sabato 22 agosto 2009

domenica che precede il martirio del Battista

1 Avevamo già studiato la mappa che il nuovo Lezionario Ambrosiano ci mette fra le mani in queste domeniche che sono seguite al mistero della Pasqua. Ci sono due punti fermi che fanno da cardine per i temi delle letture e sono rispettivamente la memoria del Martirio del Battista al 29 di agosto, da qui il titolo di questa domenica, e la festa della Dedicazione della Chiesa Cattedrale alla III di ottobre. Le domeniche che precedono la memoria del martirio del Battista ci hanno fatto ripercorrere l’intera storia della salvezza dalla Creazione al dono della Legge sul Sinai fino alle vicende di Israele al tempo dei Re e oggi all’episodio struggente dei Maccabei che non hanno esitato a dare la loro vita piuttosto che rinunciare alla fede durante la dominazione nel I sec. a. C. in Israele di Antioco Epifane, della dinastia dei Seleucidi: il suo era un potere non solo politico ma anche culturale che mirava a distruggere le radici giudaiche introducendo nuovi costumi e nuovi culti avversi alla Legge di Mosè. Le domeniche che seguono questa festa ci aiuteranno a cogliere la presenza del Verbo nella Chiesa e ci prepareranno a celebrare il giorno della Dedicazione. Così che da quella Domenica fino all’Avvento ascolteremo le parole che muovono la missione della Chiesa di annunciare la Parola fino agli estremi confini della terra.
2 il coraggio della fede: mi sembra questo il tema di oggi che posiamo rintracciare nella Lettura, nell’esperienza di Paolo e nel brano di Vangelo. Cerco di mettere in evidenza alcuni spunti della Parola cercando di lasciarla parlare anche a noi, credenti chiamati ad accettare la sfida di questo tempo, perché oggi più che mai abbiamo bisogno di cristiani così, di cristiani coraggiosi!
Parlare senza doppiezza come i Maccabei di fronte al tiranno, come Paolo che nel nome della speranza della Risurrezione si arroga il diritto di parlare e di non tacere la Verità del Vangelo della morte e risurrezione del Cristo Gesù, come ci chiede Gesù senza timore di chi può uccidere il corpo, dunque senza volere compiacere nessuno e mettersi al riparo dalla fatica e dalla croce, con estrema chiarezza e semplicità: il Vangelo non tollera il conformismo, quel galleggiare a destra e a sinistra a seconda della personale convenienza e dei propri vantaggi al caro prezzo di svendere però la libertà asservendosi ai potenti di turno. Per noi oggi significa bandire quell’ipocrisia clericale che è diventata proverbiale e che spesso aleggia nelle sacrestie, significa fare la scelta di campo di stare sempre e comunque all’opposizione, come diceva don Milani, significa abbracciare i nostri valori e non svenderli, significa gridare per esempio che la Vita è sacra dal suo inizio alla sua fine naturale e dunque lottare e costruire da parte nostra con fatica una società in cui sia riconosciuta la dignità ad ogni uomo e soprattutto ai più poveri; significa ribadire che agli occhi di Dio è preziosa anche la vita di un emigrato ed è contro il Vangelo tradire ogni naturale diritto all’accoglienza, alla sopravvivenza, alla possibilità di riscatto e di emancipazione di chi abbiamo noi impoverito fino alla fame; significa che è ingiusto mettere al bando i clandestini e gettare sulle loro spalle la colpa della nostra precarietà.
Il timore di Dio ci rende temerari: mi piace sintetizzare così un altro passaggio della Parola di oggi. Se decidi di metterti nella mano di Dio, il timore sacro è vivere alla sua presenza e sapersi creature, devi alzare la fronte e non temere nessuno. Non è sfrontatezza ma il coraggio di portare avanti assieme a Dio il sogno del suo Regno. Oggi non dobbiamo avere paura di scendere sulle strade, non possiamo rintanarci nella nostalgia del passato, come diceva papa Giovanni Paolo II dobbiamo avere il coraggio di aprire tutte le nostre porte a Cristo. Ognuno con la sua vocazione andrà incontro al Martirio, magari consumato rapidamente oppure nel logorio di un quotidiano pesante da affrontare ma se ci accompagnerà la certezza della Risurrezione saremo disposti a vendere tutto e a inseguire la nostra stella.
E infine la Parola ci invita confidare in Dio e nella sua Provvidenza. Non ci mancherà il necessario se avremo fatto di Dio il motivo della nostra vita: non mancheranno pane e acqua per sostenerci nel nostro cammino, non mancheranno i segni che consoleranno il nostro cuore, non mancheranno porte aperte a dispetto di molte altre chiuse, non mancheranno amici straordinari disposti a condividere le nostre gioie per moltiplicarle e le nostre fatiche per dimezzarle, non mancherà il soffio dello Spirito sulle nostre vele per condurci al largo.
3 come una conclusione: per un mondo che assomigli di più al regno dei cieli saremo disposti ad essere folli?
…E non è un'invenzione/e neanche un gioco di parolese ci credi ti basta perché/poi la strada la trovi da te.Son d'accordo con voi,/niente ladri e gendarmi,ma che razza di isola è?/Niente odio e violenza,né soldati, né armi,/forse è proprio l'isola che non c'è/... che non c'è.Seconda stella a destra/questo è il cammino,e poi dritto fino al mattino/non ti puoi sbagliare perchéquella è l'isola che non c'è!/E ti prendono in girose continui a cercarla,/ma non darti per vinto perchéchi ci ha già rinunciato/e ti ride alle spalleforse è ancora più pazzo di te!
E. Bennato, L’isola che non c‘è

