giovedì 24 dicembre 2009

Natale del Signore

Ci sono momenti come questi in cui sembra non ci sia bisogno di particolari didascalie, in cui basta il tepore di una chiesa, il pensiero che fra poche ore ci si ritroverà a condividere la stessa tavola con parenti e amici, la nostalgia di altri natali dove tutto forse era più semplice ma sicuramente più intenso per farci star bene. Ma c’è una Parola che non possiamo tacere, colma di promessa, che vuole strapparci alla banalità della nostra vita, che a volte è in agguato soprattutto in giorni come questi, non riconducibile a schemi di retorica consolatoria. Ed è proprio a partire da questa Parola che vorrei rivolgere a ognuno di voi parole di benedizione. La benedizione è come una carezza sul viso, come un abbraccio in cui possiamo rifugiarci, è come la mano sulla spalla per incoraggiarci e ricordarci che noi siamo preziosi agli occhi di Dio e per i nostri fratelli.
Il Signore che nasce fra noi benedica tutti quelli che sono in cammino, chi non si sente ancora arrivato, chi ha una meta da raggiungere e non si accontenta delle mezze misure, chi sa mettersi in discussione sempre, chi è morso dal tarlo del dubbio, chi sa cosa vuol dire affrontare la notte del cuore quando anche il cielo sembrava essere muto e chiuso ostinatamente. Quest’oggi vi fanno compagnia i pastori. Anche loro si sono messi in cammino nella notte, anche loro si sono lasciati sorprendere da una luce che ha squarciato le loro tenebre. Non erano certo persone ben viste o raccomandabili, eppure per loro si è riaperto il cammino e son andati fino a Betlemme, mossi dal desiderio, spinti dalla certezza che Dio proprio a loro voleva rivelare la sua Grazia. E poi da lì hanno avuto il coraggio di ripartire per essere gli annunciatori di un grande Mistero. Da uomini distanti e senza Dio, sono diventati i primi credenti e i primi missionari, perché Dio non era senza loro, non aveva rinunciato a loro. Non bisogna aver paura di rimettersi in discussione sempre, non si può temere se si è in viaggio, l’ansia può farci da compagna ma solo per un tratto. Basta il desiderio di avanzare, di raggiungere la luce del Natale e poi il cielo inizia a parlarci, e lungo la strada il Signore ci modella, ci riconsegna a noi stessi migliori di quando eravamo partiti. E poco importa se la strada sarà immersa nel buio: l’importante è andare avanti fiutando la direzione giusta. Dio su di voi non ha uno sguardo di rimprovero, non vi giudica. E sotto uno sguardo così non c’è spazio per la frustrazione: Dio è abituato a schiodarci da ogni pregiudizio, compreso il nostro a volte così severo, e nel nostro cammino si fa compagno, non davanti, non dietro ma proprio accanto a ognuno di noi, e ci solleverà sulle nostre spalle quando il peso della strada si farà sentire. Ma ciò che importa per davvero è camminare con il cuore giovane. Si può davvero cambiare e prendere nuova forma. E sulla nostra strada, se saremo davvero contagiosi, si aggiungeranno altri fratelli che troveranno in noi un esempio e una guida anche nella loro notte.
Il Signore che nasce fra noi benedica tutti quelli che si sentono oggi schiacciati da qualche fallimento, da qualche delusione, chi mastica amaro il sapore dei propri giorni, chi si sente con le ali spezzate e non sa perché capitano proprio tutte a lui, chi si è sentito rifiutato, ingannato, per chi si sente solo e sconfitto. Quest’oggi vi fanno compagni Maria e Giuseppe che non hanno saputo offrire al loro Bimbo niente di meglio che lo squallore e la puzza di una stalla per l’indifferenza e la chiusura di molti a Betlemme; che non hanno ricevuto visite se non quelle poco gratificanti dei pastori; che sanno il dolore di una porta sbattuta in faccia. E questo ci dice che il nostro Dio ancora oggi nasce proprio nel cuore dei nostri fallimenti e delle nostre ombre, che ha una parola in più capace di sconvolgere e rendere Grazia anche tutto quello che di negativo ci capita, che desidera stare accanto a tutti i poveri del mondo e far sentire il suo amore a chi è solo. E se è davvero così il Natale non può che essere parola consolante ma che esige anche una nostra conversione se siamo noi magari quelli che hanno esiliato qualcuno, fatto del male, voltato le spalle allo straniero, al povero, all’amico nel momento del bisogno. Se ti innamori di un Dio così di conseguenza anche tu diventi il prossimo di chiunque bussa alla tua porta.
E infine il Signore benedica tutti quelli che come me oggi si sentono poveri, inadeguati, con il cuore troppo piccolo e ripiegato sui propri moduli già mille volte battuti come sentieri di montagna, su chi sa che non è riuscito ancora ad emergere con le sue buone cose perché il tempo ci scivola fra le mani e la conversione si è limitata solo a buoni propositi. Oggi ci fa compagnia la stalla, la paglia e gli animali del presepio. Dio non si è risparmiato di scendere così in basso, ma tutta la sua vita sarà una parabola a scendere per raccogliere uno ad uno tutti gli ultimi della terra. Gesù bambino, con le braccia spalancate e con il sorriso sul labbro, con il tepore del suo corpo adagiato sulla paglia e che si fa circondare da quegli animali, ci ricorda che non è venuto perché noi emergessimo, ma perché ci lasciassimo sommergere dalla sua tenerezza. E per questo oggi non può che essere un buon Natale, buono come il nostro Dio.

domenica 20 dicembre 2009

VI di Avvento - divina maternità della beata Vergine Maria

Ci sono attimi nella vita in cui il tempo sembra fermarsi, ci sono delle decisioni che hanno il profumo dell’eternità, c’è un mistero che ci strappa dalla banalità dello scorrere inesorabile dei giorni: quando ci innamoriamo, quando mettiamo la nostra vita nelle mani di qualcun altro, quando troviamo il coraggio di dare forma ai nostri sogni. Penso che il sì di Maria assomigli un po’ a tutto questo. L’angelo entra nei suoi giorni, uno squarcio di eternità la sorprende mentre i suoi progetti di sposa si stavano realizzando; nessuna violenza però: la Grazia, quando interpella la nostra vita, non distrugge nulla, ma corona di felicità i nostri desideri. E il suo sì è uno slancio pieno di gioia per un Signore che si è rivelato ricco di Misericordia, buono, estremamente paradossale nello scegliere una creatura così piccola e così insignificante agli occhi del mondo per portare a compimento la sua Alleanza; il suo sì è il tendersi delle braccia come un bimbo verso la madre.
In quell’attimo in Maria si uniscono il cielo e la terra. Il cielo, prima di allora così distante, così carico di enigmatica problematicità, è ora aperto all’umanità, fino a toccarla, fino a fondersi assieme come all’orizzonte del mare. La terra, non è più abbandonata o devastata ma visitata. Dio ha deciso di farsi prossimo a noi, solidale con i nostri palpiti amico delle nostre ore dolci o pesanti. È uno di noi e cammina con noi.
Il cielo ha avuto bisogno del sì della terra, la terra senza il cielo sarebbe rimasta deserta e barcollante nelle tenebre.
Mi colpisce sempre questo rispetto per la libertà dell’uomo del nostro Dio. Dio pendeva dalle labbra di una ragazza di Nazareth, gli angeli e tutto il creato hanno trattenuto il respiro per quella parola che Maria con coraggio ha pronunciato. Dio si è fatto bambino, si è consegnato nelle mani di questa donna e del suo sposo. Ha avuto bisogno delle attenzioni e delle premure di una madre, da lei ha imparato a parlare, a scrivere, a camminare, a guardarsi attorno e a giudicare e agire con estrema bontà. Di un Dio così non possiamo che innamorarci! Si consegna, si ritrae perché sia vinta per sempre la paura dell’uomo di perderci, antica come il Giardino di Genesi, e noi, a partire da questo suo primo passo, possiamo aprirci a lui e iniziare a tessere una storia d’amore.
E così questa domenica già profuma di Natale, è come un anticipo della festa che è ormai prossima. Il Signore è davvero vicino e non solo in senso cronologico, ci sta accanto, pianta i paletti della sua tenda fra di noi. E beati gli occhi che riescono a riconoscerlo: cambia tutto se è così!
Penso che la sosta di questa domenica ci aiuti ad allungare lo sguardo oltre il contingente, stimoli la nostra capacità contemplativa, ci aiuti a immergerci nel mare caldo dell’amore di Dio. E poi ci consegna alcuni tratti spirituali che non possiamo non fare nostri.
Anzitutto viviamo la consapevolezza che Dio per compiere il suo sogno ha deciso di avere bisogno del nostro sì! Ogni sì che diciamo è una possibilità perché il Regno si faccia realtà, ogni no è una porta sbattuta che non si aprirà mai più. Nel nostro quotidiano, che non è molto diverso da quello di Maria, fatto di sogni e di paure, di slanci e di perplessità, fatto di mille e più cose ordinarie, il Signore ci chiama a compiere la sua volontà proprio nell’obbedienza alla nostra vocazione, con una cura premurosa dei particolari che non sono poi così irrilevanti. E in questa obbedienza molti sapranno che Dio è con noi, saremo contagiosi di beatitudine.
E poi ancora l’evidenza che il cielo e la terra in Gesù hanno stretto pace e alleanza ci insegna a guardare il mondo con meno paura e con più speranza. Ho come l’impressione che ci sia una sorta di sfiducia nell’altro, nei nostri giovani, in chi arriva nelle nostre città per la prima volta, in chi ci sta accanto e ci arrocchiamo in nome di chissà quale privilegio da difendere trovando sempre nel cuore un motivo per essere depressi e arrabbiati. E così dimentichiamo che anche qui e ora Dio non ha smesso di camminare con noi e guarda con fiducia ad ognuno. Come sarebbe bello se ognuno uscisse di qui con questa certezza e iniziassimo a guardare con estrema tenerezza la nostra città, faremmo forse il regalo più gradito a tutti.

