sua umanità negli aspetti più quotidiani. È sulla capacità di resistere nell’obbedienza al quotidiano che si capisce di quale pasta sei fatto. E infine il potere. È la tentazione di soggiogare l’altro e possederlo per sentirsi importante, per essere qualcuno, per emergere a scapito di molti altri sommersi. Gesù anche qui dice con coraggio il suo no. il vero potere è il servizio e la disponibilità ad essere per l’altro e la sua gioia sempre anche quando non hai un tornaconto immediato e, anzi, tutto sembra volgerti contro. Essere servi ultimi a tempo pieno ti fa guadagnare la certezza di essere davvero figlio di un Dio che per primo cammina sprofondato fra la sua gente solo lasciando delle orme che segnano il suo sentiero di felicità.

domenica 19 febbraio 2012

Ultima domenica dopo l'Epifania

Questa è la seconda di due domeniche dedicate al tema del perdono per introdurci al tempo della Quaresima. Si può intraprendere un serio cammino di conversione, abbracciare la nostra libertà e modellarla secondo la verità del Vangelo, solo se si ha la consapevolezza profonda di avere accanto un Dio che è Padre e che può perdonare le nostre colpe, schiodarci da un passato che ci immobilizza, entrare come luce nelle zone d’ombra del nostro cuore, in quella parte di noi stessi che fatichiamo a guardare e che preferiamo nasconderci.

Anche domenica scorsa avevo ribadito che la questione del perdono è cruciale per la nostra identità cristiana, anzi, se non scopri almeno una volta nella vita cosa significa essere perdonato, non puoi dire di aver conosciuto il volto del Dio di Gesù; vorrei riprendere ancora la questione ma lasciandomi aiutare dall’immagine della corda.

La corda è come la nostra relazione con Dio. il peccato, il male che io riconosco di aver commesso, è come un taglio netto con cui separo, divido, interrompo il mio rapporto con lui. Quando chiedo perdono la mano buona di Dio fa un nodo, lega ancora assieme, unisce ciò che ho separato. Alla fine tuttavia mi ritrovo fra le mani la stessa corda ma un pizzico più corta: il perdono mi ha avvicinato di più a lui!

Ma ora vorrei entrare nel racconto evangelico di oggi già di per sé molto chiaro giusto per sottolinearne qualche suggestione perché, come un evidenziatore, qualche passaggio, ben rimarcato, continui a farci compagnia lungo questa settimana.

Già è preziosa l’indicazione iniziale in cui si dice che Gesù racconta questa Parabola per chi si crede giusto e si permette di disprezzare gli altri. Ci fa capire da una parte la schiettezza con cui Gesù predica il Vangelo, entrando come luce nelle tenebre, come chi mette con le spalle al muro ma per far prendere coscienza del proprio limite e poi liberarlo; d’altra parte entriamo subito nel vivo della questione e ci è possibile schierarci da una parte o dall’altra del racconto.

Il primo protagonista è un fariseo che si ritiene giusto al punto da stare con la fronte alta davanti a Dio. I grandi personaggi dell’Alleanza, i Padri della fede, quando sentivano la voce di Dio si prostravano con la faccia a terra. Elia, a soffio leggero del vento che gli indicava la presenza del Signore, si coprì il volto. Quest’uomo invece è piuttosto spavaldo, parla di sé, si ripete, nell’elenco delle sue doti che sciorina nel Tempio, solo la prima persona singolare. Non esiste il noi dell’intercessione, non esiste il Tu di un interlocutore che andrebbe interpellato, ascoltato, amato. Forse quest’uomo ha dimenticato Dio anche se sta pregando, lo ha escluso, lo ha tagliato fuori dalla sua vita. Si ritiene giusto e autosufficiente, può vivere, in nome di Dio, meglio sarebbe dire di una religiosità tutta sua, come se Dio non ci fosse. Si serve della religione per apparire ma poi si costruisce da sé. Per lui possiamo usare l’immagine dello specchio. È come se stesse ritto davanti ad uno specchio. Non guarda oltre. Vede solo se stesso.