sabato 15 agosto 2009

undicesima dopo Pentecoste

Non erano certo anni facili quelli in cui visse Elia. Il Regno di Davide, alla morte di Salomone, era stato spartito in due e i successori, sia in Israele che in Giuda, spesso dimenticavano la loro vocazione al servizio della Nazione e spadroneggiavano sul gregge loro affidato. Allora come sempre, non c’è modo migliore per togliere la libertà a un popolo che spezzare il filo della memoria, strappargli il passato e poi rubare anche il futuro svuotandolo di senso e ripiegando le persone sui bisogni più materiali, costringendole a volare basso, non oltre l’orizzonte del quotidiano. E così i re costruivano altari agli dei per far dimenticare il Dio della libertà che aveva sancito la sua Alleanza con Israele sul Sinai e si circondavano di falsi profeti che storcevano le cose future per accontentare i desideri dei potenti. La pagina di oggi ci presenta Elia contro questi profeti della regina Gezabele in una disputa accesa, che in alcuni passaggi diventa quasi pantomima, commedia non senza ironia tagliente. C’è da dire però che Dio non gli aveva ordinato anche di sgozzarli come accade qualche riga dopo il brano di oggi tanto che quei canali scavati dalla gente convenuta, secchi d’acqua, si riempiono di sangue. Non solo, Elia capirà più avanti, sull’Oreb, quando Dio si rivelerà a lui nel mormorio di un vento leggero, segno che il Signore non giustifica mai la violenza ma si rivela sempre nella debolezza, di non essere davvero così solo come crede: Dio ha riservato in Israele un popolo numeroso a lui fedele, circa settemila persone.
Mi sembra che la Liturgia della Parola di oggi metta in luce due nodi su cui riflettere: da una parte l’infedeltà e il tradimento dell’uomo che piega al suo volere la Parola e la svuota dal di dentro e dall’altra la testardaggine di Dio nel costruire il suo Regno anche ribaltando dal di dentro il Male e trasformandolo in bene.
Questi due punti li troviamo anche nelle altre due letture: Paolo nell’Epistola, con uno sguardo che va in profondità rispetto all’apparenza, uno sguardo – mi piacerebbe dire – teologico, rilegge il rifiuto del Vangelo da parte d’Israele come un’occasione provvidenziale per annunciare il Regno anche alle Genti. Il Cristianesimo è approdato nel mondo occidentale, oltre i confini d’Israele, grazie proprio alle tante ostilità che gli Apostoli, e Paolo con loro, hanno incontrato nelle comunità ebraiche. Di solito Paolo approdava in una terra con un gruppo di missionari e il primo annuncio della Morte e Risurrezione del Cristo Gesù era riservato alle sinagoghe. Molto spesso venivano cacciati da qui e allora il Vangelo veniva raccontato sulle piazze e nelle case a gente pagana che invece si convertiva: occasione perduta per gli ebrei trasformata in provvidenziale occasione dallo Spirito di Dio.
E Gesù nel Vangelo, con la parabola dei vignaioli omicidi, raccontata nel Tempio pochi giorni prima della sua croce, sembra confermare quanto detto prima: Dio in Gesù costruisce il suo Regno anche con un Popolo che non appartiene alla radice d’Israele.
