Si apre davanti a noi un tempo, quaranta giorni, in
cui possiamo con decisione e coraggio riprendere in mano la nostra vita e,
nella luce della Grazia, nella consapevolezza che il nostro Dio è Padre, abbraccio
riconciliante e che lotta sempre per la nostra gioia - non dimentichiamo il
messaggio della Liturgia delle due domeniche precedenti – smussare gli angoli, lasciar illuminare gli angoli bui, temperare i
nostri desideri, in una parola, modellare la nostra libertà.
La Quaresima infatti è il tempo in cui con più forza
la sapienza della Chiesa richiama una verità essenziale: lo scorrere del tempo,
la piega delle abitudini, un certo rassegnato fatalismo, la svendita quotidiana
dei sogni di fronte al prammatismo della mentalità corrente, rischia di sclerotizzare la nostra vita. Ci si
trova ad un tratto più rigidi, meno disposti ad amare, meno slanciati al Cielo
e con i pugni chiusi verso il fratello, ci si trova in definitiva molto distanti
dalla logica del Vangelo e dalla vita di Gesù. Lavorare su noi stessi ne va
della nostra felicità: la vita davvero è una sola e il rischio è che, se non
prendiamo noi il comando su di essa, siano gli altri a viverci o sia altro a
trasformarci in burattini e a muover ei fili.
Vorrei allora segnare l’inizio di questa omelia riprendendo
in mano quelle parole che sono la grammatica di questo tempo che la tradizione
della Chiesa ci consegna.
Il deserto. Il deserto non è l’assenza
dell’altro ma il silenzio e la presenza
di Dio in esso. Nel frastuono della città deserto può diventare una chiesa
povera dove si celebra la messa con forte
partecipazione; può essere la nostra camera per la preghiera del mattino quando ancora tutto in casa e sulle strade
tace, può essere anche il vagone di una
metropolitana con in mano un Vangelo o fra le dita un rosario, può essere la
cattedrale dove decidiamo di sostare
nella pausa pranzo. Ciò che conta è poter mettersi in ascolto della Parola di Dio
come di una promessa, lasciar dilagare in noi la nostalgia per quella che è la
sua Speranza, saper riallacciare i fili di un colloquio cuore a cuore che ci
rende più docili e ci restituisce alla nostra bellezza di uomini e donne.
Il digiuno. Questa pratica non è mai
passata di moda anche se, certo, si è adattata a noi che non sappiamo più molto
cosa significa la fame o la rinuncia. Eppure ha un carica simbolica
potentissima. È segno di dominio, di
padronanza, di signoria sugli istinti. Rinuncio al cibo e dico a me stesso
che posso farcela; posso rinunciare a quelle abitudini che si sono impossessate
di me e che sviliscono la mia vita. In questo senso allora digiuno significa
anche moderare le parole – come invidio i santi che aprivano bocca o per
parlare a Dio o per parlare di Dio – abbracciare come promettente la sobrietà
nei consumi, evitando sprechi di tempo e di beni.
La penitenza. Non ha senso una penitenza
fine a se stessa, ma sempre se volta all’educazione della nostra volontà per
renderci più fedeli al Vangelo. Dobbiamo conoscerci per sapere su quali punti
stiamo azzardando troppo al rischio di smarrirci e proprio su questi lavorare
con radicalità. Ad esempio, se abbiamo l’impressione che ci manchi sempre il
tempo per occuparci delle cose più importanti, dobbiamo chiederci se abbiamo
perso la bussola che ci fa discernere fra ciò che è urgente e ciò che è
necessario e avere il coraggio di buttarci su ciò che più conta che è sempre l’amore.
Il resto è davvero cenere che verrà
spazzata via con lo scorrere dei giorni e di cui nessuno avrà ricordo.
E così, stretta in pugno la strategia di questo
tempo, possiamo comprendere meglio il brano di Vangelo che fedelmente fa da
portale d’ingresso alla Quaresima. È lo Spirito a condurre Gesù nel deserto. Lo Spirito gli suggerisce questa lotta, lo
spinge ad affrontare la tentazione di poter essere e fare altro rispetto al
disegno del Padre. Amo pensare che anche Gesù sia stato libero di poter
scegliere un’altra strada, che anche lui, perché vero Uomo, ha potuto come me
sentire la possibilità di essere legge a se stesso e, in nome dell’autonomia,
di poter imbattersi su un cammino di perdizione; mi piace pensare che anche lui
abbia dovuto faticare per tutta la vita
per modellare i suoi pensieri, il suo cuore, la sua vita a una Parola
promettente ma non facile e comunque con un tornaconto non immediato. Amo
pensarlo così perché anch’io, nei momenti della mia tentazione, non mi senta
solo. E queste tre parole sono anche le
nostre tentazioni, parametro di confronto per capire dove ci siamo smarriti
e quali conversioni metter e in circolo. L’avere.
I sassi che diventano pane sono metafora della fame d ricchezza, di un possesso
in nome del quale arrivi anche a fare violenza sulla natura, sulla tua prima di
tutto. Sappiamo che, sull’altare dell’avere, l’uomo può arrivare a immolare le
cose più belle della sua vita: sogni, ideali ma anche relazioni e amicizie. Gesù
dice no perché lui vuole essere il Figlio povero perché testimone che Dio solo
basta per essere felici e che, sotto le sue ali, non ci manca nulla che già non
ci abbia dato. Povertà poi è sinonimo di libertà. L’apparire. E cosa ci sarebbe di più spettacolare tanto da lasciar
ammutolite le folle che lanciarsi da una torre altissima per poi farsi salvare
dagli angeli, cosa inaudita e vietata ad ogni uomo. E chi mai avrebbe fermato la
gente di fronte a questo gioco di prestigio, chi mai avrebbe messo in dubbio la
divinità di Gesù? Ma la via che lui sceglie è un’altra. Il suo essere Figlio, Dio, doveva essere intuito nelle pieghe della sua
umanità negli aspetti più quotidiani. È sulla capacità di resistere nell’obbedienza
al quotidiano che si capisce di quale pasta sei fatto. E infine il potere. È la tentazione di soggiogare l’altro
e possederlo per sentirsi importante, per essere qualcuno, per emergere a
scapito di molti altri sommersi. Gesù anche qui dice con coraggio il suo no. il vero potere è il servizio e la
disponibilità ad essere per l’altro e la sua gioia sempre anche quando non hai
un tornaconto immediato e, anzi, tutto sembra volgerti contro. Essere servi
ultimi a tempo pieno ti fa guadagnare la certezza di essere davvero figlio di
un Dio che per primo cammina sprofondato fra la sua gente solo lasciando delle
orme che segnano il suo sentiero di felicità.