domenica 11 agosto 2013

XII dopo Pentecoste

Una storia che è ad andamento sinusoidale e i vuoti del peccato dell’uomo sono colmati dalla presenza di un Dio Alleato
La storia dell’uomo ha un andamento tutt’altro che lineare! Ci sono stati dei tempi in cui sembrava di galoppare in avanti alla conquista di mete inimmaginabili, attimi in cui sembrava di avere a portata di mano l’utopia della felicità come evento di popolo. Ma fra questi pieni ci sono stati molti, forse troppi vuoti  in cui la barbarie, la violenza, la negazione del Vero e di conseguenza del Giusto e del Bello hanno gettato l’umanità in un baratro di oscurità. Proprio fra questi pieni e vuoti si incide a chiare lettere la Storia della Salvezza. Con uno sguardo capace di penetrare le apparenze ci si può accorgere delle orme che il passaggio di Dio ha lasciato lungo la storia e i tanti vuoti del peccato e dell’ingiustizia sono stati colmati da un amore che ha sempre riaperto la partita, un amore che è Promessa di un’Alleanza che non viene mai meno.
Mi sembra questa la premessa necessaria per provare a sottolineare qualcosa della Parola ascoltata questa domenica da cui emergono come forze contrapposte la violenza dell’uomo e lo sgomento che essa genera e la speranza che Dio continua a seminare fra i suoi.
Il clamore della distruzione del Tempio…2 segni di speranza: il profeta Geremia e il resto d’Israele perché Dio non resta imprigionato tra le colonne del Tempio.
Del Tempio di cui si parla nella prima lettura a noi non rimane pressoché nulla. Il muro davanti a cui oggi si prega a Gerusalemme, il Muro del Pianto, è parte dell’ampliamento voluto nei primi anni del I secolo dal re Erode al secondo Tempio ricostruito dopo la deportazione a Babilonia. Dunque ci è difficile immaginare come fosse; qualche suggestione ce la offre la prima lettura parlandoci delle sue ricchezze trafugate, ricchezze che, come racconta la Bibbia, lasciavano a bocca aperta ogni visitatore. Il Tempio era il centro del culto ebraico, il luogo della memoria dove era custodita l’Arca, la casa dove Dio, grande e inaccessibile, aveva comunque deciso di prendere dimora. Comprendiamo dunque perché la sua distruzione ha generato sgomento e smarrimento: significava la fine di un’Alleanza, l’oscuramento di un passato che rendeva Israele unico, la cancellazione della memoria e forse la dimostrazione che Dio non solo si era allontanato, aveva maledetto la sua eredità ma, come dicono gli empi, che neppure esiste. È la capitolazione di una storia troppo bella per essere vera sotto i piedi dei violenti. Ma se si va appena sotto la superficie di questa vicenda, ad un tratto, trapelano due segni di speranza, come un bandolo di una matassa intricatissima ma, che afferrato, può aiutarci a comprendere verso quale direzione Dio stava spingendo la storia. Il primo segno è il profeta Geremia che, anche se non presente in queste righe, ne è il protagonista. Geremia, in obbedienza alla voce di Dio, facendosi parte di esso, è stato voce di contraddizione per il popolo. Anche pagando di persona non smetteva di richiamare a Israele troppo sicuro di sé la via della Giustizia invitando alla conversione. Ma nei giorni della desolazione, di questa strage, della deportazione non si tira indietro, rimane con la sua gente e annuncia la Speranza, racconta della tenerezza di un Signore che non può dimenticare il suo popolo perché sarebbe come dimenticare se stesso. Ed è proprio da questa dichiarazione di misericordia che Israele può ritrovare anche la sua identità e immaginare un futuro possibile in quella terra che gli è stata tolta. Il secondo segno sono i poveri e gli ultimi che vengono lasciati nella Terra. Per i grandi di Babilonia non contavano nulla  e non meritavano di entrare nei ranghi del regno. Rimangono a coltivare la terra, anello di congiunzione di un passato che è anche presente e promessa di futuro, baluardo che dice di un Dio che non guarda alle apparenze e che fa delle pietre scartate dall’’uomo una costruzione nuova e solidissima; di un Dio che non si lascia imprigionare fra le belle pietre ma che è libero, zingaro, nomade in mezzo al suo popolo e sempre capace di cose nuove.
In un tempo come il nostro, di fronte al crollo di certe sicurezze, davanti allo sgomento per la perdita di senso…
Non voglio forzare la Parola e renderla uno schema con cui leggere il nostro presente, eppure sento che è capace di parlare anche a noi e al nostro tempo, alla nostra storia fatta di pieni e di vuoti molto simili a questo racconto. Avvertiamo ormai che siamo in un tempo di passaggio – di crisi per restare alla lettera – dove non si affaccia ancora con chiarezza l’orizzonte ma sentiamo sulla pelle il brivido per il crollo di tante sicurezze che puntellavano la nostra vita e la nostra società e anche la Chiesa; sentiamo nel cuore il tonfo che sale dalla caduta del Senso della vita che viene smantellato giorno dopo giorno, immolato sull’altare di privatismi e di egoismi. Ora le possibilità sono due: possiamo rintanarci in noi stessi e rimanere alla lunga vittime della paura oppure possiamo metterci in ascolto dello Spirito e chiederci dove sono le orme del passaggio di Dio, di un Dio libero e altro rispetto a noi ma che non si è stancato di scrivere per noi le pagine bellissime della sua storia della Salvezza e che ci sta preparando un orizzonte promettente.

E scopriremo anche noi che Dio abita nel cuore dei profeti. Di uomini e di donne che in modo vero ci stanno graffiando richiamandoci a ciò che conta. Abita fra i poveri che non contano nulla… scrive così don Tonino Bello: “Dio non sempre si lascia incantare da chi sa parlare meglio. Non sempre si fa sedurre dal profumo dell'incenso, più di quanto non si accorga del tanfo che sale dai sotterranei della storia. Desidero rivolgermi a voi [poveri], perché sono convinto che il rinnovamento spirituale può partire solo da coloro che non contano niente”. E ci invita alla conversione, a passare dalla loro parte per ritrovare il suo volto e camminare con lui verso un mondo nuovo. 

domenica 4 agosto 2013

XI dopo Pentecoste

Questa domenica la corsa lungo le tappe più importanti della storia della salvezza ci fa fare sosta sulla figura di Elia il profeta. Elia, pur essendo una figura tratteggiata con i colori accesi della mitologia, è diventato l’emblema del profetismo. In un tempo politicamente difficile – il Regno d’Israele si è separato da quello di Giuda – e buio – il re Acab e Gezabele nel racconto di oggi sono l’esempio evidente della corruzione e del disimpegno della ricerca del bene comune e della Giustizia diffuso nella classe dirigente e dilagante nel popolo – è l’uomo chiamato da Dio a incarnare la sua Parola, è acceso di passione per la Verità anche al costo di pagare di persona, è l’amico di Dio capace di annunciare la consolazione nei giorni della desolazione e di mettere il dito nella piaga del malaffare  e scoperchiare e mostrare l’ipocrisia in tutte le situazioni in cui Israele stava dimenticando l’Alleanza con il Signore. Già qui possiamo raccogliere nella nostra bisaccia di pellegrini un’indicazione spirituale preziosissima. Anche noi , forse come dilettanti o forse con il tratto di un’esperienza maturata lungo la vita, siamo chiamati ad essere profeti, dobbiamo sentire come una nostalgia nel cuore la voce che ci rende segno della presenza di Dio, profumo della sua primavera nella stagione che stiamo vivendo. Perché se è troppo facile lamentarsi per il buio e lo sgomento che ci circondano, molto più difficile è affrontare la storia a viso aperto e richiamare le coordinate del buono, del vero e del bello incarnandole con la nostra vita. Ed eccoci a qualche sottolineatura della pagina di oggi.
È evidente la disparità fra Nabot e il re Acab. Il primo, anche di fronte ad una promessa di ricompensa, forse più preziosa del valore della vigna stessa, non cede l’eredità dei suoi padri, quel lembo di terra che richiama la promessa di Dio di dare una terra al suo popolo. Per Nabot ciò che conta non è il valore ma il significato di quella vigna. In una stagione dove si poteva svendere tutto per denaro, anche la dignità, Nabot rimane ancorato ai suoi principi. Acab invece, che ha confuso il servizio del potere con il potere assoluto, abituato a imporre i segni del potere rimane sconcertato di fronte a questo potere del segno di una vigna trattenuta perché benedizione di Dio. Nabot è diventato un richiamo sfacciato all’oblio della coscienza di Acab che, proprio per questo, acconsente di metterlo a tacere nel peggiore dei modi.
Ed è a questo punto che Elia interviene. Non ha una parola sua da annunciare ma quella di un Dio che lungo la storia del suo popolo si è sempre lasciato impressionare e infiammare dal grido del povero e degli oppressi. Elia ha dovuto imparare lungo la sua vita a non aggiungere nulla di più rispetto a questa Parola, ha dovuto imparare a sue spese a far coincidere il suo pensiero con quello di Dio, ha capito che l’efficacia di un messaggio non sta nel protagonismo ma nel farsi riempire dal mormorio del vento leggero del passo di Dio che cammina in mezzo a noi. Ma per questo rimando alla lettura personale del ciclo di Elia. È proprio dall’ascolto della Parola che nasce la passione per la storia, per il mondo, per la Giustizia. E anche qui mi fermo per raccogliere un’altra indicazione. Chiediamoci se l’ascolto della Parola sta mettendo sui nostri occhi, spesso miopi e tentati di guardare troppo vicino, troppo a noi stessi e ai nostri interessi, le lenti della passione per la storia; se c’è la voglia di lubrificare gli occhi con il collirio della Fede per infiammarsi di passione per i poveri di questo mondo e per tutti quelli che stanno perdendo anche la dignità; se il rispetto che ci porta a piegare le nostre ginocchia di fronte al Crocifisso Risorto è lo stesso per ogni crocifisso che sfioriamo lungo la nostra vita. La passione per la Giustizia senza fede è rivoluzione sterile. Ma la fede senza lotta accanto agli oppressi  è spiritualismo inutile. Insomma, la sincerità dell’Amore è sempre la prova della bontà della nostra Fede.