Il secondo personaggio è un pubblicano, un peccatore pubblico. Lui si prostra, guarda a sé ma invoca su di sé la presenza di Dio. Vede il suo errore ma cerca di liberarsene, di prenderne le distanze. Per lui possiamo usare l’immagine del vetro. Riesce a scorgere che oltre sé e la sua pochezza c’è un Tu che può ascoltarlo e prenderlo per mano e con cui ricominciare daccapo, uno che può mettere un punto al passato e finalmente riprendere a scrivere su di una pagina nuova. Il rischio del pubblicano è di essere un complessato, di arrovellarsi attorno a un milione di sensi di colpa e affogare nel proprio mare di disperazione. Quel vetro deve diventare finestra, feritoia di luce che lascia passare la Grazia e trasforma le ferite in sorgenti d’acqua nuova.

Dio non ha paura del nostro peccato, non teme di percorrere miglia, di affrontare le discese più impervie per venire a prenderci. Anzi, cerca in noi proprio ciò che è finita debolezza per rivelare la sua infinita potenza. Ma ci chiede di lasciare che lui sia Dio, di non trasformare in specchio ciò che deve rimanere finestra aperta al suo mistero di Padre. Oggi, confessiamolo, noi tutti abbiamo bisogno di guarigione, che la tenerezza di Dio risani le nostre piaghe e ci restituisca ad una vita nuova.

Un’ultima parola è a commento del brano della lettera di Paolo. Se hai scoperto che cos’è il perdono non guardi più al fratello con disprezzo e con in bocca un giudizio sferzante. Il perdono è la trama lungo cui costruire una comunità realmente evangelica dove ci si ama e accoglie a partire dai propri limiti e non si deve più fingere nulla per sentirsi accolti. Sogno una Chiesa dove si fa festa perché ci si perdona,  una Chiesa che abbia i tratti di questo Vangelo.

domenica 12 febbraio 2012

Penultima domenica del tempo dopo l'Epifania




1 Due domeniche perché la quaresima non ci trovi impreparati.
Siamo ormai prossimi al termine di questo tempo dopo l’Epifania inserito nel ciclo del mistero dell’incarnazione: oggi e domenica prossima sono dette “penultima” e “ultima” domenica dopo l’Epifania. La nostra Liturgia ambrosiana pone in esse come tema centrale la Misericordia di Dio, la sua clemenza e il perdono. E tutto questo per prepararci al tempo di Quaresima. Mi piace questo segnare il tempo giocando in anticipo, quasi che la Quaresima non ci trovi impreparati se è vero che, assieme all’Avvento, è il tempo forte per eccellenza! Ma ancora di più mi piace questo accento posto sull’identità di un Dio che è perdono e che, con il suo amore di Padre, ci modella, ci attrae a sé, ci cambia per davvero, ci muove alla conversione. Quaresima  sarà il tempo in cui la nostra libertà deve esercitarsi nella conversione per lottare contro tutte quegli atteggiamenti diventati abitudine che rischiano di farci smarrire, nell’affanno dei nostri giorni, la nostra identità di figli, di sale e luce per il mondo. Ma il presupposto per ogni esercizio ascetico è sempre questo amore irresistibile. Per noi cristiani prima di tutto non sta il nostro sforzo di volontà, non stanno le nostre corse in avanti, non sta l’imperativo alla santità. Ciò che ci precede sempre è la Grazia, è un amore che si fa dono di sé fino a dare la vita per attrarci. Dio sa che finché non sentiremo bruciare sulla nostra pelle il suo amore non ci lasceremo scalfire nel profondo. Per noi, prima di una nostra qualsiasi azione, sta la passività di accogliere a mani aperte il suo dono di amore, la sua tenerezza sconfinata e non devi fare nulla per meritartela. Ma in fondo è sempre così: se vuoi davvero cambiare qualcuno amalo, e amalo quando meno se lo merita. Sarà allora che, sorpreso, inizierà a chiedersi il senso di questo amore gratuito e come può corrispondere.  