domenica 13 dicembre 2009

V di avvento

Il nostro itinerario del tempo di Avvento sta giungendo al termine e se spingiamo lo sguardo più in là riusciamo già a vedere l’alba della Divina Maternità di Maria e del Natale del Signore. Oggi ci lasciamo prendere per mano dalla figura del Battista, il Precursore e se da un lato dobbiamo sottolineare la sua singolarità, dall’altra ci sono alcuni tratti della sua spiritualità che siamo chiamati a fare nostri.
Giovanni, per fare eco alla prima lettura, è il compimento della Promessa di Dio di accompagnare il suo Popolo con una Parola chiara che non lo faccia sbandare a destra o a sinistra e, nella fedeltà all’Alleanza, trovi riposo nella Terra Promessa. Per dirla con Gesù, Giovanni è il più grande fra i nati di donna perchè è come Elia, uomo dalla Parola forte, che, senza timore di nessuno, apre la strada al Messia. Viveva nelle solitudini del deserto, lontano dalle commistioni fra politica e religione, quasi come un eremita. Il suo fascino però richiamava le folle e tutti quelli che lo incontravano potevano trovare una parola su cui riflettere, lavorare spiritualmente e poi praticamente convertirsi. Il cuore deve allargarsi come una Tenda per accogliere la presenza di Dio; bisogna rimuovere quegli ostacoli che potrebbero essere da intralcio ai passi spediti di chi Dio desidera incontrare. Il Battista è stato Precursore in tutto rispetto a Gesù: nel servizio reso alla Parola del Regno e anche nella sofferenza e nella Passione. E questo fa di lui una figura del tutto speciale, irripetibile, che ha segnato la storia con la sua singolarità, e di questo dobbiamo prendere atto. Forse, come Israele di fronte a lui, anche noi, in questo scorcio di Avvento, chiediamoci quali tratti dobbiamo cambiare, quali abitudini ci hanno portato lontano dal Signore e dalla logica del suo Vangelo, per aprire l’orizzonte al Natale di Gesù.
Ma, come dicevo, ci sono anche alcuni aspetti della sua spiritualità che ci devono appartenere, che ci interpellano.
Anzitutto il suo essere testimone, con il dito puntato sullo Sposo, felice che incontri la sposa, felice di diminuire di fronte a lui. Il testimone non si mette di mezzo: indica e poi si scansa perchè si avveri l’incontro. Accogliere Gesù nella nostra vita, e nel prossimo Natale ancora ci dichiarerà la sua fedeltà a noi e a questa terra, vuol dire innamorarcene ma poi non possiamo trattenere per noi questa novità: la gioia del credente si moltiplica solo se si condivide. E noi possiamo solo mettere una mano sulla spalla delle persone a cui dobbiamo dare testimonianza ed essere felici, un giorno, di poterli lasciare a tu per tu con il Cristo. Ma allora a che cosa serve la nostra testimonianza se poi dobbiamo venire meno? E Dio non potrebbe fare tutto da solo? Sembra proprio di no! Ha deciso di legare l’annuncio del Vangelo alla nostra parola. Si può credere solo se accanto a te sta qualcuno che ha in cuore una gioia discreta e credibile, solo se vedi in un fratello una speranza diversa da quella che dà il mondo e non è spiegabile nei soli termini razionali, si crede solo se è promettente per la nostra vita la parola della fede che palpita in un altro. Se ci pensiamo bene, se oggi siamo qui, è perchè nella nostra vita abbiamo incontrato qualcuno così. E noi, per chi saremo testimoni affidabili?
Un altro tratto di Giovanni che dobbiamo fare nostro è la sua franchezza, fino a pagare di persona per amore del Vangelo come anche Paolo ci dice nella lettera. Il cristiano sa che solo fino ad un certo punto la società di sempre può andare d’accordo con la logica del pensiero di Dio. Ad un certo punto deve avvenire una frattura, una presa di distanza, deve irrompere nel nostro stile una modalità diversa di gestire il tempo, le cose e le relazioni. E la nostra vita, quasi senza accorgercene, diventa un appello alla coscienza degli altri. Forse solo nella misura in cui avremo dato fastidio a qualcuno avremo compiuto la nostra missione nel mondo. Assecondare chiunque significherebbe essere conformisti. Non si può tacere, per esempio, il riscatto per i poveri, l’annuncio dell’accoglienza agli ultimi e agli stranieri anche se questa parola scomoderà i potenti di turno che magari hanno pensato solo a rapide e pericolose scorciatoie: ma il servizio del Regno è, ultimamente, servizio al mondo.
E infine, essere come il Battista, significa tenere accesa in noi la nostra vocazione profetica, non spegnere la fiamma di quella parola tutta nostra attorno a cui abbiamo raccolto la nostra vita e che è stato il Signore a suggerirci: in poche parole, non dobbiamo smarrire il senso della nostra vocazione. Sarà in nome di questa parola che sapremo affrontare le difficoltà, attraversare la notte anche della fede, e camminare nella speranza del Regno.

sabato 21 novembre 2009

II di Avvento

Ma in fondo che differenza c’è fra chi crede e chi non crede? Tutti siamo gettati nella storia, veniamo dal buio dei tempi e la nostra vita va inesorabile verso un enigma irrisolvibile. Dobbiamo faticare per vivere, lottare, trovare scorciatoie per gustare la felicità, sempre più rara, sempre più a caro prezzo, parentesi esigua in un mare di difficoltà, angoscia e di sofferenza. E l’esistenza di Dio cosa aggiunge a tutto questo, cosa cambia a questa eterna lotta per sopravvivere?
Vivere come se Dio non ci fosse: questa è la tentazione anche per i credenti. Noi ogni domenica ci ritroviamo per spezzare il Pane, dopo aver ascoltato una Parola che è per noi fin dai secoli eterni, siamo in una comunità che dice di trovare nel Risorto il suo cuore ardente e offre la gioia e il perdono come un sostegno alla vita di ognuno, attendiamo il Regno e pronunciamo, per esempio nel Credo, parole di speranza capaci di far trasalire il mondo ma poi, fuori di qui, nella nostra vita spesso non cambia nulla. Penso che possiamo senza timore in questa seconda tappa di Avvento, che mette a tema le caratteristiche dei figli del Regno, lasciarci andare a queste considerazioni. È vero: noi siamo uomini incarnati nella nostra storia, non possiamo esimerci dal vivere nella nostra cultura che esaspera l’attimo presente, cancella la storia svuotandola di significato, teme il futuro e preferisce non guardarlo; noi ci sentiamo come tutti barcollare nella ricerca di una Verità spesso distante; siamo sempre sul crinale dell’angoscia ma c’è un di più per la nostra vita che dobbiamo accogliere e che si nasconde proprio nella nostra fede. C’è un tratto nel nostro cuore che ad un certo punto emerge, che sta in noi come una brace non ancora spenta che all’improvviso si avvampa di nuova forza, ed è la certezza che Dio, dal profondo silenzio dei secoli, è comparso sullo scenario della Storia e ha camminato in mezzo a noi aprendoci un nuovo orizzonte di senso, una possibilità di vivere, per esempio secondo il Vangelo delle Beatitudini, in modo radicalmente nuovo, è la certezza di non essere abbandonati, che tutto è nelle sue mani e anche noi non siamo dimenticati ma ricercati, voluti bene per quello che siamo, presi nel palmo della sua mano. Non siamo più uomini che a tentoni cercano di comprendere il Mistero di Dio, siamo persone visitate dall’alto, sorpresi dalla sua Grazia. I figli del Regno hanno nel cuore una gioia discreta che è frutto di una speranza antica e sempre nuova. Non è una maschera che ci poniamo con le nostre mani perché al primo colpo di vento dettato dalla sofferenza si spezzerebbe. La certezza dell’amore di Dio per noi sue creature può davvero cambiare tutto!
Proviamo allora a chiedere alla parola di questa domenica di suggerirci altri tratti dei figli del Regno.
Gli Assiri e gli Egiziani, ad est e ad ovest, spesso venivano a battaglia. Israele doveva compiere spesso la scelta di allearsi con gli uni contro gli altri e viceversa. Isaia annuncia il tempo della Riconciliazione, giorni in cui non solo i due popoli stipuleranno una pace ma abbracceranno la fede nell’unico Dio ed Israele sarà in mezzo a loro come un abbraccio di intercessione. I figli del Regno sono quelli che nei tempi della sofferenza, della battaglia, dello sconvolgimento guardano avanti con fiducia e sognano un orizzonte di pace; vedono i segni della primavera dove tutti vedono ancora l’inverno, vedono il rigonfiamento dei germogli sul ramo ancora secco; sanno che la storia, anche quella di ognuno, è in salita perché Dio è all’opera e allargano il loro cuore alla speranza e allo stesso tempo lottano, soffrono, intercedono per un mondo di pace, per una vita giusta e migliore.
Per dirla con Paolo, i figli del Regno sono quelli che penetrano i misteri di Cristo per illuminare ogni uomo. Non si può mettere una lampada sotto il lucerniere, diceva Gesù, perchè deve fare luce a tutti quelli che sono nella casa. I credenti non possono tenere fra le mani il dono di Grazia ricevuto perché presto si esaurirebbe: lo devono dividere e così si moltiplica: strana regola matematica! Significa che in ogni attimo della nostra vita noi siamo responsabili della gioia di chi ci circonda che non può prescindere dalla conoscenza di Cristo e della sua vita spezzata per noi.
E infine, secondo il Vangelo, i figli del Regno sono quelli che sanno che ha avuto inizio il vangelo di Cristo e la sua bellezza si dilata ancora oggi fra noi. Significa lasciarsi attrarre a colui che battezza in Spirito santo, ci fa trasalire e ci dona di entrare nella vita stessa di Dio. Ci sveste dell’uomo vecchio e ci dà il coraggio di essere eroi, santi, capaci di fare grandi cose, fosse anche di aggiungere una goccia d’acqua all’Oceano della Storia.

