Questa domenica la corsa lungo
le tappe più importanti della storia della salvezza ci fa fare sosta sulla
figura di Elia il profeta. Elia, pur essendo una figura tratteggiata con i
colori accesi della mitologia, è diventato l’emblema del profetismo. In un tempo
politicamente difficile – il Regno d’Israele si è separato da quello di Giuda –
e buio – il re Acab e Gezabele nel racconto di oggi sono l’esempio evidente
della corruzione e del disimpegno della ricerca del bene comune e della
Giustizia diffuso nella classe dirigente e dilagante nel popolo – è l’uomo
chiamato da Dio a incarnare la sua Parola, è acceso di passione per la Verità anche
al costo di pagare di persona, è l’amico di Dio capace di annunciare la
consolazione nei giorni della desolazione e di mettere il dito nella piaga del
malaffare e scoperchiare e mostrare l’ipocrisia
in tutte le situazioni in cui Israele stava dimenticando l’Alleanza con il
Signore. Già qui possiamo raccogliere nella nostra bisaccia di pellegrini un’indicazione
spirituale preziosissima. Anche noi , forse come dilettanti o forse con il
tratto di un’esperienza maturata lungo la vita, siamo chiamati ad essere profeti,
dobbiamo sentire come una nostalgia nel cuore la voce che ci rende segno della
presenza di Dio, profumo della sua primavera nella stagione che stiamo vivendo.
Perché se è troppo facile lamentarsi per il buio e lo sgomento che ci
circondano, molto più difficile è affrontare la storia a viso aperto e
richiamare le coordinate del buono, del vero e del bello incarnandole con la
nostra vita. Ed eccoci a qualche sottolineatura della pagina di oggi.
È evidente la disparità fra
Nabot e il re Acab. Il primo, anche di fronte ad una promessa di ricompensa,
forse più preziosa del valore della vigna stessa, non cede l’eredità dei suoi
padri, quel lembo di terra che richiama la promessa di Dio di dare una terra al
suo popolo. Per Nabot ciò che conta non è il valore ma il significato di quella
vigna. In una stagione dove si poteva svendere tutto per denaro, anche la
dignità, Nabot rimane ancorato ai suoi principi. Acab invece, che ha confuso il
servizio del potere con il potere assoluto, abituato a imporre i segni del
potere rimane sconcertato di fronte a questo potere del segno di una vigna trattenuta
perché benedizione di Dio. Nabot è diventato un richiamo sfacciato all’oblio
della coscienza di Acab che, proprio per questo, acconsente di metterlo a
tacere nel peggiore dei modi.
Ed è a questo punto che Elia
interviene. Non ha una parola sua da annunciare ma quella di un Dio che lungo
la storia del suo popolo si è sempre lasciato impressionare e infiammare dal
grido del povero e degli oppressi. Elia ha dovuto imparare lungo la sua vita a
non aggiungere nulla di più rispetto a questa Parola, ha dovuto imparare a sue
spese a far coincidere il suo pensiero con quello di Dio, ha capito che l’efficacia
di un messaggio non sta nel protagonismo ma nel farsi riempire dal mormorio del
vento leggero del passo di Dio che cammina in mezzo a noi. Ma per questo
rimando alla lettura personale del ciclo di Elia. È proprio dall’ascolto della
Parola che nasce la passione per la storia, per il mondo, per la Giustizia. E anche
qui mi fermo per raccogliere un’altra indicazione. Chiediamoci se l’ascolto
della Parola sta mettendo sui nostri occhi, spesso miopi e tentati di guardare
troppo vicino, troppo a noi stessi e ai nostri interessi, le lenti della
passione per la storia; se c’è la voglia di lubrificare gli occhi con il
collirio della Fede per infiammarsi di passione per i poveri di questo mondo e
per tutti quelli che stanno perdendo anche la dignità; se il rispetto che ci
porta a piegare le nostre ginocchia di fronte al Crocifisso Risorto è lo stesso
per ogni crocifisso che sfioriamo lungo la nostra vita. La passione per la Giustizia
senza fede è rivoluzione sterile. Ma la fede senza lotta accanto agli oppressi è spiritualismo inutile. Insomma, la sincerità
dell’Amore è sempre la prova della bontà della nostra Fede.
Ecco perché la Liturgia crea
una risonanza alla vicenda di Elia con questa parabola di Luca. Il ricco, di
cui non sapremo mai il nome al contrario di Lazzaro, il povero – nella Storia
della salvezza è ribaltata la legge per cui il dovere di cronaca appartiene
solo ai potenti oppure perché il nome del ricco potrebbe essere benissimo il
nostro – è uno che è vissuto nell’indifferenza: questo è l’unico peccato che
gli si può imputare. Non ha tiranneggiato sul povero, semplicemente è rimasto
sordo alla sua presenza, peggio dei cani che almeno si avvicinavano a Lazzaro
per leccare le sue piaghe. E la sua indifferenza ha scavato un abisso che Dio,
nell’eternità, non ha potuto non riconoscere. Eppure avrebbe potuto ascoltare
anche lui Mosè e i Profeti, o meglio, avrebbe potuto comprendere che tutta la
Legge lo stava spingendo verso un orizzonte di Carità. Non è un peccato avere
ricchezze, è un problema – troppo ricorrente, è empiricamente dimostrato – se ti
allontanano dal mondo dei poveri e ti rendono sordo a chi soffre. Penso dunque
che la Parola di questa domenica ci voglia aiutare a cingere un grembiule per
servire tutti i poveri che stanno alla porta di casa nostra. Saranno loro un
giorno ad accoglierci nel Regno se ci riconosceranno come amici. E fra quei
poveri forse scopriremo anche il volto di Uno che ha deciso di occupare per
sempre l’ultimo posto.
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