Potremmo aprire qui un esame di coscienza e chiederci quando anche noi, che siamo i destinatari ultimi del Vangelo, chiamati a edificare con la nostra Fede, Speranza e Carità il Regno di Dio ci comportiamo come quei vignaioli, da contadini chiamati a partecipare del Regno ci trasformiamo in cinici detentori e chiudiamo le porte del nostro cuore allo Spirito e uccidiamo in noi la presenza di Gesù perché crediamo di riuscire a farne a meno per essere felici, perché ci spaventa la sua proposta. Magari siamo bravi a ostentare la nostra religiosità ma in realtà siamo aridi e sterili e la nostra testimonianza non è coraggiosa ma tiepida, non sfida il mondo di oggi ma ci arrocchiamo nei nostri privilegi, non osiamo parlare di Gesù alle nuove generazioni e costruiamo verso di loro una barriera invalicabile da una parte e dall’altra.
Preferisco però porre l’accento sulla cocciutaggine di Dio nel portare avanti il suo disegno con noi e a volte nonostante noi, con la sua Chiesa e, talvolta, mi fa male dirlo, nonostante la sua Chiesa.
Dio ha preso il suo Figlio, scartato dal suo popolo come una pietra inutile, e lo ha risuscitato e lo ha reso testata d’angolo, pietra che dà l’intonazione all’ordine di una nuova costruzione. Dio continua a costruire così il suo Regno raccogliendo nella sua bisaccia tutte le pietre che noi scartiamo perché le consideriamo inutili e le pone a fondamento di un nuovo mondo. Se penso alla storia della Chiesa, mi vengono in mente tanti santi che hanno sofferto molto anche per la Chiesa perché non riconosciuti come segno profetico dello Spirito: Francesco e il suo amore appassionato per Madonna Povertà, Bernadette e le apparizioni della Vergine a lei che era la più piccola e la più stupida di tutte le bambine di quel borgo oscuro di Lourdes di fine 800, Giovanni Bosco e la follia della santità proposta ai giovani nell’allegria dell’oratorio, Padre Pio e la fedeltà al Vangelo consumata nel nascondimento di un paese sprofondato nel sud Italia con la dedizione alla confessione e all’Eucarestia e ancora don Lorenzo Milani, don Primo Mazzolari, p. David Maria Turoldo… e quanti ancora oggi. Stiamo attenti a quando come Chiesa, come comunità, come singoli scartiamo da noi i più poveri e quelli che giudichiamo incapaci di accogliere il Vangelo perché Dio non ragiona così, non guarda alle apparenze ma al cuore. Troppi sono quelli che noi mettiamo ai margini: dagli stranieri ai giovani più in difficoltà. Come sarebbe bello se la nostra comunità mettesse i poveri non a margine, non come destinatari ultimi di tanti progetti ma sempre un gradino sotto, ma al centro per il loro riscatto e progressivamente come sarebbe bello se iniziassero ad assumersi piccole o grandi responsabilità.
C’è una speranza però che conclude il nostro discorso: Dio non si spaventa dei nostri errori e neppure dei nostri peccati. Sa prenderci invece per mano e, nella sua Grazia, si serve anche del nostro Male per innalzarci alle vette della santità: un Dio così io non lo voglio più lasciare!