domenica 15 novembre 2009

I di Avvento

Inizia oggi un nuovo anno liturgico. L’anno Liturgico segna il tempo sacro nello scorrere del tempo ordinario, la Grazia della presenza di Dio nella debolezza della storia dell’uomo. Auguri perché la Parola che ascolteremo, i Santi Segni della Liturgia che incontreremo e il Pane che spezzeremo aumentino la nostra Fede e la Fede si trasformi presto in Carità così che possiamo essere davvero persone nuove, profumati di Vangelo, con in un cuore una grande speranza, con le mani piene di futuro. Sappiamo che il nuovo Lezionario ambrosiano è strutturato in 3 grandi cicli: il Mistero dell’Incarnazione, che parte con oggi e si compie prima della Quaresima. Il mistero della Pasqua del Signore che abbraccia la Quaresima e le settimane dalla Pasqua alla Pentecoste e poi il tempo della Pentecoste che va dalla da quella Festa fino a Cristo Re. Con oggi entriamo dunque nella prima parte del Mistero dell’Incarnazione, nel tempo di Avvento. Le letture di queste settimane ci aiuteranno a rivivere l’attesa del Messia da parte di tutto Israele: ci metteremo dunque in ascolto delle profezie antiche e diremo che questa attesa si è compiuta in Gesù. Ma non solo: l’Avvento, mentre ci prepara al Natale, ci aiuta a rimanere in attesa del compimento del Regno con il nuovo ritorno del Signore. Ci aiuta ad affinare quell’attesa definitiva del Risorto. Perché così come il Signore si è affacciato nella Storia rivelando il suo Volto e restando fedele alla sua Promessa ritornerà fra noie sarà festa!
Penso che l’Avvento ci consegni fondamentalmente questi tratti spirituali che vanno maturati ogni giorno nella preghiera che soprattutto in questo tempo deve farsi ascolto intenso e contemplazione ammirata:
- affinare il senso dell’attesa relativizzando il presente perché la luce del Risorto che tornerà già ora ci fa comprendere su cosa è necessario puntare la nostra vita e cosa invece non merita la nostra fatica. È un esercizio che ci libera da ogni ansia. Se si vive così quello che il mondo considera così importante, il potere, il successo e la ricchezza, in realtà non ha valore mentre solo l’amore conta.
- Relativizzare il presente al futuro però non significa fuggirlo, tradirlo, dimenticarlo. La vigilanza, che è il modo giusto di attendere il futuro, ci chiede di non sprecare nemmeno un attimo della nostra vita a imitazione di Cristo, cioè nell’amore e nella consegna di noi stessi ognuno con la sua vocazione.
- Avere nel cuore la certezza che il Padre mantiene sempre le sue promesse e quindi scoprirci figli amati, accuditi, circondati da ogni premura.
Il tema di questa domenica è la venuta del Signore. Le letture sono avvolte di un velo di castrofismo, richiamano l’imminente venuta del Signore come di un’ora di Giudizio ineluttabile, si fanno appello a restare fedeli all’Alleanza, ad essere nel presente figli della luce per essere riconosciuti e abbracciati da Dio. Vorrei soffermarmi in particolare sul brano del vangelo. Gesù coglie l’occasione per parlare dei tempi ultimi profetizzando la distruzione del Tempio e di Gerusalemme. Quando Luca scrive probabilmente tutto questo era già accaduto, e possiamo immaginare le reazioni di sconcerto, paura, il senso di sconfitta e anche di disperazione della comunità ebraica e anche di quella cristiana costrette ad abbandonare la propria terra e iniziare quel pellegrinaggio che si è protratto nei secoli, a sottostare a leggi di paesi culturalmente e religiosamente agli antipodi rispetto alla propria fede, a rischiare la vita per difendere le proprie radici. Ritrovare nelle parole di Gesù l’adempiersi della profezia doveva suscitare grande stupore, meraviglia, una luce. Se Gesù sapeva vuol dire allora che la storia non è dettata dal caso o dalle forze del male, che questo è un passaggio necessario, una crisi, una spaccatura con ciò che stava prima ma che fa da preludio ai tempi della stabilità del Regno. È possibile allora trovare speranza anche nei giorni della’marezza e dello sconforto, ritrovare dignità, alzare il capo e non guardare al cielo come ad un Nemico ma come ad un Dio che misteriosamente non ha smesso mai di accompagnarci e che ci prepara un futuro di pace. Senza questa contestualizzazione storica questa pagina rischia di essere incompresa. Ma cosa dice a noi in questo scorcio di inizio millennio. Forse che i tempi della distruzione, della violenza, della prova della fede, per cui ti trovi a pagare in prima persona se vuoi essere coerente con il Vangelo di Gesù, non sono ancora finiti, forse che i nostri giorni, come allora, sono preludio del Regno che certamente verrà. E più tarda a venire e più il cuore, di fronte alla scelta di raffreddarsi, invece deve raccogliere la sfida della vigilanza e tenersi caldo. Gli atteggiamenti che Gesù propone ai suoi valgono allora anche per noi e potremmo sintetizzarli con sue parole: il coraggio e la speranza.
Il credente è un uomo coraggioso, che guarda in faccia la storia, sa prendere posizione, sa discernere nel presente ciò che è giusto da ciò che è sbagliato al costo di pagare, di rimanere da solo, di affrontare a testa alta ogni sfida. Di più, il coraggio è l’agire del cuore (cor-agere), dunque significa non smarrire la propria anima, non svendere il proprio cuore, perseverare nell’amore pur fra mille paure. E poi la speranza. Questa forse è la cosa che contraddistingue più di ogni altro uomo il credente. La speranza infatti non è solo non cedere al pessimismo, non è un banale ottimismo ma è la convinzione che le cose non possono che andare bene perché chi ha in mano il timone della storia è il Dio della vita. La speranza è come una gioia discreta che nasce dal cuore e ti fa camminare con il sorriso mentre tutto attorno invita alla disperazione. La Speranza è ciò di cui più siamo a corto nel nostro mondo che è irrimediabilmente ripiegato sulle cose del presente e non sa più alzare lo sguardo. Il credente lo riconosci da come guarda le cose del presente e da come sa attendere il futuro in sé e negli altri.

sabato 7 novembre 2009

Cristo Re dell'universo

Non smetto mai di ricordare, quando celebriamo questa festa, la sua origine. È stato un vero e proprio azzardo quello di Papa Pio XI, in un tempo in cui regnavano i più terribili totalitarismi della storia, dire che l’unico vero Re è il Crocifisso Risorto, Gesù di Nazareth. Era una sfida aperta, conforme al suo carattere deciso e lucido, a chi aveva confuso il servizio della politica con il potere, a chi si era lasciato prendere dal delirio di onnipotenza, a chi pensava di potersi sostituire a Dio,a chi toglieva la libertà ai popoli in nome di una superiorità razziale e culturale, a chi pretendeva di lasciare un segno nella storia che poi si è rivelato essere morte, distruzione e violenza. E a distanza di quasi un secolo, oggi, possiamo dare ragione a questo grande Papa e dire che se tutto passa Cristo resta, che anche le ideologie apparentemente più forti hanno il loro tramonto, che tutto ciò che umano ha un inizio, si evolve e poi finisce. Rimane invece la Buona Notizia che Dio ha tanto amato il mondo da dare la vita del suo Figlio e che nell’abbraccio di quella Croce siamo anche noi raccolti dalle nostre strade disperse e diventati amici, addirittura familiari di Dio, con il cuore il segreto di un Regno in cui le coordinate di questo mondo vengono ribaltate e i piccoli sono resi grandi.
Ma c’è da dire che questa è anche l’ultima domenica dell’anno liturgico; si chiude un ciclo in cui il Signore ha spezzato in abbondanza il Pane della Parola e ci ha chiamati alla conversione e alla santità. Come per ogni stagione che si chiude, sarà importante in questa settimana fermarsi, trovare riposo nella preghiera per chiedersi cosa ne è stato di questo ascolto, quali passi abbiamo mosso in avanti per diventare più simili a Cristo e poi per lasciarsi sommergere dalla Misericordia per tutte le nostre distanze, le nostre incertezze, le nostre paure. Chiudere il tempo liturgico nel segno della regalità del Crocifisso Risorto è fare anche una professione di fede nella certezza che il nostro tempo non è destinato al nulla, il nostro mondo non va verso nessun annichilimento ma verso questo Signore che ha nelle sue mani il segreto del Tempo, i cardini della storia e prepara per noi un orizzonte definitivo di Pace. Il cristiano non può essere pessimista, è poco per lui essere anche ottimista: il cristiano vive già ora la Speranza del Regno e questo dona al cuore uno sguardo purificato su se stessi e sul mondo e anche una certa relativizzazione di tutto ciò che abbiamo attorno ma che sappiamo non essere la sola realtà. E così ci potranno essere avvenimenti che ci scandalizzano, che ci turbano, che ci toglieranno qualche volta il sonno ma mai nulla che distrugga la nostra pace, un po’come il mare che spesso è sconvolto da grandi tempeste ma solo in superficie perché nei fondali regna la calma più assoluta.
E ora veniamo alle letture che la Liturgia di quest’oggi ci propone. Il cuore è la scena della crocifissione e il perdono offerto al ladro e da qui le parole di Paolo che si fanno canto per un Signore che in modo del tutto inaspettato si è inabissato nella profondità della nostra umanità fino a toccare il punto più basso e che Dio ha risollevato nella Risurrezione, come un sì che lo ha tratto dalla morte perché l’amore non può avere fine, perché l’amore vince sopra tutto. E poi fa eco alla vicenda di Cristo la profezia del servo sofferente di Isaia che ha reso nella debolezza il suo messia segno di salvezza per Israele e luce per tutte le nazioni.
È un re strano quello che ci propone l’affresco della Parola e non smetteremmo mai di contemplarlo. Non ha potere se non l’amore che vince ogni cosa, anche le durezze dei cuori più ostinati come quello di un ladro che si pente e che è il primo a mettere piede in Paradiso, prima ancora di tutti i giusti del Primo Testamento. Non ha forza se non la debolezza che si spezza per accogliere la Potenza di un Dio che non abbandona mai. Non mette distanze con l’uomo, non ha gente che gli guarda le spalle, non ha nulla che lo protegga perché ha deciso di stare, condividere, fare comunione con tutti i poveri della terra e mettersi dalla loro parte fino a pagare di persona ogni cosa, fino a pagare per ogni persona. E in quella croce si riassume tutta l’Alleanza che Dio ha desiderato con il suo popolo, si riassume tutta la voglia di comunione di un Signore che ha messo la sua creatura accanto a sé e non sotto di sé e con lei desidera costruire un legame di amore.
Essere discepoli del crocifisso risorto, accogliere in noi la sua regalità ha conseguenze molto precise per i nostri giorni.
Anzitutto come comunità abbiamo la consapevolezza di essere stati generati dal fianco aperto di quella croce, in quel crocifisso noi ritroviamo la forza di essere nel mondo segno alternativo di un amore che sconvolge la logica del mondo. Insieme dobbiamo raccontare all’uomo di oggi che ci sono valori per cui vale la pena sporcarsi le mani e altri che bisogna mettere sempre su un piano secondo. Solo l’amore conta, la Chiesa perde se insegue segni di potere piuttosto che incidere nella storia con il potere sei segni che si richiamano esplicitamente al suo Maestro di Nazareth.
E poi anche noi come lui siamo chiamati a diventare luce per le nazioni, luce per tutte le persone che incontriamo negli attimi della nostra vita. c’è un agire discreto del credente che però deve incidere nelle strutture del mondo per renderlo simile al Paradiso. Se si accoglie Cristo come unico riferimento si apre un orizzonte di vita nuova.