Ecco perché la Liturgia crea una risonanza alla vicenda di Elia con questa parabola di Luca. Il ricco, di cui non sapremo mai il nome al contrario di Lazzaro, il povero – nella Storia della salvezza è ribaltata la legge per cui il dovere di cronaca appartiene solo ai potenti oppure perché il nome del ricco potrebbe essere benissimo il nostro – è uno che è vissuto nell’indifferenza: questo è l’unico peccato che gli si può imputare. Non ha tiranneggiato sul povero, semplicemente è rimasto sordo alla sua presenza, peggio dei cani che almeno si avvicinavano a Lazzaro per leccare le sue piaghe. E la sua indifferenza ha scavato un abisso che Dio, nell’eternità, non ha potuto non riconoscere. Eppure avrebbe potuto ascoltare anche lui Mosè e i Profeti, o meglio, avrebbe potuto comprendere che tutta la Legge lo stava spingendo verso un orizzonte di Carità. Non è un peccato avere ricchezze, è un problema – troppo ricorrente, è empiricamente dimostrato – se ti allontanano dal mondo dei poveri e ti rendono sordo a chi soffre. Penso dunque che la Parola di questa domenica ci voglia aiutare a cingere un grembiule per servire tutti i poveri che stanno alla porta di casa nostra. Saranno loro un giorno ad accoglierci nel Regno se ci riconosceranno come amici. E fra quei poveri forse scopriremo anche il volto di Uno che ha deciso di occupare per sempre l’ultimo posto. 

domenica 16 giugno 2013

IV dopo Pentecoste

Il ribaltamento dei termini nella lettura della storia della Salvezza: dire che Dio crede nell’uomo è più vero che dire che è l’uomo a credere in Dio. c’è un investimento di fiducia nella sua creatura, un surplus di Grazia che lascia lo spazio sempre ad una possibile conversione. E se è vero che nell’uomo abitano le tenebre, Dio sa scorgere ed evocare anche quel solo piccolo elemento positivo. È un vero e proprio educatore. Fa vibrare la corda positiva, fosse anche l’unica, per scrivere sul pentagramma del suo amore una melodia nuova.
La pagina mirabile di Caino e Abele. Alcune sottolineature come emergono dal testo

-          La nascita dei bambini, segno che Dio non si è stancato dell’umanità.
Dopo la caduta ecco la benedizione. Ogni vita che si affaccia a questo mondo è una scommessa sul futuro, è un segno di benedizione, porta in sé un carico di mistero, ti accorgi, se la guardi con lo sguardo del poeta, che non viene solo dalle tue mani ma in essa si nasconde il desiderio di Dio di continuare a dialogare con l’uomo e a scrivere nel nostro tempo una pagina in più della storia della salvezza.

-          Il male è accovacciato alla porta del cuore: non c’è nessuno di noi che è immune. Il segreto sta nella lotta e nel cercare di dominarlo
Nessuno di noi dica: queste cose non mi riguardano. La psicologia del profondo ci insegna che nei meandri del nostro cuore albergano tutti i vizi e domani possiamo cadere nell'adulterio, nella menzogna, nella calunnia, nell'invidia, addirittura nell'omicidio. Dobbiamo saperlo per non spaventarci e non smarrirci, dobbiamo sapere di avere in noi queste inclinazioni, che sono sempre alla porta anche se per grazia di Dio non abbiamo peccato. Nessuno dica: mi accontento di tenere a bada i peccati e le tentazioni. Non basta, perché se non voliamo alto cadremo, se non ci sforziamo di salire sul monte con Gesù saremo sempre un po' schiavi dei nostri vizi. È legge spirituale inesorabile che se l'uomo non tende più in alto cade più in basso; la tensione spirituale è tipica di ogni cammino di ricerca evangelica.[e]Per questo siamo chiamati a contemplare il volto splendente di Gesù sul monte. Lui solo può darci le ali ai piedi con cui superare le tentazioni gravi e sottili che riguardano l'intenzione profonda del cuore, perché la sua grazia è strapotente. (Carlo Maria Martini)

-          I sangui di tuo fratello…è morto Abele e con lui il mondo intero.
Il dramma dell’omicidio, meglio del fratello che uccide il suo fratello (ma ogni uomo è mio fratello) e di più dell’uccisione del giusto, di chi è innocente, di chi paga in modo gratuito la violenza dell’altro. Il testo letteralmente riporta questa dizione. Non il sangue ma i sangui. Con Abele è morta anche a sua discendenza, potenzialmente il mondo intero. Ecco perché chi salva una vita salva il mondo intero (cit. Schliender List, la scena con la consegna dell’anello con questa frase). Ma al contrario se uccidi un uomo uccidi l’intera umanità.  Ma Gesù ci ha detto che si può uccidere l’altro in tanti modi. Anche l’omissione o il non prendere posizione contro tutto ciò che accanto a noi o appena oltre l’orizzonte del nostro mondo che è chiuso nel suo egoismo e non si accorge che tre quarti dell’umanità sta morendo di fame, di stenti, di miseria. I care…a me interessa. Nelle nostre mani c’è un potenziale di vita e di morte e a noi tocca ogni giorno scegliere a quale dare spazio. E di tutto quello che io avrò compiuto o non compiuto mi sarà chiesto conto (cf. la pagina di Mt 25)

-          Il dialogo di Dio e il segno su Caino: l’incredibile Misericordia
Ma la cosa sorprendente è che ogni vita ha il suo valore e merita rispetto. Anche quella di Caino. Non c’è mai un momento in cui in modo definitivo si possa chiudere la partita della speranza. Spargere il sangue di Caino, anche in nome di una giustizia, significherebbe dare vita ad una spirale infinita di dolore e di vendetta. Per Caino inizia un esodo, un cammino di conversione. Anche per noi non c’è mai il momento in cui possiamo dire che non si può fare più nulla: c’è sempre un oltre di misericordia che ci attende. E se hai gustato nella tua vita almeno una volta la parola perdono comprendi quanto è importante dare libertà e futuro all’altro alle stesse tue condizioni.

una comunità così…una strada alternativa alla violenza. Una strada alternativa alla condanna
La comunità è il luogo del perdono. Nonostante tutta la fiducia che possiamo avere gli uni negli altri, ci sono sempre parole che feriscono, atteggiamenti in cui ci si mette davanti agli altri, situazioni in cui le suscettibilità si urtano. E' per questo che vivere insieme implica una certa croce, uno sforzo costante e un'accettazione che è un mutuo perdono d'ogni giorno.
Per uscire dalla violenza che ci rimbalza ogni giorno addosso e per abbozzare un sentiero di guarigione; per trovare la certezza di essere amato anche nei miei limiti e nei miei peccati e per rimettere la palla al centro per dare le ali al mio fratello che sente che la sua vita si è rattrappita per uno sbaglio; per levare l’ancora dal passato io ho bisogno della comunità.

domenica 9 giugno 2013

terza domenica di Pentecoste

Il lezionario ambrosiano, evidentemente, nel ciclo festivo, non segue la lettura continua di un Vangelo ma piuttosto sceglie dei temi e li propone alla nostra meditazione. In queste domeniche dopo Pentecoste stiamo ripercorrendo, con lo stile di una scorribanda, la Storia della Salvezza o, in altre parole, stiamo osservando come lo Spirito da sempre intesse la trama di comunione fra Dio e l’uomo. E la ricaduta spirituale è triplice:

1 accorgiti che Dio è all’opera sempre sporcandosi le mani con la nostra storia, accettando la sfida del tempo, scegliendo di essere partner affidabile della sua creatura. Il cuore che lo ricerca come terra assetata lo può trovare vicino, molto vicino…basta indossare le lenti giuste.
2 accorgiti che il tuo tempo è benedetto, è prezioso perché è occasione di Grazia. Non maledire nemmeno uno dei tuoi giorni, non considerarlo nemmeno come una pagina vuota di un’agenda da riempire. Oggi è il giorno più bello della mia vita perché, nel silenzio della preghiera, nell’incontro con l’altro, tuffandomi nella profondità del mio cuore, posso scorgere l’architettura promettente di un Signore buono che rende la mia vita un progetto di felicità
3 accorgiti che lo Spirito chiede anche a te di essere con Dio protagonista della storia della salvezza. Dai tuoi sì ne dipenderanno molti altri, i tuoi no sono porte sbarrate al mistero di un Regno che chiede di incarnarsi per l’oggi.

E se settimana scorsa la Parola aveva messo a fuoco il tema della Creazione, quest’oggi siamo invitati a riflettere sul binomio peccato-salvezza proprio da quella pagina paradigmatica che è Genesi 3.
Dio ha creato l’uomo e lo ha posto nel Giardino. La comunione è intensa, ogni sera cerca l’uomo e la donna per farsi loro compagno di strada, il dialogo è serrato, la prospettiva è identica. Ma l’uomo ha scelto questa comunione? Forse questo dubbio attanaglia la mente di Dio. Lui vuole essere amato per quello che è e non per quello che dà, vuole essere scelto e non accettato, vuole la libertà della sua creatura perché non è un idolo e non vuole che a lui si immoli il cuore o l’intelligenza dell’uomo. Ecco il perché di un comando: per suscitare libertà. È la scelta di una pedagogia sottilissima, è una scelta di un azzardo incomparabile. Sappiamo bene come è andata. L’uomo non si è fidato, si è ripiegato su di sé, si è lasciato prendere dalla tentazione di vedere in Dio un nemico, un concorrente, sceglie l’autonomia e la solitudine, preferisce tagliare i ponti con il cielo con l’illusione di spianare una strada più lunga sulla terra. Ma senza la guida delle stelle qualsiasi strada può rivelarsi insidiosa e non conduce da nessuna parte. Il peccato, anche il nostro, prima di essere una questione morale di un male agito contro noi stessi o qualcun altro, è l’occasione mancata, è aver imboccato un vicolo cieco, è aver chiuso il cuore alla nostra identità di creature, è aver smesso di dar voce all’eco della presenza di Dio nella nostra vita.  
E così l’uomo si accorge di essere nudo, prende le misure della sua finitezza, l’essere creatura diventa un ostacolo. Smette di amarsi. E prova vergogna di chi ha accanto e di se stesso. Inizia a guardarsi con sospetto.
Ma soprattutto ha paura di Dio. lo avverte come un nemico da cui nascondersi e fuggire
E infine si scatena una reazione a catena di paradossale deresponsabilizzazione. L’uomo che dimentica Dio dimentica anche il suo compito, si ritrova con una libertà svilita e annichilita…la colpa è sempre di qualcun altro. in effetti il primo passo verso la conversione è sempre prendere coscienza che il male dipende da mee da nessun altro.

