domenica 4 agosto 2013

XI dopo Pentecoste

Questa domenica la corsa lungo le tappe più importanti della storia della salvezza ci fa fare sosta sulla figura di Elia il profeta. Elia, pur essendo una figura tratteggiata con i colori accesi della mitologia, è diventato l’emblema del profetismo. In un tempo politicamente difficile – il Regno d’Israele si è separato da quello di Giuda – e buio – il re Acab e Gezabele nel racconto di oggi sono l’esempio evidente della corruzione e del disimpegno della ricerca del bene comune e della Giustizia diffuso nella classe dirigente e dilagante nel popolo – è l’uomo chiamato da Dio a incarnare la sua Parola, è acceso di passione per la Verità anche al costo di pagare di persona, è l’amico di Dio capace di annunciare la consolazione nei giorni della desolazione e di mettere il dito nella piaga del malaffare  e scoperchiare e mostrare l’ipocrisia in tutte le situazioni in cui Israele stava dimenticando l’Alleanza con il Signore. Già qui possiamo raccogliere nella nostra bisaccia di pellegrini un’indicazione spirituale preziosissima. Anche noi , forse come dilettanti o forse con il tratto di un’esperienza maturata lungo la vita, siamo chiamati ad essere profeti, dobbiamo sentire come una nostalgia nel cuore la voce che ci rende segno della presenza di Dio, profumo della sua primavera nella stagione che stiamo vivendo. Perché se è troppo facile lamentarsi per il buio e lo sgomento che ci circondano, molto più difficile è affrontare la storia a viso aperto e richiamare le coordinate del buono, del vero e del bello incarnandole con la nostra vita. Ed eccoci a qualche sottolineatura della pagina di oggi.
È evidente la disparità fra Nabot e il re Acab. Il primo, anche di fronte ad una promessa di ricompensa, forse più preziosa del valore della vigna stessa, non cede l’eredità dei suoi padri, quel lembo di terra che richiama la promessa di Dio di dare una terra al suo popolo. Per Nabot ciò che conta non è il valore ma il significato di quella vigna. In una stagione dove si poteva svendere tutto per denaro, anche la dignità, Nabot rimane ancorato ai suoi principi. Acab invece, che ha confuso il servizio del potere con il potere assoluto, abituato a imporre i segni del potere rimane sconcertato di fronte a questo potere del segno di una vigna trattenuta perché benedizione di Dio. Nabot è diventato un richiamo sfacciato all’oblio della coscienza di Acab che, proprio per questo, acconsente di metterlo a tacere nel peggiore dei modi.
Ed è a questo punto che Elia interviene. Non ha una parola sua da annunciare ma quella di un Dio che lungo la storia del suo popolo si è sempre lasciato impressionare e infiammare dal grido del povero e degli oppressi. Elia ha dovuto imparare lungo la sua vita a non aggiungere nulla di più rispetto a questa Parola, ha dovuto imparare a sue spese a far coincidere il suo pensiero con quello di Dio, ha capito che l’efficacia di un messaggio non sta nel protagonismo ma nel farsi riempire dal mormorio del vento leggero del passo di Dio che cammina in mezzo a noi. Ma per questo rimando alla lettura personale del ciclo di Elia. È proprio dall’ascolto della Parola che nasce la passione per la storia, per il mondo, per la Giustizia. E anche qui mi fermo per raccogliere un’altra indicazione. Chiediamoci se l’ascolto della Parola sta mettendo sui nostri occhi, spesso miopi e tentati di guardare troppo vicino, troppo a noi stessi e ai nostri interessi, le lenti della passione per la storia; se c’è la voglia di lubrificare gli occhi con il collirio della Fede per infiammarsi di passione per i poveri di questo mondo e per tutti quelli che stanno perdendo anche la dignità; se il rispetto che ci porta a piegare le nostre ginocchia di fronte al Crocifisso Risorto è lo stesso per ogni crocifisso che sfioriamo lungo la nostra vita. La passione per la Giustizia senza fede è rivoluzione sterile. Ma la fede senza lotta accanto agli oppressi  è spiritualismo inutile. Insomma, la sincerità dell’Amore è sempre la prova della bontà della nostra Fede.

Ecco perché la Liturgia crea una risonanza alla vicenda di Elia con questa parabola di Luca. Il ricco, di cui non sapremo mai il nome al contrario di Lazzaro, il povero – nella Storia della salvezza è ribaltata la legge per cui il dovere di cronaca appartiene solo ai potenti oppure perché il nome del ricco potrebbe essere benissimo il nostro – è uno che è vissuto nell’indifferenza: questo è l’unico peccato che gli si può imputare. Non ha tiranneggiato sul povero, semplicemente è rimasto sordo alla sua presenza, peggio dei cani che almeno si avvicinavano a Lazzaro per leccare le sue piaghe. E la sua indifferenza ha scavato un abisso che Dio, nell’eternità, non ha potuto non riconoscere. Eppure avrebbe potuto ascoltare anche lui Mosè e i Profeti, o meglio, avrebbe potuto comprendere che tutta la Legge lo stava spingendo verso un orizzonte di Carità. Non è un peccato avere ricchezze, è un problema – troppo ricorrente, è empiricamente dimostrato – se ti allontanano dal mondo dei poveri e ti rendono sordo a chi soffre. Penso dunque che la Parola di questa domenica ci voglia aiutare a cingere un grembiule per servire tutti i poveri che stanno alla porta di casa nostra. Saranno loro un giorno ad accoglierci nel Regno se ci riconosceranno come amici. E fra quei poveri forse scopriremo anche il volto di Uno che ha deciso di occupare per sempre l’ultimo posto. 

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