domenica 1 novembre 2009

II domenica dopo la Dedicazione del Duomo

Ci sono parole che bisognerebbe centellinare tanto sono belle, tanto sono capaci di aprire il cuore e di dargli consolazione. Mi riferisco all’Epistola di Paolo agli Efesini. L’evento della Pasqua di Gesù ha riconciliato Dio all’umanità, ha dato pace al cuore dei pagani e al cuore degli ebrei: Dio non è il Giudice severo che imprigiona la nostra libertà in precetti e leggi che non sono capaci di saziare la nostra attesa di felicità; Dio non è un’invenzione dell’uomo che ha bisogno di idealizzare i suoi desideri più profondi o che ha bisogno di cercare parole capaci di aiutarlo a superare la sua atavica paura della morte: Dio è il Padre di Gesù che ama l’umanità e la invita a entrare nella sua logica, nel suo Regno, nella sua famiglia. Dio è promessa compiuta di eternità e il suo Amore incrocia i nostri desideri e dà loro compimento.
Mi chiedo spesso che cosa sarebbe stato se Paolo non avesse sognato durante una notte, ma forse era il sogno di tutta una vita, di oltrepassare i confini dell’occidente e annunciare il suo Vangelo e poi, in obbedienza allo Spirito, approdare in Macedonia.
E ancora cosa sarebbe accaduto se a Gerusalemme, durante quell’adunanza, i discepoli con gli apostoli avessero chiuso le porte del Vangelo ai pagani.
E poi ancora se il Vangelo non fosse approdato nelle culture di tutti i popoli lungo i tempi con lo sforzo dell’intelligenza e la missione di tanti uomini e donne.
Forse si sarebbe tradita la visione di Isaia che vedeva il Tempio trasformato in casa di preghiera per tutte le genti, si sarebbe tradito senz’altro lo slancio di Gesù di abbracciare uomini e donne oltre il confine della cultura d’Israele
Forse noi non saremmo qui oggi, forse non avremmo mai incontrato come compagno e amico della nostra vita il Dio dell’Alleanza, non sapremmo cosa significa amare sino alla fine, non potremmo poggiare i nostri piedi sulle orme di Gesù, la nostra vita sarebbe alla disperata ricerca di un senso, di un oltre capace di saziare le attese di felicità, saremmo con le mani tese al cielo per capire chi lo abita e non ci avrebbe sorpreso dall’alto la luce di un Dio che invece si fa mano tesa all’uomo, rivelazione inedita di un’Alleanza eterna.
Nel Vangelo Gesù racconta una parabola per dire alla sua gente l’urgenza di accogliere in lui il Messia, di non perdere per sempre l’attimo della fede, ma allo stesso tempo parla di una festa a cui iniziano a partecipare primi fra tutti persone inizialmente estranee al Regno, gli ultimi, i pagani.
Vorrei ora fare eco al brano di Vangelo e dire che anche per noi è possibile declinare l’invito alla festa del Regno quando la nostra fede si appiattisce nei moduli di sentieri già battuti e si fa formalismo, religiosità di facciata. C’è una terra nascosta in ognuno di noi, nelle profondità del nostro cuore, e che non è stata ancora toccata dal raggio del Vangelo. C’è un angolo di paganesimo in ognuno di noi, C’è una parte di noi che assomiglia a quei poveri che vivono sulle strade e che vorremmo volentieri lasciare fuori: sono le nostre ferite più nascoste, le nostre paure più vere, le nostre domande che urlano in noi, sono le ansie che ostacolano la nostra gioia e la nostra libertà. La Parola vuole invitare anche questa parte di noi alla festa del Regno, non tiriamoci indietro perché Gesù ci ama per quello che siamo e ci vuole guarire proprio come poveri pellegrini e ci invita a gettare le nostre maschere di efficienza e di autoreferenzialità.
Ma poi possiamo declinare l’invito quando noi non scendiamo sulle nostre strade e rinunciamo ad essere missionari nel nostro quartiere. Lasciamo mancare alla nostra festa figli che Dio ama,i nostri ragazzi, i nostri giovani, i nostri vicini o i nostri colleghi o per un eccesso di orgoglio, perché crediamo che non ne sono degni, o per un difetto di autostima perché crediamo che non ci darebbe retta nessuno. Il Vangelo è per tutti e desidera correre ancora sulle nostre strade, proprio ora: non possiamo fermarlo in noi, perché il suo dono presto potrebbe appassire.
Decliniamo l’invito alla festa quando ci mettiamo da parte e non accogliamo fra noi fratelli di altre culture o di altri popoli che devono incontrare il Vangelo come proposta credibile nella nostra Carità discreta.
Decliniamo l’invito quando ci assale la sfiducia e non pensiamo che questo nostro tempo è il tempo della Grazia per tutti gli uomini e che lo Spirito non vuole fare a meno del nostro sì per una nuova primavera.

sabato 24 ottobre 2009

I domenica dopo la Dedicazione del Duomo

Domenica scorsa, durante la festa della Dedicazione del Duomo, abbiamo pensato alla Chiesa come casa dell’uomo abitata dal Mistero di Dio, radicata in uno spazio e in un tempo preciso, profumata di popolo e per questo attrice, certo non unica, della storia della salvezza. La Chiesa è formata da pietre vive, ognuno con la sua vocazione, ognuno con la sua storia, e come comunità si deve pensare costantemente in missione, chiamata a stare sulle strade dell’uomo, lasciarsi rapire e portare dalla Parola di Cristo fino agli estremi confini della terra, fino alla fine dei giorni, per raccontare al mondo, con parole e segni, l’Amore del Padre. La Chiesa o è missionaria o non è. La missione fa parte della sua essenza, non è un’appendice giustapposta o il compito di pochi, non è l’attenzione di uno sparuto gruppo missionario parrocchiale ma la tensione di ogni credente. Non si può pensare a curare il piccolo gregge senza occuparsi di scendere sulle strade, non c’è identità cristiana senza apertura. Se vogliamo una comunità secondo il Vangelo non si può prescindere dalla missione. Fuori da questa chiesa ci sono persone che attendono il senso con domande a volte drammatiche sulla vita, domande che la frenesia e il frastuono non riesce del tutto a nascondere o a soffocare. E poi più in là ci sono poveri che abitano le nostre case, i nostri quartieri e la Chiesa deve attivare progetti di riscatto che altri non possono dare perché la vera promozione dell’uomo è l’annuncio di Cristo e ancora la comunità non può non metterli al centro perché Cristo parte dai poveri per una rivoluzione che cambierà i tratti di questo mondo nel Regno di Dio. E oltre ancora ci sono terre che attendono il Vangelo, una primavera che aiuterà anche le nostre città a reperire l’essenziale.
Oggi abbiamo ascoltato dell’incontro fra Filippo e l’eunuco. Mi impressionano questo sintonia fra lo Spirito e Filippo e la sua corsa per raggiungere la carrozza anche più del dialogo che intercorre fra i due. La prima missione accade sulle strade del nostro mondo aprendoci ai segni dei tempi. Assecondare lo Spirito significa avere una dimensione contemplativa nella propria vita, vuol dire stare con Cristo e ascoltare la sua Parola certo nei tempi che la vita di tutti i giorni ci concede. Non c’è missione se prima non c’è comunione con Gesù. Ma poi si deve correre dove c’è qualcuno che si pone grandi domande ed essere al suo fianco al momento giusto per raccontare come Cristo sia la risposta alla sete di felicità del nostro cuore. E questo accade sul pianerottolo di casa, sulla strada, sul posto di lavoro, sull’autobus o in casa con il proprio compagno e i propri figli, sul muretto che sta appena fuori di questa chiesa o nel cortile dell’oratorio con i nostri giovani. Più che le parole bastano a volte solo la presenza discreta e silenziosa accompagnata da una coerenza affascinante. Ci viene detto oggi che non tutto si può esaurire nel cenacolo, in quella stanza al piano superiore dove i discepoli si ritrovavano. Ritirarsi là certo è importante perché permette di stare cuore a cuore con Cristo, di salire, di cambiare prospettiva sul mondo assumendo lo sguardo stesso di Dio. Ma poi da lì bisogna uscire con la voglia di fare come Cristo nella storia di oggi. In altra parole, la parrocchia deve offrire spazi di contemplazione, attimi in cui si respira la forza della vita comune nella festa e nell’accogliersi come fratelli senza guardare all’apparire, fasciando uno le ferite dell’altro, ma poi il gioco si conduce fuori. Non possiamo essere imprigionati nello spazio angusto del recinto della parrocchia, non si può pensare che l’essere credenti si esaurisca nel confine delle iniziative comunitarie. Dobbiamo spiccare il volo dalla comunità verso il mondo e poi da lì ritornare in comunità magari accompagnati da qualche fratello in più che si è lasciato affascinare dalla nostra gioia e ci chiede qual è la sorgente della nostra vita.
E poi la lettura del Vangelo in questo scorcio conclusivo di Marco. Gesù sale al cielo, lascia posto alla comunità di portare a compimento la storia della salvezza e lui continua a camminare con loro confermando la Parola con i segni. I segni raccontati nel vangelo sono accaduti e forse accadono ancora oggi nella Chiesa. Mi lascio suggestionare e provo a trovarne un significato simbolico.
1 scacciare i demoni. Chi si è lasciato attrarre da Cristo, è divenuto suo discepolo e apostolo è presenza di bene nel mondo. Dove c’è lui non ci può essere compromesso con il male, anche se non è eclatante. Il credente si immerge nei meccanismi della storia e della società, li conosce ma sa che non è del mondo. Questo comporta lucidità, valore etico altissimo, e anche una dose di sofferenza personale che è come un prezzo da pagare. Il Male infatti si accanisce e distrugge, tende a possedere e ad annidarsi nelle pieghe oscure dei cuori. A volte non è facile riconoscerlo e stanarlo e quando questo accade ti si avventa contro. Serve dunque una capacità di preghiera e di purezza di cuore che solo Dio può darti.
Parlare lingue nuove. È la capacità di andare a tutti e parlare la lingua di tutti, cercare di comunicare per creare una relazione promettente, buona, sincera. Non c’è nessuno, di nessuna parte del mondo, di nessuna condizione sociale e culturale che non possa accoglier e il vangelo di Cristo. Il credente è uomo di relazione e non sfugge al confronto.
Prendere in mano i serpenti e bere i veleni senza morire. Mi viene in mente la capacità dell’uomo di fede di prendere in mano i problemi dal verso giusto e di non lasciarsi avvelenare da questi. Il credente è occupato delle cose del mondo, degli altri, di cambiare la società facendosi lievito e sale al suo interno. Non è pre-occupato, non mete prima davanti se stesso lasciandosi poi deprimere e schiacciare. C’è una bella differenza fra occuparsi e preoccuparsi!
Imporre le mani ai malati e guarirli. Penso che sia la scelta di campo che l’uomo di fede deve fare per essere fedele a Gesù. Anche lui partiva infatti dai poveri, gli esclusi, gli ultimi, quelli che la vita aveva drammaticamente segnato. È la scelta i stare con la feccia della storia, della società convinti che però da qui può sgorgare un mondo nuovo. Lo stile di Carità, questo, penso, in sintesi sia l’ultimo invito, non è semplice assistenzialismo, lasciare cadere nella mano del povero qualche cosa di superfluo della nostra vita, ma è farsi loro compagni e guarirli, trovare spinte di riscatto, di sviluppo e di promozione umana.
Paolo, nell’Epistola, afferma che Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della Verità. Che brivido ci prende nel pensare che Dio ha deciso di fare tutto questo non senza di noi, proprio noi, deboli creature nelle sue mani forti. E questo brivido se diventa stupore e progetto sarà una vera e propria rivoluzione che parte dal basso, dalle vene di questa nostra storia.