Eppure la Parola di oggi non si chiude qui. Perché, qualche versetto oltre, si racconta che Dio confeziona per l’uomo e la donna delle tuniche. Sono il segno che non li abbandonerà e la sua premura per loro non verrà mai meno. La loro uscita dal Paradiso segna il punto di partenza della sua corsa per ricostruire una relazione, per riprendere il sentiero dell’alleanza. Dio è un nostalgico della comunione e si fa cocciuto e non si dà pace finché l’uomo non torna ad arrendersi a lui senza altre scorciatoie. Per questo sceglie di esserci (IHWH, il suo nome, è proprio la declinazione del verbo essere al passato, al presente e al futuro), per questo si farà Emmanuele, Dio-con-noi, un Dio-che-sta. Gesù non avrà paura a scendere nei fossati dove la storia si fa tanfo, non teme di calcare i prosceni molto prosaici della vita dei peccatori, non teme di farsi loro compagno, e soprattutto dà la sua vita per loro proprio perché, di fronte ad un amore così, l’uomo possa smettere di avere paura di Dio e possa scegliere di lasciarsi abbracciare.

Un’ultima nota, come una conclusione. Questo sogno di Dio ha preso forma perché un uomo ha scelto di farlo suo. I sogni dei giusti correggono il tiro della storia di peccato, anticipano le coordinate del Regno. Andiamo alla ricerca dei profeti per metterci in ascolto dei loro sogni. Diamo spazio ai nostri sogni più autentici per essere una caparra di un mondo dove l’alleanza fra il cielo e la terra segna l’inizio di un mondo nuovo.

domenica 19 maggio 2013

Pentecoste

Mi chiedi chi è lo Spirito…e io ti chiedo di aprire gli occhi, di indagare oltre l’apparenza, di non pensare che la realtà di riduca alla banalità di una formula razionale. Riposa per un attimo nella prospettiva del poeta che sa cogliere il tutto in un frammento, chiedi al profeta il suo cannocchiale che rende a portata di mano il futuro. E allora capirai non solo chi è lo Spirito ma ti accorgerai che è la forza che muove il mondo e, oltre i naufragi apparenti che dimorano sulla superficie, è la corrente sotterranea che ci sta portando verso il Regno.
Mi chiedi come fai a trovare queste lenti per vederlo all’opera…me lo chiedi perché i tuoi occhi si sono fatti miopi e ti sembra di dimorare in un tempo in cui prevale la disperazione, l’amarezza, la paura, il disincanto che ti ha fatto scordare le illusioni e non ti permette di scommettere più su nulla… La Parola di oggi è il sestante che ti permette di individuare la presenza dello Spirito, è come una grammatica per darti le coordinate del suo agire. E allora ti accorgerai che, ieri come oggi, lo Spirito è fuoco che scioglie il gelo del cuore e fonde ogni durezza; è vento che spinge la vela della tua vita; è colomba e sotto le sue ali trovi riparo; è sorgente freschissima che disseta la tua traversata nel deserto della vita.

-          Spirito è la Speranza che irrompe proprio quando il gioco sembra essere arrivato alla fine. Spirito è sorpresa, Spirito è capacità di rompere separazioni e costruisce ponti.
Questo me lo suggerisce la lettura di Atti. Erano chiusi in quel cenacolo, rattrappiti in paure e forse nella paura più grande, quella di aver buttato via la vita dietro ad un inganno. Al tramonto di un giorno che solo in apparenza era uno da aggiungere allo scorrere ineluttabile del tempo, in una stanza chiusa, lo Spirito sobbalza le loro coscienze. Al tornello della loro disperazione, Dio si dà nuovamente appuntamento con loro, proprio in un luogo e in un tempo che non immaginavano. Perché è proprio di Dio scrivere una riga in più quando noi mettiamo un punto definitivo su alcuni capitoli della nostra esistenza. E da quella stanza escono con un coraggio rinnovato. Parlano anche altre lingue. Ogni uomo deve sentire la Speranza che è rifiorita. Il muro che li separava dal mondo ora si fa ponte che li pone in comunicazione con tutti.
Quando senti che è finita, quando pensi di aver svenduto anche l’ultimo fiammifero che ti poteva scaldare è allora che lo Spirito entra nella stanza della tua disperazione e ti mette le ali. Quando hai voglia di barricarti dietro alle tue convinzioni e pensi che non ci sia più nulla o nessuno di buono per cui giocarti allora lo Spirito ti impone di andare oltre le tue stesse forze e trama con te una storia nuova di comunione.     

-          una Chiesa secondo lo Spirito è la casa dove la diversità è segno di bellezza.
È Paolo nella sua lettera ai Corinti a dirlo. Una volta che nella comunità si dà la comunione nella fede e ogni tuo fratello riconosce in Gesù il Signore, non devi avere più paura della diversità del tuo fratello: le differenze diventano varietà dei carismi e dei doni. E a te non è tolto nulla ma la ricchezza dell’altro, partecipata a te, rende anche te più ricco. La comunità è come i colori dell’arcobaleno: è lo steso raggio di luce che si fraziona in essi. La comunità è come una cordata: si è tutti in salita verso una meta unica ma ognuno ha il suo ruolo e non è vero che guida è più importante di chi sta nel mezzo o di chi deve chiudere. Quando nella comunità prevale l’omologazione che ti impone la maschera, quando in nome dell’unità si svilisce la diversità, quando non si sa più valorizzare il carisma anche del più piccolo dei fratelli, quando, per gelosia, si corregge con tono moralistico chi ti cammina accanto solo perché non comprendi il suo dono, allora impoveriamo la Chiesa e le imponiamo un respiro decisamente corto e affannato.

-          Lo Spirito rende presente in noi il Padre e il Figlio, lo Spirito lotta per noi, in noi e, talvolta, contro di noi per difendere la nostra chiamata ad essere come Gesù in tutto.
Questo brano di Giovanni, contestualizzato nel Cenacolo, durante l’Ultima Cena, racconta di cosa Gesù ci lascia ritornando al Padre: il comandamento dell’Amore. Amare l’altro e amare l’Altro sono il segno di chi ha conosciuto lui. Ma Gesù ci lascia anche chi ci prende per mano e ci guida su questo cammino tutt’altro che semplice: lo Spirito appunto. Quando nella tua vita senti una forza che ti spinge a fare come Gesù, a non consumare cioè nella banalità i tuoi giorni, una voce che ti suggerisce di fare tutto in sua memoria, quando senti lavorare in te l’Amore e senti la forza di resistere allora lo riconosci: è lo Spirito appunto. E allora ti accorgi che non sei  tu a remare ma tu sei vela su cui soffia lo Spirito e così le cose più belle non le hai guadagnate con i tuoi sforzi ma sono doni che ti vengono messi proprio da lui fra le mani. E qui il pensiero va a chi ogni giorno incontro sulla mia strada, uomini e donne che sono veri e propri capolavori dello Spirito; ogni volta che canto che i cieli e la terra sono pieni della tua Gloria mi appaiono i loro volti: sono quelli che amano facendosi dono anche quando l’altro non lo merita, sono storie di madri e padri, storie di figli; sono i malati che fanno della loro sofferenza strumento di salvezza per qualcuno proprio come Cristo in croce; sono quegli educatori che si accorgono che dalla debolezza può nascere qualcosa di grande e partono dai più piccoli per ridisegnare il futuro del mondo.

domenica 12 maggio 2013

settima di Pasqua

La scelta liturgica di riportare la data dell’Ascensione al giovedì della VI settimana di Pasqua, a 40 giorni dalla Risurrezione, non solo ci fa ripercorrere la precisa scansione del tempo secondo il racconto del Nuovo Testamento ma ci permette in questa domenica di sostare ancora sul significato dell’Ascensione prima di avviarci alla celebrazione della Pentecoste.

L’Ascensione al cielo è la metafora che Luca utilizza per dire che Gesù ha smesso di apparire e di istruire i suoi e che è tornato alla gloria del Padre, lì da dove il suo Mistero ha preso forma. Nessun passaggio della sua vita è stato casuale, nemmeno la croce; nulla è stato un incidente di percorso, un qualcosa di non voluto, ma era parte del tracciato di una parabola che profumava d’amore: proprio per amore Dio ha deciso di farsi uomo, per amore ha camminato sulle nostre strade, ha permesso che la polvere della terra sporcasse i suoi piedi, per amore a un certo punto ha deciso di ritrarsi e di consegnarsi, per amore il Padre lo ha risuscitato perché il seme morendo, spezzandosi, soffrendo doveva portare frutto.

Sotto un’altra prospettiva poi l’Ascensione ci rivela che Gesù è un vero maestro, uno che intuisce che ad un certo punto bisogna ritrarsi e sparire perché il discepolo possa camminare sui suoi piedi e percorrere un tratto di strada più lungo. Ho letto da qualche parte che:
i figli sono come aquiloni, passi la vita a cercare di farli alzare da terra. Corri e corri con loro fino a restare tutti e due senza fiato. Come gli aquiloni finiscono a terra, e tu rappezzi e conforti, aggiusti e insegni. Li vedi sollevarsi nel vento e li rassicuri, presto impareranno a volare. Infine sono in aria: gli ci vuole più spago e tu seguiti a darne e a ogni metro di corda che sfugge dalla tua mano il cuore ti si riempie di gioia e di tristezza insieme. Giorno dopo giorno l'aquilone si allontana sempre di più e tu senti che non passerà molto tempo prima che quella bella creatura spezzi il filo che vi unisce e si innalzi, come é giusto che si sia, libera e sola Allora soltanto saprai di avere assolto il tuo compito.
Il discepolo ha fra le mani la cassetta degli attrezzi riempita di tutti gli strumenti necessari: ora toccherà a lui scegliere quali utilizzare per essere fedele a quel Vangelo che lo ha avvinto. E dovrà farlo con tutta la creatività necessaria.

La Parola mi sembra ci consegni almeno tre indicazioni per non smarrire la nostra verità di discepoli e apostoli, pellegrini chiamati a fare di Gesù la nostra vita per l’oggi, gettati nella storia per viverla come uomini avvinti dalla buona notizia.

