Con gli occhi
di Maria
Io non so quel
giorno che cosa gli è preso! Eravamo felici per quella settimana così intensa,
così diversa, così lontana dalle solite prospettive di ogni giorno, anguste
come le vie di Nazareth. Quella festa con i suoi riti, i suoi canti, quel
viaggio, quell’affiatamento che vivevamo rendeva anche noi 3 tutti più uniti. E
ne avevamo bisogno! Non era poi così lontano il tempo delle calunnie dei
vicini, quei sorrisetti maliziosi delle donne di paese, quando mi spiavano a
mezzogiorno al pozzo a prendere l’acqua con una pancia imbarazzante - per loro certo,
non per me - e quei commenti “dice che le è apparso un angelo. Vedrai se nasce
femmina come rideremo di gusto!”. Povero Giuseppe, anche il suo lavoro ne aveva
risentito: i bigotti di Nazareth non gli portavano più i loro arnesi da
riparare e non gli commissionavano più lavori importanti: “Del resto, se giusto
era, avrebbe dovuto ripudiarla quella poco di buono!”. E così poco di buono giudicarono
anche lui! No, proprio niente mi avrebbe preoccupata in
quella festosa carovana al ritorno da Gerusalemme nella sua dodicesima Pasqua. Ma
3 giorni a non vederlo sono troppi anche se sai con chi viaggi e sai che
nessuno avrebbe potuto fargli del male! Proprio al terzo giorno l’angoscia
montava come un cavallo sbizzarrito. Mi prese le vene e iniziai a correre avanti
e indietro chiedendo dove fosse e se qualcuno lo avesse visto. Mi prese la gola
fino a dare un grido disperato a Giuseppe che inutilmente cercava di calmarmi:
“dobbiamo tornare indietro!” quel figlio mio che non era nostro, quella carne
destinata a qualcosa di grande mi era stata affidata e io, in quell’attimo, mi sentivo non solo sprofondare ma anche venire meno a
una Promessa! Lo trovammo alla fine nel Tempio. Era lì con un accento da
adulto seduto fra uomini dotti, di quelli che non danno retta ai poveri come
noi, ma che a un ragazzo così non potevano non guardare con ammirazione e
simpatia. Non so cosa gli avrei fatto: forse se la mano dolce di Giuseppe non
mi avesse fermata uno scapaccione, come pochi gli ne ho dati, lo avrebbe
proprio meritato. Gli urlai in faccia però tutta la mia rabbia, la mia paura,
il mio terrore di averlo perso. Ma lui, calmo, come un adulto che ha già scelto
la sua strada, mi replicò che così
doveva essere, che in quel modo doveva andare, aveva un Padre a cui obbedire!
No, figlio mio, non adesso, non ancora.
È troppo poco il tempo che ti ho avuto con me. È troppo presto per darti in
pasto a gente che non ti capirà e che ti ucciderà. Lascia ancora per un po’ –
non so quanto ma sarà comunque troppo breve – che tu sia solo mio! E tornammo a
Nazareth, niente è mai stato come prima da allora. Il mio Joshua era una bomba a
orologeria destinata a deflagrare presto o tardi nella nostra casa. È
il mistero di ogni uomo che chiede di affacciarsi alla vita. E io, come ogni
madre, avrei dovuto ancora una volta farmi obbediente.
Con i nostri
occhi
Luca solo per poco squarcia il velo del silenzio che
avvolge i giorni dell’infanzia di Gesù: c’è un mistero che non può essere
violato. Del resto la famiglia di
Nazareth non fa cronaca, non ha la pretesa di assurgere agli annali della
Storia dei potenti. Dio sceglie di abitare la storia dell’uomo nella più nascosta prosaicità e, proprio da
questa prospettiva, ribalta ogni parametro: ciò che conta non sono le imprese
quasi epiche ed episodiche ma la
capacità di resistere e continuare a scommettere sull’amore giorno dopo giorno.
Questo brano vuole essere, forse, solo un prologo di quello che sarà lo stile di
Gesù: non si lascerà mai imbrigliare, percorrerà con decisione e caparbietà
la sua strada, farà, costi quel che costi, la volontà del Padre suo. Il tentativo
di emancipazione che qui ci viene raccontato è sinonimo di una libertà che si
fa scelta di essere il Figlio che dona la sua vita per amore e proprio così
rivela la Verità di Dio.
Infine con queste righe Luca vuole dirci dove Maria
e Giuseppe e con loro, poi, i discepoli del Signore devono trovare Gesù se lo
vogliono incontrare per davvero. Gesù non sta nella carovana ma nel Tempio a
discutere delle cose del Padre suo così come non sarà imbrigliato negli schemi
di una religiosità farisaica e precettistica ma oltre, dove la Legge si fa
Amore; Gesù sta sempre davanti a Pietro e a tutti gli altri, è sempre oltre perché
il suo Vangelo ha una logica che spiazza; infine Gesù non sta nel sepolcro ma è
nella casa del Padre suo, è il vivente che, perché crocifisso, perché si è
donato senza trattenere, ha vinto la morte.
A questo punto mi chiedo cosa questo brano centra con le nostre
famiglie. Non sono ammesse riduzioni di sorta! Anche perché la famiglia di Gesù
è davvero unica nella sua forma. Mi piace però prendere spunto da quanto detto
e fare delle dediche
Vorrei che tutte le mamme e tutti i papà imparassero
a non trattenere mai i loro figli,
che smettessero di pre-occuparsi per loro (perché quel pre denuncia che prima di tutto ci sono loro e le loro attese da
colmare) ma si occupassero seriamente
della loro felicità mettendosi accanto come puntelli solidi nella roccia su
cui i ragazzi possono appoggiarsi ma per compiere quella scalata che sarà
comunque e sempre solo la loro.
Vorrei che tutte le famiglie che faticano a
resistere nell’amore sentissero sul loro capo la carezza di un Dio che è tenerezza e a cui non sfuggono i piccoli
gesti d’amore che fanno, alla fine, eroica la vita di ognuno.
Vorrei che tutti quelli che non sanno dove sia il
Signore magari nel cuore del loro fallimento, anche familiare, sappiano che Gesù è sempre nascosto nella trama dei
nostri giorni e con lui si può sempre ricominciare daccapo.