martedì 20 ottobre 2009

Solennità della Dedicazione del Duomo di Milano

Nel nuovo Lezionario ambrosiano questa solennità si fa cerniera attorno a cui il tema delle letture, nel contesto della storia della salvezza, da Gesù, come centro e culmine, ruota sul mistero della Chiesa e sul suo mandato missionario di annunciare il Regno di Dio fino agli estremi confini della terra, fino al giorno del ritorno del Messia. La storia della salvezza ha trovato il suo centro in Gesù e prosegue nella Chiesa: anche noi dunque, quando viviamo la Liturgia, la Carità e la Missione, siamo protagonisti nel sogno di Dio di amare l’uomo e di creare con lui un’alleanza che profuma di eternità.
Il Signore ci chiede oggi di soffermarci sul mistero della sua Chiesa a partire non da un’idea astratta ma dalla sua concretezza di comunità radicata nel tempo e nello spazio. Oggi si ricorda la Dedicazione della nostra Cattedrale, di questa Chiesa attorno a cui nasce e continua a palpitare la comunità dei fedeli ambrosiani. La prima cosa che mi viene da dire è un grazie al Signore perché se oggi noi possiamo credere, se oggi è possibile dirci cristiani, seguire e amare Gesù e fare di lui il segreto della nostra vita, è perché concretamente uomini e donne prima di noi non hanno interrotto la corsa del Vangelo, non si sono chiusi nel loro orizzonte esiguo, non si sono risparmiati fatiche e anche dolori e hanno reso credibile e affascinante la fede. E anche noi dobbiamo raccogliere questo testimone e non risparmiarci in nulla perché la fede continui a correre, trasformare e rendere più belle le strade di questa nostra città. E se dopo di noi qualcun altro crederà è perché non ci siamo risparmiati questa passione per il Vangelo di Cristo.
Però mi spinge ad essere provocatorio il nome rinnovato di questa solennità, Dedicazione del Duomo di Milano Chiesa Madre di tutti i fedeli ambrosiani. Chiesa, madre o matrigna? A volte ci viene da pensare che oggi si creda nonostante la Chiesa e non grazie alla Chiesa. Ci sono delle cose che non comprendiamo della Chiesa, ci sono vere e proprie derive che a volte ci scandalizzano, ci sono dei no o delle arretratezze che ci fanno a volte vergognare. E più ci entri nella Chiesa e più si fa forte la tentazione di lasciare l’argine e di dare una sterzata tutta personale alla nostra fede. È la tentazione che hanno vissuto anche molti santi o uomini di grande fede. Ma alla fine hanno compreso che le cose si cambiano dal di dentro e non dall’esterno, che il Signore ci chiede qui e ora di rendere più bello il volto della sua sposa casta et meretrix, che senza Chiesa noi non avremmo il Vangelo, l’Eucarestia e la Riconciliazione. A mio avviso si devono prendere sul serio le provocazioni sulla Chiesa del mondo che ci circonda perché spesso, in esse, si nasconde una domanda vera e un’esigenza di santità. Si deve, anzi è doveroso talvolta denunciare le derive della Chiesa, la sua costante tentazione di allontanarsi dal suo Maestro che aveva scelto la via del silenzio, della piccolezza e della croce. Ma alla fine io come pietra viva della mia Chiesa in cosa non devo tirarmi indietro perché le cose siano diverse? Nella mia comunità quale è il mio posto che un altro non può occupare?
E prendiamo ora in mano le letture di oggi, proviamo a sottolineare qualche aspetto, a mettere in evidenza i nodi cruciali attorno a cui possiamo delineare un vero e proprio progetto di Chiesa così come sta nei sogni di Dio.
Si parla, nella Lettura, di un popolo giusto per cui è stata preparata una dimora fondata sulla Giustizia. Nella Parola la Giustizia non è intesa solo come rettitudine morale o atteggiamento che sta nei canoni del diritto. Essere giusti significa essere amici di Dio, lentamente lasciarsi trasformare da lui ed avere il cuore simile al suo, che è pieno di misericordia verso tutti e in particolare verso i poveri. Costruire la chiesa sulla Giustizia è un compito che riguarda anzitutto Dio che ci vuole giusti, sua immagine. Ma è anche un compito nostro e dobbiamo immergerci sempre nel cuore di Cristo per diventare simili a lui, per palpitare dei suoi stessi sentimenti. Non posiamo accontentarci di una religiosità di facciata. La nostra fede deve modellare in profondità il nostro cuore, il nostro essere, deve incarnarsi anche nelle fibre più nascoste del cuore e farsi atteggiamento di misericordia e di passione per l’uomo di sempre. Solo una Chiesa così sarà credibile.
Nell’epistola oggi Paolo ci chiede di costruire su Cristo il nostro fondamento, la nostra comunità, la nostra vita. Vorrei leggere in questo passo la preoccupazione educativa della Chiesa di sempre e che oggi si fa vera e propria emergenza. Abbiamo bisogno di uomini e di donne, appassionati di Cristo, che spendono la loro vita in mezzo ai giovani, che camminino al loro fianco e non sulle loro teste, che vogliano marcire nella loro storia ma per indicare che la vita ha senso solo se si poggia sull’amore di Dio per noi e solo se si allarga nell’orizzonte di un amore verso i fratelli che rende davvero felici. Quale futuro stiamo preparando alla nostra Chiesa se non costruiamo una relazione autentica di fede con i nostri giovani?
E infine il Vangelo ci racconta di un popolo nuovo che si raccoglie attorno a Cristo e che segue la sua voce perché si sa amato. C’è una verità per la Chiesa che non andrebbe mai dimenticata: è l’amore di Gesù per noi. E proprio questo amore ci fa sentire a casa nonostante i nostri limiti e le nostre fughe. Abbiamo bisogno di una Chiesa che segua con fedeltà le orme del Maestro, forse meno avvinghiata ai segni del potere ma certamente, con il potere dei segni, ancora capace di affascinare al Vangelo.