1 avere la testa fra le nuvole. L’idea me la suggerisce Stefano nella lettura di Atti…mentre lo accusano, gli si lanciano contro, lo uccidono, tiene fisso lo sguardo al Cielo. Credo che il discepolo debba portare dentro di sé una nostalgia profonda per il Cielo. Di tanto in tanto ci dovrebbe afferrare la malinconia, ma che in realtà è un desiderio, di poter vedere il volto di Gesù, di un giorno in cui la storia arriverà non alla sua fine ma al Fine che è l’incontro con un Signore buono che è tenerezza, perdono, misericordia. Ma non solo: avere la testa fra le nuvole significa avere la capacità di relativizzare ogni cosa sul parametro dell’eterno. C’è un relativismo che è dannoso ma ce n’è uno che ha ispirato la gioia dei santi, che ha smosso le follie degli uomini di Dio che profumavano di futuro e che agli occhi dei loro contemporanei erano solo dei perdenti. Infine, avere la testa fra le nuvole significa per il mondo inseguire un’isola che non c’è, lottare per un’utopia, avere una smodata passione per la poesia. Ma agli occhi di Dio significa darsi il parametro del Regno che già ora fiorisce sulla terra.

2 Testa fra le nuvole…ma piedi ben saldi a terra. Il credente, lo dicevamo prima, avanza di un miglio in più rispetto a chi lo ha preceduto perché asseconda la dinamica di un Regno che, pur se non ancora in modo definitivo, già cresce. E l’oggi attende uomini non disincarnati ma profondamente legati a questa terra, che, pur sapendo di non appartenerle, si sentono in dovere di lasciarla più bella di come l’hanno trovata. Uomini discepoli di un Maestro che si è incarnato nella storia e che ha continuato a incarnarsi sporcandosi sempre di più le mani con la storia. Il credente dunque parla di politica e magari la fa con il piglio di chi vuole servire, lotta per un’economia che sia etica, che non uccida la dignità dell’uomo, si interessa della sua città e non si tira indietro se qualcuno bussa alla sua porta, abbatte il muro dell’indifferenza perché sa che ogni uomo è suo fratello e ognuno ha diritto a piazzare i paletti della sua tenda nel suo cuore.

3 e infine, in particolare mi riferisco al Vangelo, il Maestro ci mette fra le mani un’altra consegna, luogo che deve diventare sempre più evidenza della nostra sequela a lui: la comunità. Una comunità e non semplicemente un gruppo perché la prima ha la forma della cordata mentre nel secondo c’è solo una meta comune e poco importa se ci si arriva assieme! Una comunità che deve portare come marchio di fabbrica quello brevettato a Casa Trinità dove i diversi si amano e l’uno è per l’altro; una comunità dove non posso pensare alla mia felicità senza quella dell’altro, dove accolgo l’altro non nonostante i suoi limiti ma a partire da questi, dove smaschero la mia debolezza nella certezza di essere amato per quello che sono, dove i piccoli sono realmente il cuore, la motivazione che attrae ogni scelta.

domenica 14 aprile 2013

terza domenica di Pasqua

Le letture di questa terza domenica di Pasqua – non dopo Pasqua, ricordiamo che la Liturgia ci sta facendo vivere quest’arco temporale come un unico grande giorno, un giorno di gioia perché questo è la caratteristica identificativa del credente – sono state sapientemente correlate e proprio nel loro insieme si coglie l’indicazione per il nostro cammino di fede.

Partiamo dal brano di Vangelo. Giovanni contestualizza i capitoli 7 e 8 del suo Vangelo a Gerusalemme e in particolare nel Tempio durante la festa delle Capanne, una settimana intera di riti e di preghiere con al centro le simbologie dell’acqua e della luce, per ringraziare Dio per la sua Provvidenza tangibile nell’abbondanza del raccolto, una prossimità non venuta meno anche nell’ora dell’Esodo lungo il cammino nel deserto, quando il popolo doveva stare sotto a delle tende, a delle capanne appunto. In questa festa era fortissimo il rimando all’attesa messianica, quando il tempo sarebbe arrivato alla sua pienezza, giorni in cui Dio preparerà una tavola con un banchetto squisito. Basta solo questo richiamo per comprendere la posizione di Gesù in questo dialogo che assomiglia, per la durezza delle posizioni di chi gli sta di fronte, ad un processo. Lui è la vera luce, lui è il compimento delle promesse, lui è l’acqua che disseta, lui è il segno della premura del Padre, lui è la certezza di una gioia che nasce dalla riconciliazione, lui è parametro di un mondo nuovo. Provo a sostare sull’immagine della luce. La luce, come quella dell’alba, avanza progressivamente e, mentre cresce, riesci a cogliere i contorni di cosa ti sta attorno e di chi ti circonda. La verità che si rivela ha proprio questo avanzare progressivo. Dio non si impone mai, non fa mai violenza alla libertà della sua creatura, e di lui solo poco a poco puoi cogliere i tratti del suo volto. C’è una dinamica, un movimento di progressivo avvicinamento di Dio a te. La fede non è adesione ad un sistema rigido. Ma anche il tuo progressivo cammino di affidamento e di scoperta di una nuova prospettiva sul mondo e su di te. La fede conosce dunque anche gli stalli, le brusche frenate, i passaggi in cui sembra di aver smarrito le coordinate. Ma alla luce si può anche opporre resistenza, ci si può sottrarre. Se io sigillo le finestre della mia casa la luce anche del sole d’estate non potrà entrare. Io posso rintanarmi nelle mie posizioni, non lasciarmi dire da Dio, preferire il mio orizzonte al suo, posso arroccarmi nel mio modo di vedere le cose. È proprio quello che accade a questi uomini che hanno già pronunciato una condanna, che preferiscono il loro sistema, hanno rifiutato la testimonianza di Gesù e hanno deciso di escluderlo dal loro mondo perché il suo Vangelo è troppo inquietante, ha la pretesa id ridisegnare i confini dell’uomo e del mondo nella logica della povertà e del servizio che non si risparmia per amore in nulla. Il loro no, sappiamo, diventa violenza cieca, grido che mette a tacere il Vangelo, esclusione di Gesù, giudizio impietoso senza essersi lasciati interrogare. E Gesù accoglie come un seme che deve cadere in terra e morire il loro giudizio. Si lascia mettere fuori, escludere, sapendo che l’amore, per essere vero e credibile, non può non comprendere anche la dimensione della sofferenza e del dono definitivo di sé.

Ma proprio qui si innesta il contributo del racconto di Paolo a Roma in Atti e della sua Lettera ai Romani. Quel seme, quella testimonianza solo in apparenza naufragata nel fallimento, ora fiorisce nel cuore del mondo di allora, a Roma. C’è un percorso carsico che è proprio della storia della fede: quando sembra che tutto sia finito, che non ci sia più spazio per il futuro della fede, il Vangelo esplode con forza oltre un confine inimmaginabile. Perché basta un solo discepolo che accoglie la Parola e si lascia avvincere permettere mano alla rivoluzione della storia. E anche questo rifiorire della Parola è presagio della risurrezione! Paolo sa sfruttare la sua condizione di prigioniero agli arresti domiciliari per non tacere il Vangelo ma per annunciarlo a tutti quelli che lo vogliono conoscere e incontrare.  Anche Paolo darà la sua vita, ricalcherà le orme del suo Maestro e anche lui sarà seme che muore, pronto a consegnare la sua testimonianza a qualcun altro. E così la corsa della fede non si è mai arrestata e bussa al nostro cuore proprio questa sera.

Una Parola così ci interroga anzitutto sulla nostra fede. Come mi pongo di fronte alla luce che è Gesù. Io posso sottrarmi come lasciarmi conquistare. La vita, soprattutto quando si accumulano le frustrazioni o il disincanto fa da padrone, può progressivamente ripiegarsi e chiudersi. A volte capita di masticare rabbia e amarezza e convincerci che in noi e attorno a noi non cambierà mai nulla. Credere nella risurrezione, come stiamo dicendo noi stasera, ci obbliga però al contrario. Se lasci che la luce entri nelle zone d’ombra del tuo cuore, negli angoli più sigillati, se lasci che la logica del Vangelo sia un raggio anche nelle retrovie di questa storia allora dai il via ad una rivoluzione che sovverte i parametri del mondo, ma del tuo innanzitutto!
Non avere paura a raccogliere fra le mani il testimone della fede. La testimonianza, quando è giocata in autenticità, quando è coerente, quando incrocia la vita e la interpreta sul serio, è una sorgente che disseta. Magari non te per primo ma sicuramente qualcuno che ti sta accanto. Ogni parola vera, ogni lacrima versata per il Vangelo, ogni scelta, anche quelle più semplici, vissute per non tradire il Signore non andranno mai perdute ma sono in potenza un mondo nuovo.  E così anche tu diventi luce per qualcuno. Seme che per amore si abbandona alla terra ma che presto rivivrà in evidenza limpida!

domenica 7 aprile 2013

domenica dell'Ottava - in albis depositis

Una visita che si fa appuntamento e squarcia ogni possibile sclerotizzazione del quotidiano
Era il primo giorno della settimana. Un giorno feriale, assolutamente immerso nella prosa, come per noi, quando è dura riprendere la corsa delle cose ordinarie. Era anche il giorno dopo la grande festa della Pasqua che in quell’anno era ancora più solenne visto che coincideva con il sabato. Un giorno gravato ancora di più dallo spegnersi delle illusioni, dall’amarezza e dal rimorso scottante di aver abbandonato l’amico, in cui fare i conti con i propri limiti insormontabili e con la paura di dover adesso rendere conto a un sistema politico e religioso implacabile con chi, come loro, si era permesso di dissentire. Le porte chiuse del cenacolo sono l’immagine di tutto questo groviglio di sentimenti. E proprio nel cuore della loro notte il Crocifisso-Risorto prende l’iniziativa di farsi incontrare, di darsi ancora appuntamento, di non lasciarsi sfuggire quegli uomini e quelle donne che si era meticolosamente raccolto con parole inedite, gesti di assoluta tenerezza, promesse di orizzonti eterni, uno ad uno negli anni della predicazione in Israele. E la feria si fa festa, l’ordinario straordinario, il ripiegamento è squarciato, la ferita diventa feritoia. Non è il settimo giorno, è l’ottavo giorno, uno in più rispetto alla cadenza settimanale, un’eccedenza che ci fa poggiare il piede nella dimensione dell’eterno che la nostalgia del cuore invoca da sempre. E quell’appuntamento si compie ogni otto giorni e quella corsa non si è mai interrotta. Anche oggi, in questo primo giorno dopo il sabato, Gesù è qui, è presente, lo sente il nostro cuore anche se gli occhi non lo vedono. Ha per te una Parola, si rende uno di noi  con la nostra preghiera, spezza il Pane e si consegna a te per raccontarti un amore che non ha confini, una tenerezza infinita perché tu sei prezioso, solleva il tuo sguardo e inaugura da qui percorsi di santità inimmaginabili! Se la messa fosse vissuta come appuntamento e non come precetto…se ti accorgessi della luce che passa da questi minuti che trascorri qui…se solo comprendessi che c’è un’azione che lui compie per primo e che noi siamo chiamati a seguire, come una danza a cui siamo invitati! Proprio non sa chi non viene a Messa cosa si perde! Non ci è più permesso sclerotizzarci nel quotidiano. Non esiste più un’ora del nostro tempo che non porti un’orma di eterno. I tuoi giorni sono visitati dalla compagnia del Signore Risorto. Leviamo il vestito della tristezza e mettiamo quello della gioia. La gioia, che non è allegria e che spesso nasce dalla croce, lo sappiamo bene, contraddistingue il cristiano.