venerdì 14 agosto 2009

Assunzione di Maria al Cielo


Guardiamo a Maria, nostra speranza.
È bello oggi ritrovarci in preghiera accanto a lei, che è madre e sorella nostra.
Il mistero che celebriamo è molto semplice e radicato nella nostra fede da tanti secoli, anche se solo nel 1950 Pio XII lo ha reso dogma: non poteva restare nel sepolcro la Madre di Dio; chi portava in sé la Vita non poteva conoscere la corruzione della morte ed ora è in Cielo in anima e corpo. Oggi guardiamo a Maria come la Madre della Gloria, come la Regina degli Apostoli che fa festa in cielo. E questo sguardo su di lei è anche una speranza grande per noi: anche noi non siamo destinati alla morte, al buio, al silenzio ma alla Vita, alla luce, alla gioia della festa del Cielo. Dunque non celebriamo un privilegio di Maria ma anticipiamo un destino: la vita senza fine.
Ora vorrei però chiedermi di quale pasta è fatta la fede di Maria e cosa può dire anche alla nostra fede. Perché se il Paradiso è la meta comune, comune deve essere al suo anche il nostro cammino. Maria non è solo Madre della Chiesa ma anche Sorella di ognuno, pronta con le sue mani a raccoglierci dai nostri tanti sentieri e a indicarci le sue orme perché possiamo farle nostre.
Maria è stata Vergine fedele, la Vergine dell’ascolto.
Oggi la pagina della Parola la immortala nella gioia dell’incontro con Elisabetta. Maria aveva ascoltato l’annuncio dell’Angelo, aveva dato il suo sì nella gioia di sentirsi prediletta, amata, scelta, chiamata a partecipare all’orizzonte della salvezza per il suo popolo. E ora la gioia ha spinto i suoi passi e li ha resi agili sui monti della Giudea per raccontare lo straordinario nell’ordinario avvenuto in lei ad una donna che sola avrebbe potuto comprendere quell’accadimento: Elisabetta, sua parente, madre anche lei in modo del tutto straordinario, segno di un Dio che è Signore dell’impossibile. E davanti a lei si scioglie, come una danza, il cantico in cui Dio si rivela come colui che ribalta già qui e ora le sorti dei poveri e degli umili per innalzarli nella sua Grazia.
Maria, nel suo canto, si rivela donna dell’ascolto, capace di vedere nella sua vita avverata la Parola a lungo conosciuta e meditata. E anche a noi lei insegna che una fede vera non può prescindere dall’ascolto della Parola. La vera preghiera a un certo punto è tacere, consegnarsi a Dio e ascoltare la sua Parola. La Parola si fa grammatica per la nostra vita, è l’indice che scorre sotto i risvolti di ogni palpito della nostra esistenza per interpretarli e dare ad essi un senso, un orizzonte, un perché. Nell’ascolto sta la chiamata a non perdere nemmeno un attimo della nostra vita e a darle forma nella vocazione all’amore. Mi piace però pensare che Maria non abbia ascoltato solo le parole del Libro ma anche sia stata capace di mettersi in ascolto ed interpretare le pagine aperte della vita della sua gente in cui si ritrova la presenza di Dio. Anzi, Maria, perché ascoltava il suo Signore, era capace di ascoltare e farsi accogliente verso il grido della gente che le stava accanto. Maria non era indifferente al grido dei poveri, alla sofferenza della sua gente schiacciata dal Potere dei grandi di questo mondo, non le era estraneo il desiderio di vedere l’alba di un’era nuova, quella del Messia. Mi piace pensare che questa passione per l’ascolto Maria l’abbia insegnata anche a Gesù che aveva una Parola capace di illuminare il cuore come un lampo nel cuore della notte proprio perché prima era capace di fermarsi in ascolto del Padre suo e della sua gente.
Maria però, nella sua vita. è stata anche Madre del dolore, sa bene cosa sia il buio della fede e la notte dello Spirito e anche il dramma della croce, della morte e della tentazione della disperazione. Maria ha dovuto presto abituarsi al fatto che la fede non è fatta solo di slanci, di festa e di consolazioni ma anche di fedeltà rosicata giorno dopo giorno, di salti nel buio, di deserti lunghi e silenziosi in cui Dio sembra non esserci o che non voglia rivelarsi. Maria poi sa cosa significa il Male che si avventa sul Bene e sembra consumarlo, distruggerlo, annientarlo. Maria sa cos’è la notte della disperazione e sa che Dio però non lascia troppo brancolare nel buio i suoi figli perché altrimenti si perderebbero. E così Maria ci insegna che se nel cammino della nostra fede anche noi incontriamo l’ostacolo, la paura, la tenebra, se anche noi non vediamo oltre la croce di ogni giorno o non sentiamo più la voce di Dio non siamo sulla cattiva strada ma stiamo percorrendo il deserto che è solo la tappa intermedia alla gioia, quella vera. La sua mano stretta alla nostra, se anche noi siamo nel dolore, ci fa sentire che, come lei per Grazia, ce l’ha fatta a sfidare la vita e a vincere la battaglia, anche a noi Dio non nasconderà a lungo il suo volto e capiremo che il dolore non arriva mai inutile ma come un crogiuolo in cui il nostro cuore viene provato con il fuoco per purificarsi. Se vogliamo anche noi attraccare e gettare l’ancora della nostra vita in Cielo, per arrivare alle stelle, non possiamo non passare dalla strettoia aspra del cammino della vita. Per aspera ad astra dicevano gli antichi. La festa di oggi guarisce il nostro sguardo miope e lo allunga oltre l’orizzonte della sofferenza del presente: il Dio che abbiamo incontrato nell’ascolto non ci abbandona nell’ora del dolore e ci attende nel suo abbraccio.