2 Il tema del perdono: questione cruciale per comprendere la nostra identità cristiana.
Davvero credo cruciale ed essenziale la questione del perdono per comprendere la nostra fede. Se non hai mai sperimentato cosa significa essere perdonato, se non ti sei mai trovato fra le mani il dono di un amore così sproporzionato rispetto alle tue attese, se non hai mai capito cosa significa essere amato non nonostante i tuoi limiti, ma proprio per questi, amato per quello che sei e non per come devi apparire, credo che difficilmente riuscirai a comprendere l’identità di questo nostro Dio. E continuerai a pensarlo Giudice freddo, burattinaio distante, moralizzatore dei costumi, inopportuna offerta di una verità inconciliabile con la tua vita, forse lo considererai padre ma un po’ padrone, a cui devi strappare con i tuoi meriti il suo affetto. Il perdono lo senti quando ti stai perdendo nelle tue ombre e si accende una luce che rischiara te e il mondo attorno a te, quando riesci a fare pace con la tua identità ferita perché ti scopri amato e preso per mano, il perdono ti sorprende ed assomiglia ad una mano che ti guarisce, che ti dà gioia, che ti schioda dal tuo passato, che ti mette in piedi e ti restituisce alla strada. Il perdono è ciò che più di ogni altra cosa ci avvicina a Dio, proprio come un nodo che lega due parti di una corsa tagliata a metà dal nostro errore. Più nodi ci sono e più i due estremi si avvicinano.

3 Il brano di Vangelo di oggi. Una profonda padronanza di sé, segno di una scelta maturata e presa in tutta libertà: Gesù è il Dio misericordioso.
 Credo che, contestualizzando il più possibile questo brano, ci possiamo rendere conto del possibile imbarazzo in cui Gesù avrebbe potuto trovarsi. Era a tavola con gente seria, colta, profondamente religiosa. Forse il discorso si era già fatto intenso e alto quando entra questa donna, una i cui sbagli erano di dominio pubblico, che si accovaccia proprio ai piedi dell’ospite d’onore iniziando a piangere e a dare affetto per ricevere amore e perdono. Eppure il Maestro di Nazareth non si smuove, forse solo un pizzico di rossore sul viso, ma con una ferma padronanza di sé, un silenzioso assenso che corrisponde a quanto questa donna gli sta chiedendo che dice la scelta non di sembrare Dio ma di esserlo nella Misericordia, nella scelta di stare accanto a chi ha il cuore ferito e fasciarlo con tenerezza. Lei è muta in tutta questo racconto ma sarebbe bello chiederle dove mai abbia trovato il coraggio di fare questo: forse solo nel disperato bisogno di essere amata e di rivoluzionare il giudizio che le avevano dato proprio in nome di Dio. Contrapposto a questo minuetto silenzioso, il giudizio severo di Simone contrappone all’amore la Legge, alla riconciliazione la sanzione, all’accoglienza la giustizia. In lui prevale un’idea di Dio troppo umana, troppo relegata ai nostri schemi di azione-reazione. Ma Dio è oltre e ci supera spalancando le braccia anche a chi noi non pensiamo lo meriti suscitando anche in noi, giusti, molto spesso rabbia o comunque perplessità.

Ma c’è una questione…
Ma c’è una questione che il brano di Vangelo  non risolve, lascia nell’ambiguità, scatenando  nei biblisti le più opposte reazioni interpretative: è  l’amore della donna che muove Dio al perdono o è il perdono di Dio che muove la donna ad un amore più grande per lui? Io penso che la domanda posta così non possa trovare una soluzione. È l’esperienza che dice che le cose possono benissimo stare assieme, una è causa e conseguenza dell’altra. Chi si sa perdonato si sente attratto all’amore e amerà ancora di più. Chi ama sa di poter contare sempre sul perdono dell’altro e lo ottiene senza condizioni. Ma di questo abbiamo già parlato. Dicevamo prima che questa attitudine al perdono da parte di Dio ci mette a tratti un po’ di stizza. Del resto siamo abituati a schierarci sempre dalla parte dei giusti che sono sazi di tutto! ma se solo facessimo lo sforzo di sentirci per qualche volta anche noi figli minori scappati di casa, pecorelle che sono uscite dal recinto, potenziali peccatori se solo quelle ombre dentro di noi potessero dilagare e se iniziassimo a sentire che Dio vuole proprio entrare in queste zone d’ombra per amarci e non per condannarci, allora cambierebbe tutto. E ci sentiremmo peccatori in conversione, felici di un amore su cui poter sempre scommettere