Le parole del Risorto…parole di tenerezza e di pace
Come deve essere il tono della vita del credente ci è detto nelle consegne che il crocifisso-risorto rivolge ai suoi in quel cenacolo. Pace perché la parola definitiva di Dio, il suo giudizio per la tua vita, dall’ora della croce, è perdono. Sai a che prezzo sei stato amato e da questo amore puoi riprendere a scrivere la grammatica della relazione con te stesso e con gli altri. Io mando voi: il discepolo si fa apostolo, ha fra le mani una Parola non tanto da portare ma che lo porta in ogni angolo del suo mondo, anche lì dove si crede non ci sia nulla più da fare, perché lo anima la convinzione profonda che il Signore ribalta anche le pietre più pesanti e ogni sepolcro sigillato è disabitato ed è questa parola di rinascita che il deserto del mondo attende. Il dono dello Spirito, del maestro del cuore, di Chi rende presente l’Assente e ti spinge ad andare sempre oltre. Il perdono. C’è una tenerezza infinita che devi custodire nella tua vita e che devi annunciare ad ogni uomo.

La sostenibilità del dubbio. Tommaso esce dalla comunità. Il risorto lo riprende
Ma in quella comunità non c’è solo Pietro che riprende ad essere riferimento, non c’è solo Giovanni e il suo sguardo profetico. C’è anche Tommaso, il discepolo tutto d’un pezzo – così ci appare nei passaggi del IV Vangelo che lo vedono protagonista – che non sente più la necessità di restare dal momento che il Maestro ha tradito le sue attese e, ai suoi occhi, quel gruppo rischia di essere solo un’accozzaglia di perdenti. Il discepolo del dubbio radicale, del disincanto fino alla pedanteria. È difficile di per sé restare nei ranghi della religione, credere che Dio, l’Oltre per definizione abbia scelto un Popolo e con lui abbia stretto Alleanza, ma credere che un crocifisso, un naufrago, un perdente, sia stato risuscitato nell’ora della storia è impossibile perché sarebbe ammettere che il Maestro di Nazareth era davvero il Figlio di Dio, sarebbe ammettere che davvero il suo fallimento in realtà è stato il Segno della Rivelazione. Ed è proprio nello stallo di questa crisi che il Risorto lo raccoglie. Non lo rimprovera. Come immagina Caravaggio, anche lui esponente della Chiesa del dubbio, nel suo quadro, gli prende la mano e con dolcezza gli fa toccare le ferite che non sono un errore ma una necessità di amore. Tommaso sarà il discepolo che percorrerà più di tutti la strada dell’annuncio. La tradizione vuole che sia morto martire in India.

La fede e le sue crisi. Restare per guadagnare un altro miglio nel cammino e scrivere il Vangelo oggi con la tua vita
La fede non è mai un cammino in salita ma conosce passaggi scoscesi, in ombra, in sentieri a volte mai battuti da altri perché è la tua esperienza personalissima della relazione con Dio. Non dobbiamo avere paura di sedere, almeno qualche volta, ma c’è chi ha un posto prenotato sempre, nella Chiesa del dubbio. Il confine fra fede e dubbio, fra luce e tenebre del cuore è sottilissimo e il Signore non bada a certe sfumature, anzi, si fa trovare al crocevia anche delle tue domande ma senza darti facili spiegazioni, senza darti astruse dimostrazioni che farebbero perdere a te la dimensione della libertà e a lui quella di una pedagogia che suscita e chiede fiducia. Ti chiede di restare, di non lasciare i tuoi compagni, di aprire gli occhi e guardare oltre l’evidenza perché c’è un essenziale che non cogli se non con lo sguardo del cuore. E così avrai guadagnato un altro miglio.  

sabato 30 marzo 2013

Pasqua

Mistero della Pasqua
In questi giorni ho fatto compagnia a un Naufrago e ad un Fallito. La sua Verità è stata rifiutata e lui, scomodo a troppi, è stato cacciato fuori, è stato ucciso. E questo nel silenzio di chi aveva camminato con lui e anche sotto ad un cielo inspiegabilmente chiuso, buio come la notte, pesante come il vuoto. Eppure non aveva perso la sua libertà. Il naufragio e il fallimento sono stati una scelta perché c’è una logica che è una costante in tutta la trama della storia della salvezza: quando Dio si rivela sempre sceglie la parola della debolezza e della piccolezza. E questo per sconvolgere i nostri parametri intrisi di potere, avere e apparire, o forse soprattutto, per ritrarsi e fare spazio alla libertà della sua creatura per stringere alleanza. La croce è solo la controfaccia della Risurrezione, l’uno perde senso senza l’altra.

Il buio e la luce
E nel suo naufragio e nel suo sprofondare ho ritrovato la mia umanità, senza maschere, la mia verità di uomo impastata di ferite, ombre, continue inversioni per sottrarmi alle mie responsabilità. Ho ritrovato la mia solitudine, uno ad uno i miei fallimenti . Ma lui mi ha insegnato a rileggermi in una nuova luce: le mie ferite possono diventare feritoie di luce se solo mi lascio amare fin a quel punto. I miei fallimenti, se vissuti per amore, come lui, sono il buon seme che muore per dare frutto. Nelle sue piaghe ho anche intravisto il mondo dei crocifissi: uno ad uno, come fantasmi, sono apparsi alla mia mente. Erano i ragazzi delle nostre strade che pagano la cifra dell’inettitudine degli adulti con la moneta della solitudine; sono i bambini rom che con qualche adolescente andiamo a trovare da qualche tempo e che partono con la tara di essere degli esclusi dal mondo di noi gente perbene; sono gli orfani di Sarajevo, vittime di seconda generazione della violenza cieca dell’uomo; sono i piccoli carcerati a cui il papa ha lavato i piedi; sono tante donne e tanti uomini per cui il venerdì santo non è mai tramontato. Eppure un raggio di luce nuova oltrepassa lo spessore delle nuvole e ci dice che fra tutti questi feriti c’è anche lui, il Guaritore ferito, che lui ha voluto prendere dimora fra loro e che il mondo, se vuole farsi nuovo, deve necessariamente ripartire dagli ultimi ma non per renderli oggetto della nostra assistenza ma soggetto attivo della nostra rivoluzione.
Le tenebre sono scomparse, messe in fuga dall’eterno Signore della luce!

La Parola nuova
Quest’oggi arriva l’eco di una Parola nuova. Abbiamo visto il Risorto. Una Parola solo in apparenza fragile, senza la scorta così necessaria per i razionalismi dell’uomo, eppure così densa di verità che ha varcato la corsa dei secoli. Non poteva non essere così. Perché quella comunità era prostrata dai suoi tradimenti e dallo scandalo della croce, aveva già deciso dimettere un punto definitivo su Gesù di Nazareth, pesante come la pietra tombale del sepolcro. Ma a poco a poco si è impadronita di loro la certezza che la storia di Gesù era una storia d’amore e che Dio non poteva metterla a tacere. Poco a poco hanno saputo rileggere il disegno dell’incontro con il loro Maestro e hanno saputo trasformare la linea spezzata in una parabola che tocca il fondo ma per riprendere lo slancio dell’altezza. Poco a poco hanno compreso che il seme deve morire per dare frutto e che l’ora della storia che avevano avuto in sorte di abitare era quella dell’evento cruciale di tutta la storia della salvezza. Poco a poco hanno ripercorso le parole del loro maestro e i loro occhi si sono aperti su di lui che di nuovo aveva ripreso a camminare con loro. E hanno creduto. E per lui anche loro hanno avuto la capacità di dare la vita. questa è Parola nuova, sottile, fragile  ma che fa da parametro di discernimento per restituirci speranza e per trasformarci da cinici disincantati in poeti che profumano di primavera.
Nella rapida corsa di un’unica notte si avverano annunci profetici di vari millenni.

La fontana zampillante
Abbiamo trovato così la via per la sorgente. È appena dietro il viottolo dei nostri limiti. È il Risorto. Acqua che disseta, acqua che ridona vita, acqua con cui riempire il nostro catino per lavarci i piedi gli uni gli altri: fra noi, perché il marchio di fabbrica della comunità cristiana deve essere il servizio, l’accoglienza, il perdono; acqua per lavare i piedi a tutti i poveri del mondo perché solo la logica del servizio incarna l’annuncio della risurrezione.
L’acqua ci fa nascere a vita nuova.

Il Pane presenza del Risorto
Siediti a tavola adesso. Se vuoi incontrare il Risorto non tirarti indietro. Lo ha promesso lui: fate questo in memoria di me. Lo incontri ancora adesso fragile e buono come il Pane, spezzato in segno di totale arrendevolezza perché lo possa accogliere senza paura; principio di comunione con lui e fra noi. Ma fate questo in memoria di me significa che la trama della sua storia ora può diventare la tua. E anche tu puoi dire il Risorto facendo della tua vita un dono.