sabato 10 ottobre 2009

VII domenica dopo il martirio del Battista

1 Gesù è davvero il senso della Storia e delle nostre storie. L’itinerario di queste domeniche ci ha condotto per mano a scoprire il volto e le parole del Maestro di Nazareth e ci chiede di scegliere lui come il perché della nostra vita.
E se settimana scorsa il Vangelo ci ha parlato di un Regno a cui Dio vuole che anche noi prestiamo mano, in cui ogni uomo ha il diritto di entrare e piantare i paletti della sua tenda, oggi stiamo scoprendo i suoi lineamenti, il suo segreto, la sua misteriosa verità. Siamo nel cuore del Vangelo di Matteo, il centro di tutta la sua opera che è dedicato al Discorso in parabole del Regno. A qui arriva tutto l’annuncio del Vangelo fatto sulle strade di Galilea e da qui si dipana il cammino che porterà Gesù a dare la vita; in altre parole, se vuoi scoprire chi è il Maestro che ha affascinato le folle con le sue parole e i suoi gesti devi entrare nella profondità del mistero del Regno e se vuoi scoprire qual è il segreto che ha spinto Gesù ad affrontare la croce nella certezza della Risurrezione è per amore di questo Regno che fiorisce proprio mentre il seme muore.
2 Il Regno dei cieli è come…queste tre Parabole! Il Regno non è solamente il Paradiso: è il costante agire di Dio in mezzo a noi; già ora, già qui, se ti lasci aprire gli occhi da questa Parola, lo puoi vedere.
Le Parabole non andrebbero mai spiegate, non si può farne una versione in prosa, non si possono aggiungere didascalie che le renderebbero noiose e inefficaci. La Parabola era il modo che Gesù si era scelto per parlare di cose complesse ma usando il linguaggio dei semplici, attingendo alla vita quotidiana similitudini che aprissero l’intelligenza per accogliere il segreto dell’agire di Dio. Ma la Parabola è anche provocazione, come quella ascoltata settimana scorsa, che serviva per demolire assuefazioni o sclerotizzazioni per suscitare curiosità e la voglia di comprendere meglio il messaggio del Maestro. Si coglierà il senso profondo di questa Parola solo seguendo Gesù e amandolo.
Cosa ci dicono i racconti di oggi.
1 il regno è come questo campo su cui qualcuno, accanto al buon seme, ha gettato anche della zizzania. Le piante crescono e solo alla fine, al momento della mietitura, si può discernere quella buona dalla cattiva. E solo allora la zizzania sarà bruciata. Scegliere il Regno non significa estraniarsi dal mondo, tirarsi fuori dalla battaglia del male contro il bene, non sporcarsi le mani con la storia e le sue contraddizioni. Qui siamo chiamati a stare e a portare il nostro frutto buono, e beato chi avrà il coraggio di perseverare! Allo stesso tempo siamo chiamati alla pazienza, alla lungimiranza, a mettere nelle mani di Dio solo il discernimento sugli altri. Non ci è permesso di sradicare nessuno. Solo alla fine Dio renderà giustizia. Come Chiesa, che non è il Regno ma ne fa parte, come comunità ogni tanto sentiamo anche noi la tentazione di alzare i muretti, ad arroccarci su presunti privilegi, di ritenerci parte santa, giusti incalliti poco attenti però ad aprire le braccia a chi bussa alla nostra porta, a chi, avendo sbagliato, ha però voglia di rialzarsi e camminare con noi. La Chiesa oggi deve essere certamente segno della Giustizia di Dio ma che non è mai senza Misericordia, anzi è proprio l’annuncio dell’amore e del perdono a dare anche i contorni chiari alla Giustizia.
2 Il regno è come il granello di senape, piccolissimo ma che, una volta cresciuto, dà una pianta straordinariamente alta; è come il lievito sprofondato nella pasta che però la fa fermentare. Il regno è dinamica, è movimento. È forza nascosta che ad un tratto esplode. Il Regno a volte lo trovi accanto a te piccolo come un semino o come un frustolo di lievito e ad un tratto ti sorprende per la sua maestosità. A volte ci si scoraggia nel pensare che noi siamo chiamati, come Chiesa, solo a porre piccoli segni del Regno. Ma altrove quei segni sono diventati un’evidenza inconfutabile. E non per merito nostro ma perché Dio non si stanca di agire in mezzo a noi, lavora nel segreto, ci tiene al mondo e non vuole che neanche uno dei suoi figli vada perduto. Qui si fa eco la lettura di Isaia che promette a Israele cose nuove, fiumi nella steppa e nel deserto. Assumere questa prospettiva significa disfarsi della nostra lamentazione, della mormorazione, della disperazione. Questi non sono tempi difficili perché Dio è con noi. Questi non sono tempi bui perché c’è la luce del sorriso del Padre che accompagna i nostri giorni. Questo non è il tempo per tenersi ostinatamente ancorati alla riva ma il momento di solcare e prendere il largo, sempre più in là senza il timore di perdere perché Dio lavora dalla nostra parte e quando meno te lo aspetti ti consola con l’evidenza del suo Regno.
Che bello concludere allora sottoscrivendo quanto dice Paolo nell’Epistola di oggi. Noi siamo chiamati, ognuno per la sua parte, a condividere l’opera di Dio nella Chiesa e nel mondo; ognuno con la sua strada edifica il Regno, ognuno con le sue forze cerca di dare forma al sogno di amore del Padre. E non si può uscire di qui che con il sorriso, l’annuncio del Regno di oggi ci regala un senso inedito e promettente da vivere insieme.

sabato 3 ottobre 2009

VI domenica dopo il martirio del Battista

Di fronte alla Parola appena proclamata, invito tutti a gettare via la maschera del buonismo e a lasciare emergere il proprio disappunto, le nostre obiezioni. Questo padrone si meriterebbe una bella denuncia da parte dei sindacati! È vero, non è venuto meno al salario pattuito con gli operai della prima ora, certo però che non è stato rispettoso e forse nemmeno giusto: non ha badato alla fatica dei primi premiando anche gli ultimi con la stessa paga. Quella della provocazione doveva essere uno stile consueto nella predicazione di Gesù…conosciamo anche un figlio maggiore che aveva da obiettare al padre le stesse identiche cose di questi operai di fronte all’accoglienza e alla festa riservate al figlio minore fuggito di casa per sperperare tutti i suoi averi. Che senso ha avuto lavorare nella vigna di Dio dal primo momento? Comprendiamo e fino ad un certo punto condividiamo la preoccupazione che nessuno rimanga escluso e senza lavoro, ma insomma, un merito nell’aver lavorato sodo e fin dall’inizio dovranno pure averlo? Così facendo in un certo senso vengono vanificati la fatica, l’impegno, il loro ruolo e la loro identità.
La Parola così provocante di oggi ci deve aiutare a fissare meglio il volto del Padre di Gesù. Dio ha un criterio di Giustizia completamente differente dal nostro. La sua preoccupazione è che nessuno dei suoi figli rimanga escluso: è davvero struggente l’immagine di questo padrone che continua a uscire sulle strade e sulle piazze a cercare operai per la sua vigna; ma non solo: è abituato a dare in gratuità, indipendentemente dalle opere. Esserci è per lui più importante del fare. Conta abbandonarsi al suo abbraccio, approdare anche dopo un cammino tortuoso al porto del suo amore, lasciarsi raggiungere dalla sua Grazia e abbattere il muro di ogni orgogliosa autosufficienza. Accogliere un Vangelo così significa anche ricomprendere la nostra identità. Questa testarda inclinazione ad accogliere e a donare il primo posto anche agli ultimi non toglie nulla a nessuno, anche perché non è così semplice capire chi sia arrivato prima o dopo. Siamo figli teneramente amati perché ricercati, attesi, voluti, desiderati. Non sarà il sentiero su cui ci siamo smarriti a impedire a Dio di venire a cercarci e a portarci a casa sulle sue spalle. Le opere buone non sono principio della nostra salvezza ma esito, conseguenza. Perché salvati impariamo a fare bene,a fare il bene proprio a immagine del Padre.
Oggi la nostra parrocchia è in festa per il suo oratorio che riprende le sue attività ordinarie dopo lo straordinario periodo estivo. E facciamo bene a fare tutti festa perché, nonostante tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni, l’oratorio è ancora il segno della nostra preoccupazione educativa per i ragazzi del nostro quartiere. Un segno perché non si esauriscono in esso tutte le possibilità educative; un segno perché interpella e dice che, aldilà dei muri che gli adulti spesso alzano per paura nei confronti dei più giovani, educare è ancora possibile; un segno perché ci dice che ogni possibilità di una vita felice, compiuta, realizzata non può prescindere dall’annuncio del Dio di Gesù. così ne parla il cardinale Arcivescovo nel messaggio per la festa di riapertura degli oratori L’oratorio, attraverso l’insieme delle sue proposte e attività, è davvero una casa delle vocazioni, perché è il luogo nel quale ciascuno viene educato a fare della sua vita un dono per gli altri, secondo il progetto d’amore di Dio. Tutto questo avviene anzitutto con lo stile semplice e concreto della testimonianza di quanti – genitori, educatori, catechisti, animatori, allenatori li ringrazio con tutto il cuore e ringrazio Dio per averli incontrati nella mia vita – mettono a disposizione con intelligenza e generosità il loro tempo e i loro carismi per aiutare i ragazzi, gli adolescenti e i giovani a riconoscere la presenza dell’amore di Dio nella loro vita e insieme per accompagnarli nella scoperta dei doni – sempre numerosi e grandi – che il Signore fa a ciascuno di noi per il bene di tutti.
Vorrei che la Parola di oggi consegnasse agli educatori e a tutta la nostra comunità qualche suggerimento per fare del nostro oratorio sempre più un segno della presenza del Regno di Dio
L’oratorio deve avere sempre più il muretto basso e il cuore ardente per accogliere tutti, perché tutti i ragazzi si sentano voluti bene e considerino come promettente il cammino di santità e l’amicizia con Gesù, perché tutti loro hanno il diritto di esserci a prescindere.
L’oratorio deve essere casa dove si fa festa per ogni fratello che bussa alle sue porte: non c’è spazio per la mormorazione. L’apertura incondizionata non è sinonimo di identità debole, ma coraggiosa testimonianza dell’amore del Padre.
Vorrei che in ogni sorriso, in ogni gesto premuroso dei catechisti e degli educatori, degli allenatori e degli animatori ci fosse un riflesso dell’amore del Padre perché il vangelo si trasmette più con i gesti che con le parole. Ma di questo amore dobbiamo essere solo un riflesso, in questo amore dobbiamo noi per primi specchiarci.
Chissà se per qualche Agostino del nostro quartiere noi riusciremo ad essere risposta alla sua preghiera
Signore, io non sono capace di pregare:
mai nessuno me lo ha insegnato!
Anche adesso non so cosa dirti: ma tu esisti?
Se esisti, perché non ti fai veder da me?
Forse pretendo troppo!
Le vette, il mare, i fiori
tutto il creato parla di te
ma io non sono capace di scoprirti.
Dicono anche che l’amore
sia una prova della tua esistenza:
forse è per quello
che io non ti ho incontrato:
non sono mai stato amato
in modo da sentire la tua presenza.
Signore, fammi incontrare un amore
che mi porti a te, un amore sincero, disinteressato
fedele e generoso
che sia un poco l’immagine tua.
(preghiera di Agostino, un ragazzo del centro salesiano di Arese, ritrovata nei suoi diari dopo la sua morte a 16 anni)