domenica 9 agosto 2009

decima dopo Pentecoste

Diceva un grande monaco del secolo scorso, Dossetti, che la preghiera è l’opera più difficile che si possa compiere e che, a dispetto di molti che credono di saper pregare, in realtà solo pochissimi sono capaci di farlo.
Forse la sua era un’esasperazione delle cose, ma certo è che la preghiera cristiana ha una posta in gioco altissima: è la relazione fra il nostro io più profondo e il Padre di Gesù. E in questa relazione che si fa abbraccio nello Spirito, la nostra vita si modella a immagine del Figlio. La Liturgia della Parola di oggi mette in luce il tema della preghiera e sarà bene che le provocazioni che essa ci consegna ci interroghino anche fuori di qui e lungo tutta la settimana per aiutarci e per trasformarci in persone di preghiera secondo il Vangelo.
Anzitutto la Prima Lettura. Salomone trasferisce l’Arca dell’Alleanza, che aveva avuto dimora prima di allora sotto la Tenda, nel Tempio che lui ha fatto erigere. Dopo la solenne processione e l’insediamento, il Tempio si riempie della Nube divina segno della Presenza di Dio. L’uomo ha costruito con le sue mani il Tempio e Dio decide di abitarci ma quello è solo il Segno della sua presenza, l’Arca è solo il ricordo di un’Alleanza stretta con il suo popolo – la Parola è tagliente nel dirci che in quell’arca trattata con tanta solennità in realtà non c’era nulla se non le tavole di pietra – ma poi i conti si tirano fuori da lì, nella storia di ogni giorno, nella coscienza di ogni credente che è chiamato a rispettare le Legge e a metterla in pratica come cammino di santità.
Anche la 2 Lettera ai Corinti, scritta nel vivo di una polemica fra Paolo e la sua comunità a proposito della buona condotta di vita e sulla fedeltà al Vangelo che lui ha annunciato, ci ricorda che il vero culto si celebra in una vita santa che non si compromette con le tenebre, che non fa sconti al Male in noi e attorno a noi.
E infine la pagina di Vangelo di Matteo suggella tutto questo discorso. Gesù non perde le staffe contrariamente a quello che si pensa, non ha uno scatto d’ira. Pone un’azione simbolica e conosce le conseguenze a cui andrà incontro. Il Tempio deve tornare ad essere casa di preghiera e non può essere un rifugio per ladri: è la citazione testuale di Geremia che accusava il suo popolo di doppiezza; nella vita di ogni giorno si permetteva di frodare, di commettere ogni sorta di ingiustizia e poi pensava di presentarsi davanti a Dio come se lui non vedesse, come se lui non conoscesse i cuori, come se lui non pretendesse coerenza. E Gesù in quel Tempio fa le opere di Dio: guarisce i malati e predica la venuta del Regno. La conseguenza è una rapida accelerazione alla condanna e alla morte di croce perché la sua Parola dà fastidio perché esige radicalità e conversione. È più facile metterlo al bando, credere che la sua sia una follia piuttosto che accogliere la sua provocazione e cambiare rotta.
Cosa dice a noi questa Parola. Penso anzitutto che sia un richiamo alla nostra vita di fede. La preghiera è strumento di dialogo con il Padre. Sottolineo la parola dialogo. A volte noi scioriniamo lunghi monologhi ma difficilmente ci mettiamo in ascolto. La Parola dice: parla, Signore, che il tuo servo ti ascolta e noi ci troviamo invece, in pratica, a dire, taci, Signore, perché il tuo servo deve parlare! Ad un tratto dobbiamo lasciar parlare Dio al nostro cuore, la preghiera deve farsi ascolto della Parola se veramente deve cambiare il nostro cuore. La forza della preghiera sta tutta nella sua capacità di convertirci. I primi a cambiare, mentre preghiamo, dobbiamo essere noi. La preghiera non cambierà mai il mondo se noi non siamo i primi a invertire la rotta e a mettere nella storia tutto il nostro impegno e la nostra forza per renderla più simile al Regno di Dio. E allora dalla preghiera sorgerà un nuovo modo di relazionarci con noi stessi, ci renderà prossimo di chiunque. La preghiera pretende di cambiare il nostro rapporto con il mondo, detta le condizioni per il nostro pensiero politico e anche economico. La preghiera ci renderà simili in tutto, ognuno con la sua vocazione, a Gesù e saremo sua immagine qui e ora. La verifica della nostra preghiera rimane dunque la vita di ogni giorno e la coerenza che avremo saputo mettere in ogni sfida. Approdo della preghiera non può che essere la Carità. Sul tema della coerenza siamo parecchio incalzati da chi non crede o ha deciso di non praticare più per i motivi più svariati. A volte è un appello recondito alla santità quello di chi dice di non venire più in chiesa perché è rimasto ferito dall’incoerenza dei credenti. Ma cosa direbbero se noi per primi trasformassimo la nostra preghiera in una vita che nel suo piccolo si fa luce e sale per il mondo?
E infine la Parola di oggi ci interroga anche sulla celebrazione che stiamo compiendo. Siamo qui non per assolvere un precetto. La Messa non ha nessun valore se non spacca il nostro cuore di pietra e non ci rende insieme comunità profetica per il presente, se non ci rende Corpo di Cristo qui e ora, capaci di porre i segni che lui ha saputo dare di relazione profonda con il Padre e di guarigione per l’umanità ferita. La Messa non è un rifugio mistificatorio, il profumo d’incenso e la melodia dei canti non sono capaci di confondere il nostro Dio. Quello che ci è chiesto è di aprirci alla Parola e poi di lasciarci portare in alto dalla capacità che ha avuto Gesù di dare la sua vita e di amare sino alla fine perché anche noi ne seguissimo le orme.