Infine perché tutto il Mistero si compia il popolo dei credenti si nutre di Cristo!    

domenica 24 marzo 2013

Domenica delle Palme

l’ingresso: non una meta ma una tappa di passaggio.
Mi hanno sempre colpito del racconto che abbiamo appena ascoltato gli elementi di assoluta provvisorietà , quasi di precarietà. E così di tutta questa domenica che cade a sei giorni dalla Pasqua. Le voci di osanna che si trasformeranno in urla feroci e violente; un trionfo che diventerà solitudine e morte, fra le più infamanti. L’ingresso a Gerusalemme non è una meta ma una tappa di passaggio che però Gesù vuole vivere.
È la conquista di un cammino che segnato dalla debolezza e dalla piccolezza, scelta accurata perché sa che Dio parla attraverso il linguaggio del fallimento e del nascondimento. Ecco perché decide di incarnare la pagina di Zaccaria e cavalca un asinello. Non asseconda mai, nemmeno per un attimo, la logica del potere e dell’apparenza. Forse chi gli è accanto, e aspetta da un attimo all’altro la rivoluzione e il riscatto violento dall’oppressione e dal male, rimane spiazzato, abituato a vedere ben altri cortei trionfali sfilare alle porte di Gerusalemme soprattutto nei giorni di Pasqua.   
Entra nella città. Non si tira indietro, non si ritira dalla mischia, decide di stare dove l’uomo vive,  lo salva dove viene cucita la trama della sua vita.
Entrare significa attraversare ma non tanto da un punto al suo estremo quanto piuttosto dall’alto al basso, scendere nella sua profondità. A Gerusalemme Gesù scorge storie di santità ordinaria, sfiora con la sua presenza quella di uomini e donne che cercano di vivere la Parola, piccoli che non hanno tradito l’Alleanza, vite spesso ordinarie, racconti che non fanno cronaca ma che spandono il buon profumo del Vangelo, fedeli alla vocazione degli inizi, capaci di incarnare le attese e le sofferenze di un popolo intero.
Gesù però incontra anche nodi di peccato, umanità ferita e chiusa su se stessa, ombre in cui ci si è ggomitolati, memorie ferite, tensioni da stemperare e da riconciliare, comunque figli da incontrare e sui cui poggiare la mano della tenerezza del Padre.
E infine Gesù attraversa scenari di ipocrisia, passa anche in mezzo a chi dice di essere depositario del sapere, interprete del volere di Dio, custode della Parola e della Legge ma che non si interroga più, ha sclerotizzato la sua fede, non la trasforma in carità, nel suo cuore si è affievolita la domanda. orse erano lì su quella strada, anche loro pronti ad acclamare presi dall’entusiasmo per poi giudicare oppure spiavano dalle loro postazioni ben arroccate per non prendere parte fino in fondo, abituati sempre  a non mettersi mai in gioco. Entrare nella città però è stato per Gesù anche l’obbligo di essere coerente alla sua vocazione di scendere in mezzo alla sua gente, di essere proprio come loro, mai al di sopra, di assecondare l’esigenza di farsi parte di un popolo, di profumare di popolo, di ascoltare un grido e di essere lì, incarnato, di esserci all’indicativo presente!
A Gerusalemme Gesù lancia la sfida al potere, non teme di andargli incontro, non ha paura di gettare luce nell’incoerenza e nella distorsione politica e religiosa del suo tempo. Sa che quell’ingresso è una sfida a chi già gli aveva lanciato l’intimidazione e voleva che cambiasse rotta, direzione, che rientrasse nei ranghi del sistema, che smettesse di incarnare un annuncio rivoluzionario di amore a Dio e al povero. Così scriveva mons. Romero “Uno non deve mai amarsi al punto da evitare ogni possibile rischio di morte che la storia gli pone davanti. Chi cerca in tutti i modi di evitare un simile pericolo, ha già perso la propria vita”.
E infine nella città rimane protagonista nel cappio dei tradimenti: dà la sua vita per amore, scardina la violenza con il linguaggio del servizio e del perdono.
1 Uomini vanno a Dio nella loro tribolazione, piangono per aiuto, chiedono felicità e pane, salvezza dalla malattia, dalla colpa, dalla morte. Così fan tutti, tutti, cristiani e pagani.
2 Uomini vanno a Dio nella sua tribolazione, lo trovano povero, oltraggiato, senza tetto né pane, lo vedono consunto da peccati, debolezza e morte. I cristiani stanno vicino a Dio nella sua sofferenza.
3 Dio va a tutti gli uomini nella loro tribolazione, sazia il corpo e l’anima del suo pane, muore in croce per cristiani e pagani e a questi e a quelli perdona.

La liturgia durante la settimana autentica gioca su un doppio livello di prospettiva.
Quella storica e quella sintetica di chi sa che il Signore è già risorto e che la sua croce è strumento di riconciliazione e punto di inizio di un modo nuovo di intendere Dio e l’umanità.
Sentiamo che Gesù sta bussando alla porta della nostra città e desidera attraversarla.
Non teme i confini, li valica e si posiziona dove anche l’uomo di oggi soffre e la sua dignità viene calpestata
Non teme i nostri confini, valica anche le zone d’ombra del nostro cuore e lo fa gettando una luce di verità ma perché possiamo scegliere di dargli la mano.
Ti dice che anche tu sei chiamato a incarnarti come ha fatto lui, chiamato ad attraversare la città con il suo stesso stile. Ma al solo prezzo di farti spettatore della sua Pasqua.

domenica 10 marzo 2013

quarta di quaresima

Siamo oltre la metà di questa traversata nel deserto che è la Quaresima. Il deserto, per la Parola, non è solo luogo di difficoltà e di stenti: è spazio in cui Dio rivela il suo volto, è il luogo del fidanzamento, dei grandi sogni, forse delle illusioni, comunque luogo di promesse che riempiono di senso i tuoi giorni.
La proposta della Parola che ha segnato le tappe di questo cammino nasceva, nella Chiesa antica, come un itinerario di illuminazione soprattutto per chi avrebbe dovuto ricevere il Battesimo nella notte di Pasqua.
Per noi che abbiamo già ricevuto la fede questo cammino è un appello profondo perché non smarriamo la nostra vocazione ad essere figli. Sappiamo infatti quanto la vita è complessa e quanti nodi possono stringere la nostra libertà e rattrappirla come le ali quando si spezzano. Sappiamo che spesso ci troviamo al bivio di scelte che possono compromettere i sogni e svenderli. Sappiamo che è sempre in agguato il rischio che si affievolisca la passione per la Verità e che si sclerotizzi la voglia di essere autentici. Quaresima è dunque conversione ma che, più per sforzo moralistico,  nasce dalla nostalgia profonda, dalla voglia di tornare a bere con le mani non più a cisterne che sporcano l’acqua ma direttamente alla sorgente. I no che trovi il coraggio di dirti in questo tempo sono tutti in vista di un sì, sono la premessa per una vita diversa, più bella.  
Per questo mi piace considerare questi Vangeli come appuntamenti in cui la Parola ti mette con le spalle al muro e getta su di te la luce che ti permette di vedere con chiarezza in quali passaggi la tua libertà si è imbrigliata, a quali ceppi il tuo piede è rimasto legato. Oggi le parole di questo racconto di guarigione vogliono liberare il tuo sguardo, renderti la prospettiva giusta in cui metterti per comprendere chi è Dio, che sei tu e chi è il fratello che ti è dato come compagno di viaggio.

Il cieco nato, o meglio, l’uomo che fu cieco.
Il racconto di Giovanni è davvero una stanza piena di perle preziose ; si resta quasi abbagliati dalla loro bellezza e si prova una certa difficoltà nel doverne scegliere solo alcune piuttosto che lasciarne altre. Ma questa Parola può farci compagnia per tutta la settimana e affido ciascuno alla sua forza.

Il suo itinerario spirituale è rintracciabile attorno ai titoli che attribuisce a Gesù: per lui è anzitutto un uomo, ma poi, comprende che in lui abita un mistero più profondo: forse è un profeta anzi, è addirittura il Figlio di Dio davanti al quale si prostra in un atto che ricorda Mosè di fronte al roveto ardente, è il Dio con noi sicuramente il Dio per lui, la carezza che lo tocca, la mano che si stringe alla sua e non lo lascia più.

Il suo itinerario può essere anche il nostro.
Chi è per te Gesù? Le lenti con cui leggi il suo Mistero gli rendono verità oppure la distorcono? È evidente che Gesù per noi è Figlio di Dio, forse troppo evidente a rischio di diventare scontato e non bruciarti più addosso. C’è un’abitudine che ci fa perdere il senso dello scandalo nel dire che Gesù è Dio. Dobbiamo recuperare la certezza che lui non sia solo un’idea ma è stato accadimento nella storia, che i suoi passi hanno davvero calcato il proscenio di questo mondo. E la sua Parola, come quella di un profeta, sa dare un senso al nostro cammino, tocca il nostro oggi. Gesù è Dio per te, ha a che fare con la tua vita, ha una direzione di novità che colora i tuoi giorni. È anche accadimento nella tua storia, vocazione ad una vita diversa, è un tu con cui relazionarti e da cui lasciarti incontrare.

Il cieco, per questa nuova fede, viene cacciato fuori, viene allontanato perché ha osato infrangere le convinzioni di chi pretendeva di sapere, perché viene avvertito come pericoloso e sovversivo.

Se lasci dilagare in te la luce del Vangelo preparati a pagare le conseguenze. Cambierà il modo con cui guardi te stesso e quindi il mondo. Tu non sei più semplicemente un individuo ma sei, con tutta la tua umanità, persona, porti in te, come marchio indelebile, il bisogno di una relazione con un altro che non può essere più un estraneo ma che ti è fratello: dalla sua felicità dipende anche la tua! E il bisogno di una relazione con l’Altro, un Dio che per te diventa Padre e smette i panni del Giudice severo e distaccato. E questo è pericoloso per chi vorrebbe confinare Dio in un oltre che non tocca la storia; per chi vede l’altro come un nemico o un concorrente alla tua realizzazione.

Fuori con Gesù il cieco nato probabilmente incontra la comunità di tutti i piccoli e i semplici che, come lui, sono la compagnia di Gesù.