sabato 19 settembre 2009

IV domenica dopo il martirio del Battista

Il pane è buono
Il pane è gioia, abbondanza
Il pane è frutto del sudore della fronte e dono sorprendente della terra, di Dio
Il pane è segno di condivisione e dunque di amicizia.
Il pane era piovuto dal cielo come manna nel deserto lungo il cammino verso la Terra e, per mano dell’angelo, nello stesso deserto, aveva sfamato Elia in fuga verso l’Oreb. Sarà per tutto questo che Gesù parla di sé come il Pane disceso dal cielo perché lui è buono, accoglierlo significa aprire il cuore alla festa, alla gioia, alla sovrabbondanza della Misericordia del Padre, alla sua forza che ti sostiene nei momenti di debolezza o di sconforto, significa imparare a fare della vita un dono da condividere con chi ti è accanto. Ma non solo.
Il Pane si deve spezzare per essere mangiato, deve sparire, in un certo senso, per dare forza e vita.
Nel racconto del Vangelo di oggi, collocato subito dopo la moltiplicazione dei pani, segno che aveva suscitato grande stupore e clamore in chi aveva assistito e mangiato - tanto che volevano fare di lui il loro re - Gesù, che si è defilato da sterili trionfalismi, spiega che proprio come un Pane la sua vita sarà spezzata per la sua gente, sarà il Messia che si consegnerà per amore sulla croce, si presterà ad essere divorato e proprio questo permetterà di entrare in comunione con lui e con il Padre, perché farà conoscere l’amore di Dio per l’uomo e convincerà a scegliere di fare della propria vita, a sua immagine, un dono totale di sé, in pura perdita di sé. Il capitolo si chiuderà male. Già oggi abbiamo ascoltato le prime obiezioni che diventeranno rifiuto categorico tanto che, oltre ai 12, con Gesù, non rimarrà più nessuno: questo linguaggio è duro, chi può intenderlo? È facile stare dietro a chi dà pane, è difficile stare dietro a chi si fa Pane e ti chiede di fare della tua vita altrettanto. È facile credere in un Dio che è proiezione ideale delle nostre immagini, dei nostri deliri di onnipotenza, quando abbiamo bisogno di avere le mani colme di doni; è difficile credere in un Dio che si fa uomo, debolezza incarnata, appello scottante alla nostra libertà perché decidiamo di fare comunione con lui e che le sue scelte diventino le nostre scelte, la sua vita la nostra vita. E nell’ora della croce, quando la scelta di morire per amore è diventata da progetto evidenza, Gesù sarà da solo.
Paolo ci dice che questo mistero della croce, finché egli venga, si ripete ogni volta che facciamo comunione in chiesa, ogni volta che spezziamo il Pane ricordando le sue parole. Qui, oggi, ora incontriamo lo stesso Gesù di quel racconto di Giovanni, con la sua stessa determinazione ad essere Pane della Vita, con la sua stessa voglia di fare comunione con noi, con la sua stessa proposta di fare della nostra vita un’immagine della sua.
È un’avventura davvero pericolosa quella della Messa, non ci dovremmo venire a cuore così leggero perché qui non incontriamo un Dio qualsiasi ma il Padre di Gesù e la sua esigenza di amore radicale. C’è da mettere anzitutto in discussione la nostra idea di Dio. C’è da aprire tutto il nostro cuore e permettere allo Spirito di spaccare i muri più resistenti per farci plasmare dalla Grazia. C’è da riordinare la nostra scala di valori e uscire da questa chiesa come un fiume in piena incontenibile per la voglia di erompere e di sommergere il nostro prossimo nella carità.
A noi decidere se proseguire o lasciare il posto.

sabato 12 settembre 2009

III domenica dopo il Martirio del Battista

L’itinerario di queste domeniche ci ha portato a riscoprire in Cristo il culmine e il centro della storia della salvezza e anche della nostra storia. Lui è lo Sposo annunciato dal Battista che ha preso per mano il suo popolo in un’alleanza di amore eterno, lui è il Mistero di fronte al quale il nostro cuore deve decidersi e se gli spalanchiamo le braccia della nostra vita nulla sarà più come prima: la Parola di oggi ci indica i termini di questa novità.
Chi accoglie Cristo non crede più in Dio…crede in Dio Padre, ed è una bella differenza! Scopre, conosce, ama un Dio che ha abbattuto ogni distanza con la sua creatura e le si è fatto prossimo. Un Dio che non gioca con le paure dei suoi figli, che non ama tenere le distanze e giocare con le nostre vite come un abile burattinaio, un Dio che non è la proiezione delle nostre idealità, non è un insieme di regole e di precetti, di dogmi da osservare scrupolosamente, ma un Padre che scommette ogni cosa sull’amore, che rispetta la nostra libertà, che si è avvicinato con discrezione alla nostra vita bussando alle porte del nostro cuore, un Padre che ha deciso di attrarci a sé con la debole forza dell’amore e ci chiede di lasciarci trasformare interamente da lui e dalla sua Parola.
Chi accoglie Cristo ha una prospettiva in più sulla sua vita, quella che più conta: l’eternità nel frammento di ogni attimo, ha la certezza di vivere nella casa del Padre.
Chi accoglie Cristo crede che la propria vita è preziosa quanto la sua Vita e che come lui anche noi siamo i prediletti figli di Dio, amati per quello che siamo più che per quello che dobbiamo dimostrare, crede di essere stato riconciliato nel suo sangue versato e in quelle mani trafitte d’amore, sa che l’Amore di Cristo si è fatto arrendevolezza e dono totale, sa che sulla croce sta l’abbraccio fra Cielo e Terra, sa che non c’è peccato più grande dell’amore crocifisso, sa che non c’è ferita così profonda che Cristo non possa guarire.
Chi accoglie Cristo ha una speranza su di sé e sul mondo che, anche nei giorni dell’afflizione o della paura, nessuno potrà strapparci e che si rivelerà con una gioia incontenibile.
La novità di Cristo va accolta dall’alto perché è un dono che ci sorprende, ci afferra, appunto, da sopra. Quindi non è frutto del nostro impegno ma un dono che bussa alle porte della nostra vita e che noi, in libertà totale, siamo chiamati a ricevere e a scartare. Bisogna lasciarsi andare, bisogna abbandonarsi, bisogna affidarsi e più credi e più comprenderai e più comprenderai e più crederai in lui. Come il soffio del vento arriva e ci dona sollievo o scompiglia le nostre carte, così Cristo arriva all’improvviso nelle nostre cose e prepotentemente mette a soqquadro le carte dei nostri schemi rassicuranti. Proviamo a pensare a quando Cristo si è affacciato alla nostra vita e magari un turbine di novità ci ha afferrati e nulla più è rimasto come prima oppure, magari, in modo più semplice e tranquillo, Cristo si è affermato nei nostri cuori come una Verità a cui però adesso non sapremo mai più rinunciare.
Ma la prova che Cristo ci ha conquistati, che questa rinascita dall’alto è avvenuta e che siamo creature secondo lo Spirito sta nella nostra capacità di piegarci verso il basso e fare come lui, gettarci nelle pieghe della nostra città, affondare nelle vene della nostra storia, deciderci di sporcarci le mani nella melma della povertà e della disperazione per essere un segno di amore, per costruire qui e ora un angolo del Regno di Dio portando a termine un compito che spetta a noi. È nella Carità l’evidenza che Cristo ci ha conquistati, è nella fattività di un amore discreto e operoso che si vede se siamo rinati dall’alto, sta, per fare eco alla lettura di Isaia, nell’essere beati perché assetati di giustizia e operatori di pace.
Vorrei però concludere la mia omelia di quest’oggi con una dedica speciale a tutti quelli che ancora non si sono decisi per Cristo e che tuttavia si sono lasciati attrarre dalla sua bellezza e in lui, in un dialogo appena iniziato, stanno cercando le risposte più autentiche ai loro perché. Penso a chi assomiglia a Nicodemo, un personaggio che mi ha sempre affascinato che va da Cristo di notte per paura di essere visto ma che non ha paura di mettersi in discussione con le sue domande, decide di dare spazio alla sua inquietudine e solo alla fine, ai piedi della croce, troverà il coraggio di dire il suo sì a Gesù e alla fede in Dio Padre. È grande cosa l’inquietudine e, ai nostri giorni, è grande cosa lasciarle spazio e non soffocarla. La fede può essere un ruscello che dolcemente diventa fiume ma può essere anche l’eruzione di un vulcano da troppo strozzato. Chi arriva a Gesù per la via dei suoi mille perchè avrà una fede così. Fare il primo passo verso Cristo è già una decisione impegnativa, bisogna solo farsi rapire dalla sua bellezza e non avere paura di dargli tutto perché non toglie nulla e ci restituisce la nostra umanità rinnovata, approfondita, ingigantita. E finalmente il cuore avrà trovato a fonte della pace.