sabato 1 agosto 2009

nona dopo Pentecoste

Ho pensato di intermezzare il mio commento alla Liturgia della Parola di oggi con una poesia del 1946 di Madeleine Delbrel che si intitola Il ballo dell’obbedienza

E' il 14 luglio./Tutti si apprestano a danzare./Dappertutto il mondo, dopo anni dopo mesi, danza./Ondate di guerra, ondate di ballo./C'è proprio molto rumore./La gente seria è a letto/ I religiosi dicono il mattutino di sant'Enrico, re./Ed io, penso/all'altro re./Al re David che/danzava davanti all'Arca./Perché se ci sono molti santi che non amano danzare,/ce ne sono molti altri che hanno avuto bisogno di danzare,/tanto erano felici di vivere…/Perché io penso che tu forse ne abbia abbastanza/della gente che, sempre, parla di servirti col piglio da condottiero,/di conoscerti con aria da professore,/di raggiungerti con regole sportive,/di amarti come si ama in un matrimonio invecchiato.
C’è un che di follia negli uomini e nelle donne di fede. Penso al re Davide nell’episodio che la lettura di oggi ci presenta; penso a Paolo e alla sua convinzione di essere un piccolo strumento nelle mani di Dio: tanto più guarda alla sua debolezza tanto più si sente adatto alla missione perché si rivelino solo la Grazia e la Potenza di Dio; e penso a Gesù, anche lui folle nel seguire la strada della croce e testardo nel proporre la sua follia a tutti quelli che hanno deciso di stragli dietro, nel volere che noi uniamo il nostro destino al suo nella logica sconvolgente di una vita giocata in pura perdita di se stessi per conquistare il Regno. Una via che ha all’apparenza il sapore amaro della sofferenza ma, oltre questa, contiene il segreto della felicità che sta tutta nell’essere fuori di sé, estatici d’amore per il Padre e folli nella carità verso tutti quelli che incontriamo sulla nostra strada. E così è stato per tanti santi di ieri ma anche di oggi. Ma se pensiamo anche alla nostra esperienza, a chi ci ha trasmesso la fede con coraggio e decisione, non possiamo non riconoscere in loro una follia che li proiettava oltre gli schemi del quotidiano, una capacità di prendere in mano la vita e leggerla alla luce di una sapienza più grande di quella del mondo, li sosteneva una speranza incrollabile oppure li guidava un amore davvero disinteressato che in noi ha lasciato un segno indelebile. Come sarebbe bello se lo Spirito, che scende in abbondanza su di noi in questa celebrazione, oggi ci afferrasse e ci mettesse in cuore la voglia di danzare, la voglia di inventarci un modo nostro singolare e allegro per dire la gioia della nostra fede che talvolta davvero sembra l’amore di un matrimonio invecchiato senza slanci, senza calore!