Se anche tu hai il coraggio di uscire dal sistema delle convenzioni inizierai a guardare la Storia con lo sguardo degli ultimi sapendo che la debolezza è la forza di Dio e che devi mettere mano ad una rivoluzione che attende il tuo sì per ridare alla storia le coordinate della Storia della salvezza.

domenica 3 marzo 2013

terza di quaresima

Ogni volta che si legge questo passaggio di Giovanni mi colpisce sempre, all’inizio, la specificazione di questo gruppo con cui Gesù imbastisce il serratissimo dialogo che poi segue: questi uomini erano Giudei che avevano creduto in lui. Un’indicazione che non vedo solo come una precisazione che contestualizza il brano ma come un avvertimento per tutti quelli che si mettono alla sequela di Gesù…come quando nelle scatole dei medicinali, sul foglietto allegato, leggi le controindicazioni: poni attenzione perché la scelta di stare con Gesù e di seguirlo, di ascoltare la sua Parola o di partecipare alla vita della comunità, non ti pone al riparo da ipocrisie o non ti salva istintivamente: la fede ti deve condurre di conversione in conversione verso una meta di comunione, verso un orizzonte in cui fai della sua vita la tua vita, in cui ti lasci attrarre dall’Amore per essere anche tu amore!

Questi Giudei erano partiti da una presumibile situazione di prossimità a Gesù, si erano lasciati avvincere dal Vangelo, avevano iniziato a riporre le loro speranze in questo profeta di Nazareth, avevano investito la loro intelligenza e il loro affetto per fare spazio al nuovo che si imponeva. Eppure qualcosa a un certo punto si è inceppato. Prima di tradire probabilmente si saranno sentiti traditi da una Parola che si faceva di volta in volta più esigente. Forse per un motivo di fede: credere in Gesù come Figlio di Dio è altamente pericoloso perché significa immaginare che il cielo si sia squarciato e che quel confine invalicabile che separa il sacro dal profano sia stato valicato dal piede di un Dio che si fa prossimo rubando lo spazio di autonomia all’uomo; forse perché si sentono spiazzati da un atteggiamento che sta andando oltre le loro attese. Si aspettavano una rivoluzione in armi che sovvertisse il potere economico e politico ma questa non solo stenta ad arrivare ma si allontana sempre di più: Gesù ha già detto più volte di preferire ai segni del potere il potere dei segni e di volersi schierare con i piccoli ma non stando sopra di loro o al massimo dichiarando di essere per loro, ma unicamente facendosi come loro! Oppure forse tradiscono per un motivo sociale: sentono che Gesù, con il suo fare, si sta ponendo fuori dal sistema religioso, un sistema in cui tutto è ben definito, in cui ognuno ha un ruolo, in cui una Legge norma ciò che è giusto ma soprattutto vieta ciò che è sbagliato, un sistema in cui non devi inventarti di amare e fare quello che vuoi, un sistema che ultimamente ti dà sicurezza. In loro avverto la paura e sicuramente il Vangelo non era riuscito a fare breccia nella profondità del loro cuore.

E il brano prosegue con un rapidissimo distaccarsi delle due posizioni. È Gesù ad esigerlo. Lui si pone di fronte a loro: esaspera i contorni, mette in evidenza i punti deboli, chiede loro di smascherare le loro ipocrisie e le loro incoerenze come unico presupposto per fare spazio alla Verità e iniziare un cammino autentico, per questo spinge con le spalle al muro, esige una presa di posizione, non ha paura di restare solo. Lui non perde mai la calma al contrario di loro che invece, alla fine, in modo drammatico, segnano l’ultima e inesorabile distanza afferrando delle pietre per lapidarlo. Emerge la loro incoerenza e questo scatena la loro rabbia che si fa violenza.

Questo brano oggi ci obbliga a fare una sosta di riflessione sul nostro agire; possiamo dire che se vuoi fare Pasqua devi purificare la tua azione. L’azione, anche se non esaurisce in sè la tua verità, racconta chi sei e cosa si muove nel tuo cuore. Possiamo nascondere le nostre ipocrisie, possiamo mettere la maschera per darci l’aria di aver fatto nostro un certo stile e per sentirci al sicuro, possiamo nascondere fino ad un certo punto la nostra fragilità ma, presto o tardi, cosa si muove nel tuo cuore emerge.

Quali passi muovere se anche noi ci rendiamo conto che abbiamo bisogno di liberarci dalle maschere e ci sentiamo scoperti nella nostra incoerenza.

Stai nella Parola, fatti mettere da Gesù con le spalle al muro: il dolore è solo necessario perché possa essere innestato qualcosa di nuovo. Ritrova la tua identità di figlio amato che non avevi mai perduto, e poi, di conseguenza, sommerso dalla Grazia, emergi come persona di fede, spendi i tuoi giorni per una certezza che altri non vedono ma che muove i tuoi passi verso un orizzonte diverso della vita. emergi come persona di speranza, osa sogni che profumano di futuro e, infine, diventa uomo di carità, progetta la tua vita sapendo che la tua felicità non può mai essere senza quella di un altro, sapendo che hai la vocazione di rendere questo mondo più bello di come l’hai trovato, cosa che nessuno potrà mai compiere al tuo posto.

domenica 24 febbraio 2013

II di quaresima, della Samaritana


Sovente, per divertirsi, i marinai/catturano degli albatri, grandi uccelli marinai/che seguono, indolenti compagni di viaggio,/la nave scivolante sugli amari abissi ./Appena li depongono sulla tolda,/questi re dell'azzurro, goffi e vergognosi,/lasciano cadere miseramente ai loro fianchi,/le grandi, candide ali, come ritirati remi./Com'è molle e goffo questo viaggiatore alato!/Lui, poco fa così bello, com'è brutto e ridicolo.
…/Assomiglia al principe delle nuvole il Poeta,/che sfida le tempeste e si prende gioco dell'arciere,/ma esiliato in terra, fra gli scherni,/le sue ali di gigante gli impediscono di camminare.

Mi piace pensare che la Parola che ascolteremo di domenica in domenica in questo tempo particolarissimo che è la Quaresima, se lasciamo che dilaghi la nostalgia per quello che siamo e si è perso per poi mettere mano ad un serio processo di conversione, sia un cammino che accende le luci su quelle situazioni – sempre le stesse, sempre quelle più fondamentali, sempre quelle più insidiose - in cui la nostra libertà si imbriglia e stentiamo a spiccare il volo, proprio come l’albatros di Baudelaire, e ci convinciamo di non sapere più usare  quelle grandi ali che in realtà ci sono state donate per sfidare il cielo.

È evidente che questo scorcio biografico che Giovanni ci regala della Samaritana sia la perfetta parabola di una vita credente: non senza ironia se pensiamo a come un Giudeo giudicava questa gente; non senza stupore perché solo i piccoli e gli ultimi sanno cogliere i segni del Regno e ne fanno parte facendo crollare sotto il loro passo il sistema di un mondo che esclude chi sbaglia inchiodandolo al proprio errore con un giudizio incontrovertibile.
Questa donna lascia che la ferita di una vita giocata male a livello affettivo – forse all’inizio non per colpa sua, ma certo, poi, anche lei ha iniziato a starci al gioco diventando in apparenza sempre più cinica ma in realtà più vulnerabile e fragile – possa essere sanata dall’incontro con un uomo che finalmente le vuole bene ma non per possederla ma per liberarla, per quello che è più che per quello che può dare o soddisfare, per poi scoprire il vero volto di Dio che è Spirito e Verità, Padre che rincorre i suoi figli e fa breccia nel loro cuore con una sete d’infinito e di eternità, scopre chi è il Messia per poi diventare con la sua vita annuncio e infine testimonianza, portale perché anche altri possano darsi appuntamento con l’evento capace di ribaltare le sorti di una vita.

Il cuore del racconto è la guarigione della memoria. Oggi la Parola ci dice che se vogliamo spiccare il volo e conquistare i nostri sogni dobbiamo togliere le ancore da un passato che ci tiene legati e che ci fa paura. Perché anche se non ci pensi, anche se mascheri a te stesso e agli altri le tue ferite, in realtà ci costruisci sopra attimo dopo attimo la tua vita sgualcendola e rendendola fragile.
È successo proprio ieri. Un giovane mi ha raggiunto, ha voluto confessarsi, sono anni – mi ha detto – che non lo faccio. E poi, mentre molti fanno passare uno dopo l’altro i comandamenti per giustificarsi, lui mi diceva che li ha proprio traditi tutti. Ma alla fine, con una luce diversa negli occhi, ha aggiunto: ma io sono diverso, io non sono quello che ho fatto! Ecco la frase giusta di chi ha deciso di farsi guarire la memoria. Noi non siamo quello che facciamo, siamo molto di più. Ma devi lasciartelo dire, non può bastare ripeterselo, deve essere convincente chi ti guarda amandoti, deve rompere i lucchetti di quelle catene che ti serrano la gola, deve prometterti un futuro diverso, in altre parole, deve essere Gesù e con lui i fratelli di una comunità non di gente rigida ma di peccatori in conversione felici di fare spazio ad altri fratelli fragili come loro, pietre scartate che all’improvviso si sentono scelte per essere pietre d’angolo.

E mentre lascio che in questa settimana ognuno possa lasciarsi incontrare da Gesù e dargli appuntamento al crocevia della propria memoria, vorrei concludere dicendo che c’è anche una memoria collettiva, una memoria che condividiamo, una memoria di Chiesa che deve essere guarita. Giovanni Paolo II all’inizio della Quaresima dell’anno Santo aveva domandato perdono per il passato della Chiesa. Forse, in modo meno esplicito, anche Benedetto XVI più volte ha chiesto che la Chiesa possa cambiare rotta e radicarsi sull’unica roccia che è Gesù Cristo. Perché i segni del potere che spesso sostituiscono il potere dei segni, quelli secondo il Vangelo, il divario incolmabile fra noi e i poveri, la frantumazione fra la Liturgia e la Carità o il muro che gli adulti hanno costruito nei confronti delle nuove generazioni e infine l’irresponsabilità con cui i credenti hanno abdicato al loro impegno nella società strizzando l’occhio ad un’economia ingiusta che segna un divario fra il nord e il sud del mondo, alla logica della guerra, alla distruzione dell’ambiente sono una memoria zavorrata che deve essere liberata perché dilaghi la vita nuova che la prepotenza della Pasqua invoca.

domenica 3 febbraio 2013

penultima dopo l'Epifani

Signore, io non sono capace di pregare mai nessuno me lo ha insegnato! Anche adesso non so cosa dirti: Ma tu esisti? Se esisti perché non ti fai vedere da me. forse pretendo troppo: le vette il mare i fiori tutto il creato parlano di te ma io non sono capace di scoprirti. Dicono anche che l'amore sia una prova della tua esistenza: forse è per quello che io non ti ho incontrato: non sono mai stato amato in modo da sentire la tua presenza. Signore fammi incontrare un amore che mi porti a te, un amore sincero disinteressato, fedele e generoso che sia un poco l'immagine tua.

Così scrive Agostino, un ragazzo rinchiuso a forza nel centro salesiano di Arese. Uno dei tanti. Aveva quattordici anni e chiesero a lui e agli altri compagni, in un campeggio in Valformazza, di comporre una preghiera. Morì a sedici anni. Chissà se finalmente riuscì a trovare qualcuno che gli volesse bene e che, senza troppe parole, gli raccontasse l’amore di Dio: l’amore, l’unica forza che attrae senza fare violenza, l’unica mano che ti modella senza deformare nulla, l’unica cosa che mette in ordine tutto senza spostare niente.

Detto così, forse, si comprende perché il lezionario ambrosiano ci obbliga a fare sosta sul tema della Misericordia e del Perdono in queste due domeniche che precedono la quaresima, il tempo in cui sei chiamato a riordinare la tua vita, a orientare nuovamente la tua libertà nella direzione dell’amore, a prendere fra le mani le tue scelte per renderle profumate di Vangelo, per mettere il lievito nuovo nella pasta della tua ordinarietà: non c’è conversione senza la percezione che chi ti chiama a cambiare è il Dio dell’amore.

E noi che Dio abbiamo incontrato nella nostra vita? Forse dovremmo mettere al bando per sempre l’idea tutta nostra di una santità che è solo diversità, alterità inaccessibile se non per sentieri inestricabili di faticosa ascesi.  L’avvenimento che ci precede è l’affacciarsi di Dio nella storia, il suo sporcarsi con la nostra vita, anche con le pagine più drammatiche e nauseanti delle nostre biografie; la sua santità - la sua diversità - è proprio l’amore che si colora di tutte le sfumature possibili, anche la rabbia e la gelosia ma che, in sintesi, è Misericordia, mano teso, perdono incondizionato. Proprio per questo Gesù, quando parlava di Dio, non ha trovato un modo migliore di chiamarlo se non Padre. Padre perché si assume il rischio di dare libertà, perché ti mette con le spalle al muro ma perché sa quanto vali, perché non solo ci vuole bene ma si inventa con una creatività tutta sua il modo per dimostrarcelo, perché non ti toglie nulla ma ti dona tutto e se cerchi la felicità, nella sua alleanza, tu ne trovi le coordinate.

Levi, Matteo, quel giorno si imbatte proprio in un Dio così. Penso, come capita molto spesso a noi, che lui fosse il primo a provare disgusto per la sua vita: noi infatti siamo i giudici più severi di noi stessi. La sua vita era fatta di molto denaro frutto in gran parte di corruzione e procacciato in modo illecito. All’inizio forse accarezzava l’idea che potesse bastargli, forse lo confortavano quegli amici che circondano i ricchi più per quello che hanno che per quello che sono; forse il giudizio dei benpensanti e l’odio della gente comune all’inizio era solo un fastidio. Ma alla fine anche lui si sarà sentito solo e con la voglia di dare un cambio di rotta alla sua vita ma gli mancava la forza o proprio qualcuno che davvero gli volesse bene. “seguimi”: ecco la promessa di un orizzonte diverso. Gli occhi di chi lo chiamava, fissi nei suoi, probabilmente brillavano di un amore mai sperimentato prima, un amore che dà sostegno a quella promessa. E solo allora si alza, riprende a camminare, sente che la sua vita può essere schiodata da un passato che non lasciava spazio al futuro ma solo a un presente malinconico. Gli occhi di Gesù…il racconto di quello sguardo avrà messo nel cuore a tutti i peccatori di quella città la voglia di incontrarlo per trovare riscatto e quella dignità di creature.

Vorrei che tutti noi incrociassimo questo sguardo. Saremo eterni analfabeti di Vangelo se non incontriamo il perdono di Dio, se almeno una volta nella vita non lasciamo che il suo perdono dia luce agli angoli bui che nascondiamo abilmente a tutti e in cui non vogliamo mai scendere per vergogna, se non lasciamo che il suo amore ci faccia fare la pace con quei mostri che abbiamo dentro. Dio cerca ogni giorno di abbattere il muro della nostra presunta capacità di salvarci con le nostre forze passando attraverso quegli spiragli che sono le nostre ferite e la nostra sete di felicità.

E quando avremo scoperto che è bello lasciarci salvare, amare per quello che siamo, potremo fare nostri i tratti di questa misericordia, essere figli che portano indelebile, come marchio di fabbrica, l’amore che salva. Ma questo è già il miraggio di una comunità, di una Chiesa, che non condanna ma che fa verità nella misericordia e che si fa casa accogliente per tutte le pietre di scarto di questo mondo.

domenica 27 gennaio 2013

santa Famiglia di Nazareth

1 una certa distanza Quando devo predicare per la festa della s. Famiglia provo sempre un certo imbarazzo e questo almeno per due motivi. Non è immediato l’esempio della Famiglia di Nazareth. E non penso semplicemente al fatto che nessuno dei nostri padri è come Giuseppe, delle madri come Maria e dei figli come Gesù! Penso soprattutto alla loro vocazione che, se a tratti assomiglia alla nostra, per molti aspetti rimane unica e segna una distanza incolmabile con noi. Il secondo motivo è che chi predica una famiglia sua non ce l’ha. Personalmente posso solo guardarmi indietro ed esprimere  considerazioni sulla mia vita di figlio. Mi guardo bene dal dispensare consigli, dallo svendere facili giudizi. Preferisco di solito ascoltare i genitori e condividere il fardello pesante del loro impegno educativo; oppure, dei mariti e delle mogli, ammiro la capacità, tutt’altro che facile, di mettere ogni giorno in gioco l’amore per l’altro e di rendere attuale quel  per sempre che non schiaccia ma dà espressione alla loro libertà.
2 una certa somiglianza. E tuttavia, pur restando un esempio al limite, perché le vicende che la interessano sono davvero estreme, ci sono degli stili di vita della Famiglia di Nazareth che possono suggerire alle nostre famiglie alcune intuizioni.
Mi lascio provocare dal brano di Vangelo in almeno tre passaggi
I sogni della famiglia. L’obbedienza ad un sogno muove i passi di Giuseppe dall’Egitto e li orienta verso la terra. Anche lui visionario come Mosè. Giuseppe nei Vangeli non parla mai. Matteo tuttavia, l’unico che ne tratteggia i contorni, lo presenta come uomo giusto, perché innamorato di Dio, in costante ricerca della sua volontà che sempre vede racchiusa nei sogni. Nelle poche pagine che lo riguardano c’è posto per tre sogni. Il primo perché non abbia paura a prendere con sé Maria. La sua vocazione sarà quella di tessere i legami fra Gesù e la terra, e la casa di Davide: Dio ha scelto lui e Maria, non solo lei. Il secondo perché fugga via da Erode e protegga Maria e il bambino. E il terzo è quello di cui abbiamo letto adesso.
I sogni delle nostre famiglie. Non solo sicurezze ma anche sogni in grande.
Chi oggi parla di famiglia giustamente auspica che possa godere di sempre maggiori sicurezze…in effetti mi chiedo cosa ne sarebbe della nostra città se non si potesse contare sull’impegno delle famiglie in ambito educativo ma anche in termini di supplenza allo Stato sociale! Eppure c’è un di più che va oltre i diritti di sicurezza che devono essere garantiti da altri e che vanno rivendicati con forza…è la possibilità di sognare in grande. il sogno supera la logica della delega, della lamentela, richiama immediatamente l’infinito e coinvolge la nostra libertà con scelte autentiche. Le famiglie oggi devono poter sognare. E non solo un posto di lavoro, condizioni abitative degne, possibilità per i propri figli. Ma anche la possibilità di essere modello alternativo, laboratorio che educa alla responsabilità le nuove generazioni consegnando loro un tessuto non fragile, modello di una Chiesa povera e autenticamente evangelica, contesto in cui si ama davvero perché si lotta l’uno per il bene dell’altro.   
Le paure. La paura per l’incolumità del Bambino. Quando Giuseppe entra in Israele prova la paura di esporre Gesù alla violenza del potente di turno. Per questo cammina ancora verso nord e si stanzia a Nazareth. La paura non è un sentimento stupido. Solo gli incoscienti non la provano. Ma diventa problematica quando paralizza, blocca, impedisce di compiere scelte e di compiere passi in avanti, ci fa arroccare sulle posizioni del passato idealizzandole. Giuseppe sente paura e discerne che deve camminare un poco ancora, un poco oltre.
Le paure delle nostre famiglie sono molte. Ci sono le paure che nascono dai dubbi: due sposi che sentono di essere fragili e di non poter scommettere solo sulla loro volontà nel vivere la fedeltà. Due genitori che temono per il futuro dei loro figli. Ci sono le paure dettate dalle vicende, a tratti inverosimili, che riguardano la storia di una famiglia come la malattia oppure la precarietà che si affaccia come uno spettro alla porta. Ci sono le paure legate al tempo come quando si invecchia e si teme di non poter più essere utili ma solo di peso agli altri. In ogni caso Giuseppe Maria e Gesù ci insegnano il segreto di non restare paralizzati ma di camminare e di confidare nel fatto che Dio trasforma i vicoli ciechi in spazi aperti e gli angoli bui in occasioni provvidenziali. La paura è buona solo se ci stimola a guadare il presente e a incamminarci verso un oltre che sta appena dietro le siepi dei nostri ricordi e delle nostre illusioni.
Scopriremo che ciò che ci faceva paura può davvero essere un’occasione provvidenziale: nell’obbedienza al quotidiano si realizza la nostra vocazione. Invecchiare assieme…scoprire di nuovo l’altro. La sofferenza che può dividere alla fine può risultare una sorgente di nuova unità. Le scelte dei figli una scommessa per il loro futuro e per raccogliere quanto seminato.