Per essere un buon danzatore, con te come con tutti,/non occorre sapere dove la danza conduce./Basta seguire,/essere gioioso,/essere leggero,/e soprattutto non essere rigido./Non occorre chiederti spiegazioni/sui passi che ti piace di segnare./Bisogna essere come un prolungamento,/vivo ed agile, di te./E ricevere da te la trasmissione del ritmo che l'orchestra/scandisce./Non bisogna volere avanzare a tutti i costi,/ma accettare di tornare indietro, di andare di fianco./Bisogna saper fermarsi e saper scivolare invece di/camminare./Ma non sarebbero che passi da stupidi/se la musica non ne facesse un'armonia./Ma noi dimentichiamo la musica del tuo Spirito,/Signore, vieni ad invitarci.
Certo che ora qualcuno potrebbe obiettare a quello che ho detto fin d’ora dicendo che mi manca il senso pratico, che sarebbe troppo bello se la vita fosse una danza e tutto fosse sempre ritmato dall’armonia e dalla positività. In effetti il quotidiano è sempre pieno di incognite, di croci e di fardelli spesso pesantissimi che tolgono la felicità: col passare del tempo i sogni si assopiscono, i problemi aumentano, ci sentiamo insicuri come in un mare in tempesta sballottati dalle onde di mille difficoltà soprattutto se si affacciano all’orizzonte le nubi della malattia o della morte. Nessuno nega tutto questo. Gesù, nel suo Vangelo, oggi, parla di croce e di strada in salita. Ma la nostra fede non trasforma il brutto in bello, la sofferenza in gioia, non fa della nostra vita una spensierata bevuta di acqua e zucchero! Ci dice che la croce è solo il preludio della gloria e alla fine conta l’amore che hai messo nell’obbedienza alle sofferenze del quotidiano. E questo ci dà una gioia di fondo che nulla può turbare come i fondali del mare che rimangono calmi anche quando in superficie si scatenano le tempeste più violente. La fede non fa di noi degli estranei alle sofferenze del mondo, solo ci dona il segreto per non perdere la speranza e per non smarrire l’essenziale. Si può continuare a danzare solo se si accetta che sia Dio a darci il ritmo e noi non smettiamo di stare al suo passo. E allora tutto avrà un senso: quelle volte che procediamo in avanti e quelle volte in cui ci sembra di indietreggiare ma in realtà stiamo andando solo più a fondo della nostra vita, quelle volte in cui entriamo nel buio e ci sembra di non capire più nulla ma in realtà ci accorgiamo che Dio non ha mai smesso di abbracciarci, quelle volte che la musica sembra finita e in realtà si dipana per noi un’altra occasione.

Siamo pronti a danzarti questa corsa che dobbiamo fare,/questi conti, il pranzo da preparare, questa veglia in/cui avremo sonno./Siamo pronti a danzarti la danza del lavoro,/quella del caldo, e quella del freddo, più tardi./Se certe melodie sono spesso in minore, non ti diremo/che sono tristi;/Se altre ci fanno un poco ansimare, non ti diremo/che sono logoranti…/Facci vivere la nostra vita,/non come un gioco di scacchi dove tutto è calcolato,/non come una partita dove tutto è difficile,/non come un teorema che ci rompa il capo,/ma come una festa senza fine dove il tuo incontro si/rinnovella, come un ballo,/come una danza,/fra le braccia della tua grazia,/nella musica che riempie l'universo d'amore./Signore, vieni ad invitarci.
La vita è fatta di croci piccole e grandi. Quelle che noi consideriamo spesso inutili perdite di tempo mote volte sono le occasioni per testare il nostro amore per Dio e per i fratelli, per capire se davvero abbiamo imparato a vivere in perdita, al ritmo del Vangelo, oppure siamo tenacemente legati alle nostre cose, chiusi nel nostro egoismo e magari perennemente in attesa dell’occasione giusta per amare che, molto spesso, non arriva mai! Signore, vieni ad invitarci! Ogni giorno noi siamo pronti costi quel che costi la nostra vita, fuori dalla tua danza, è solo inutile tappezzeria!