sabato 22 agosto 2009

domenica che precede il martirio del Battista

1 Avevamo già studiato la mappa che il nuovo Lezionario Ambrosiano ci mette fra le mani in queste domeniche che sono seguite al mistero della Pasqua. Ci sono due punti fermi che fanno da cardine per i temi delle letture e sono rispettivamente la memoria del Martirio del Battista al 29 di agosto, da qui il titolo di questa domenica, e la festa della Dedicazione della Chiesa Cattedrale alla III di ottobre. Le domeniche che precedono la memoria del martirio del Battista ci hanno fatto ripercorrere l’intera storia della salvezza dalla Creazione al dono della Legge sul Sinai fino alle vicende di Israele al tempo dei Re e oggi all’episodio struggente dei Maccabei che non hanno esitato a dare la loro vita piuttosto che rinunciare alla fede durante la dominazione nel I sec. a. C. in Israele di Antioco Epifane, della dinastia dei Seleucidi: il suo era un potere non solo politico ma anche culturale che mirava a distruggere le radici giudaiche introducendo nuovi costumi e nuovi culti avversi alla Legge di Mosè. Le domeniche che seguono questa festa ci aiuteranno a cogliere la presenza del Verbo nella Chiesa e ci prepareranno a celebrare il giorno della Dedicazione. Così che da quella Domenica fino all’Avvento ascolteremo le parole che muovono la missione della Chiesa di annunciare la Parola fino agli estremi confini della terra.
2 il coraggio della fede: mi sembra questo il tema di oggi che posiamo rintracciare nella Lettura, nell’esperienza di Paolo e nel brano di Vangelo. Cerco di mettere in evidenza alcuni spunti della Parola cercando di lasciarla parlare anche a noi, credenti chiamati ad accettare la sfida di questo tempo, perché oggi più che mai abbiamo bisogno di cristiani così, di cristiani coraggiosi!
Parlare senza doppiezza come i Maccabei di fronte al tiranno, come Paolo che nel nome della speranza della Risurrezione si arroga il diritto di parlare e di non tacere la Verità del Vangelo della morte e risurrezione del Cristo Gesù, come ci chiede Gesù senza timore di chi può uccidere il corpo, dunque senza volere compiacere nessuno e mettersi al riparo dalla fatica e dalla croce, con estrema chiarezza e semplicità: il Vangelo non tollera il conformismo, quel galleggiare a destra e a sinistra a seconda della personale convenienza e dei propri vantaggi al caro prezzo di svendere però la libertà asservendosi ai potenti di turno. Per noi oggi significa bandire quell’ipocrisia clericale che è diventata proverbiale e che spesso aleggia nelle sacrestie, significa fare la scelta di campo di stare sempre e comunque all’opposizione, come diceva don Milani, significa abbracciare i nostri valori e non svenderli, significa gridare per esempio che la Vita è sacra dal suo inizio alla sua fine naturale e dunque lottare e costruire da parte nostra con fatica una società in cui sia riconosciuta la dignità ad ogni uomo e soprattutto ai più poveri; significa ribadire che agli occhi di Dio è preziosa anche la vita di un emigrato ed è contro il Vangelo tradire ogni naturale diritto all’accoglienza, alla sopravvivenza, alla possibilità di riscatto e di emancipazione di chi abbiamo noi impoverito fino alla fame; significa che è ingiusto mettere al bando i clandestini e gettare sulle loro spalle la colpa della nostra precarietà.
Il timore di Dio ci rende temerari: mi piace sintetizzare così un altro passaggio della Parola di oggi. Se decidi di metterti nella mano di Dio, il timore sacro è vivere alla sua presenza e sapersi creature, devi alzare la fronte e non temere nessuno. Non è sfrontatezza ma il coraggio di portare avanti assieme a Dio il sogno del suo Regno. Oggi non dobbiamo avere paura di scendere sulle strade, non possiamo rintanarci nella nostalgia del passato, come diceva papa Giovanni Paolo II dobbiamo avere il coraggio di aprire tutte le nostre porte a Cristo. Ognuno con la sua vocazione andrà incontro al Martirio, magari consumato rapidamente oppure nel logorio di un quotidiano pesante da affrontare ma se ci accompagnerà la certezza della Risurrezione saremo disposti a vendere tutto e a inseguire la nostra stella.
E infine la Parola ci invita confidare in Dio e nella sua Provvidenza. Non ci mancherà il necessario se avremo fatto di Dio il motivo della nostra vita: non mancheranno pane e acqua per sostenerci nel nostro cammino, non mancheranno i segni che consoleranno il nostro cuore, non mancheranno porte aperte a dispetto di molte altre chiuse, non mancheranno amici straordinari disposti a condividere le nostre gioie per moltiplicarle e le nostre fatiche per dimezzarle, non mancherà il soffio dello Spirito sulle nostre vele per condurci al largo.
3 come una conclusione: per un mondo che assomigli di più al regno dei cieli saremo disposti ad essere folli?
…E non è un'invenzione/e neanche un gioco di parolese ci credi ti basta perché/poi la strada la trovi da te.Son d'accordo con voi,/niente ladri e gendarmi,ma che razza di isola è?/Niente odio e violenza,né soldati, né armi,/forse è proprio l'isola che non c'è/... che non c'è.Seconda stella a destra/questo è il cammino,e poi dritto fino al mattino/non ti puoi sbagliare perchéquella è l'isola che non c'è!/E ti prendono in girose continui a cercarla,/ma non darti per vinto perchéchi ci ha già rinunciato/e ti ride alle spalleforse è ancora più pazzo di te!
E. Bennato, L’isola che non c‘è

sabato 15 agosto 2009

undicesima dopo Pentecoste

Non erano certo anni facili quelli in cui visse Elia. Il Regno di Davide, alla morte di Salomone, era stato spartito in due e i successori, sia in Israele che in Giuda, spesso dimenticavano la loro vocazione al servizio della Nazione e spadroneggiavano sul gregge loro affidato. Allora come sempre, non c’è modo migliore per togliere la libertà a un popolo che spezzare il filo della memoria, strappargli il passato e poi rubare anche il futuro svuotandolo di senso e ripiegando le persone sui bisogni più materiali, costringendole a volare basso, non oltre l’orizzonte del quotidiano. E così i re costruivano altari agli dei per far dimenticare il Dio della libertà che aveva sancito la sua Alleanza con Israele sul Sinai e si circondavano di falsi profeti che storcevano le cose future per accontentare i desideri dei potenti. La pagina di oggi ci presenta Elia contro questi profeti della regina Gezabele in una disputa accesa, che in alcuni passaggi diventa quasi pantomima, commedia non senza ironia tagliente. C’è da dire però che Dio non gli aveva ordinato anche di sgozzarli come accade qualche riga dopo il brano di oggi tanto che quei canali scavati dalla gente convenuta, secchi d’acqua, si riempiono di sangue. Non solo, Elia capirà più avanti, sull’Oreb, quando Dio si rivelerà a lui nel mormorio di un vento leggero, segno che il Signore non giustifica mai la violenza ma si rivela sempre nella debolezza, di non essere davvero così solo come crede: Dio ha riservato in Israele un popolo numeroso a lui fedele, circa settemila persone.
Mi sembra che la Liturgia della Parola di oggi metta in luce due nodi su cui riflettere: da una parte l’infedeltà e il tradimento dell’uomo che piega al suo volere la Parola e la svuota dal di dentro e dall’altra la testardaggine di Dio nel costruire il suo Regno anche ribaltando dal di dentro il Male e trasformandolo in bene.
Questi due punti li troviamo anche nelle altre due letture: Paolo nell’Epistola, con uno sguardo che va in profondità rispetto all’apparenza, uno sguardo – mi piacerebbe dire – teologico, rilegge il rifiuto del Vangelo da parte d’Israele come un’occasione provvidenziale per annunciare il Regno anche alle Genti. Il Cristianesimo è approdato nel mondo occidentale, oltre i confini d’Israele, grazie proprio alle tante ostilità che gli Apostoli, e Paolo con loro, hanno incontrato nelle comunità ebraiche. Di solito Paolo approdava in una terra con un gruppo di missionari e il primo annuncio della Morte e Risurrezione del Cristo Gesù era riservato alle sinagoghe. Molto spesso venivano cacciati da qui e allora il Vangelo veniva raccontato sulle piazze e nelle case a gente pagana che invece si convertiva: occasione perduta per gli ebrei trasformata in provvidenziale occasione dallo Spirito di Dio.
E Gesù nel Vangelo, con la parabola dei vignaioli omicidi, raccontata nel Tempio pochi giorni prima della sua croce, sembra confermare quanto detto prima: Dio in Gesù costruisce il suo Regno anche con un Popolo che non appartiene alla radice d’Israele.
Potremmo aprire qui un esame di coscienza e chiederci quando anche noi, che siamo i destinatari ultimi del Vangelo, chiamati a edificare con la nostra Fede, Speranza e Carità il Regno di Dio ci comportiamo come quei vignaioli, da contadini chiamati a partecipare del Regno ci trasformiamo in cinici detentori e chiudiamo le porte del nostro cuore allo Spirito e uccidiamo in noi la presenza di Gesù perché crediamo di riuscire a farne a meno per essere felici, perché ci spaventa la sua proposta. Magari siamo bravi a ostentare la nostra religiosità ma in realtà siamo aridi e sterili e la nostra testimonianza non è coraggiosa ma tiepida, non sfida il mondo di oggi ma ci arrocchiamo nei nostri privilegi, non osiamo parlare di Gesù alle nuove generazioni e costruiamo verso di loro una barriera invalicabile da una parte e dall’altra.
Preferisco però porre l’accento sulla cocciutaggine di Dio nel portare avanti il suo disegno con noi e a volte nonostante noi, con la sua Chiesa e, talvolta, mi fa male dirlo, nonostante la sua Chiesa.
Dio ha preso il suo Figlio, scartato dal suo popolo come una pietra inutile, e lo ha risuscitato e lo ha reso testata d’angolo, pietra che dà l’intonazione all’ordine di una nuova costruzione. Dio continua a costruire così il suo Regno raccogliendo nella sua bisaccia tutte le pietre che noi scartiamo perché le consideriamo inutili e le pone a fondamento di un nuovo mondo. Se penso alla storia della Chiesa, mi vengono in mente tanti santi che hanno sofferto molto anche per la Chiesa perché non riconosciuti come segno profetico dello Spirito: Francesco e il suo amore appassionato per Madonna Povertà, Bernadette e le apparizioni della Vergine a lei che era la più piccola e la più stupida di tutte le bambine di quel borgo oscuro di Lourdes di fine 800, Giovanni Bosco e la follia della santità proposta ai giovani nell’allegria dell’oratorio, Padre Pio e la fedeltà al Vangelo consumata nel nascondimento di un paese sprofondato nel sud Italia con la dedizione alla confessione e all’Eucarestia e ancora don Lorenzo Milani, don Primo Mazzolari, p. David Maria Turoldo… e quanti ancora oggi. Stiamo attenti a quando come Chiesa, come comunità, come singoli scartiamo da noi i più poveri e quelli che giudichiamo incapaci di accogliere il Vangelo perché Dio non ragiona così, non guarda alle apparenze ma al cuore. Troppi sono quelli che noi mettiamo ai margini: dagli stranieri ai giovani più in difficoltà. Come sarebbe bello se la nostra comunità mettesse i poveri non a margine, non come destinatari ultimi di tanti progetti ma sempre un gradino sotto, ma al centro per il loro riscatto e progressivamente come sarebbe bello se iniziassero ad assumersi piccole o grandi responsabilità.
C’è una speranza però che conclude il nostro discorso: Dio non si spaventa dei nostri errori e neppure dei nostri peccati. Sa prenderci invece per mano e, nella sua Grazia, si serve anche del nostro Male per innalzarci alle vette della santità: un Dio così io non lo voglio più lasciare!

venerdì 14 agosto 2009

Assunzione di Maria al Cielo


Guardiamo a Maria, nostra speranza.
È bello oggi ritrovarci in preghiera accanto a lei, che è madre e sorella nostra.
Il mistero che celebriamo è molto semplice e radicato nella nostra fede da tanti secoli, anche se solo nel 1950 Pio XII lo ha reso dogma: non poteva restare nel sepolcro la Madre di Dio; chi portava in sé la Vita non poteva conoscere la corruzione della morte ed ora è in Cielo in anima e corpo. Oggi guardiamo a Maria come la Madre della Gloria, come la Regina degli Apostoli che fa festa in cielo. E questo sguardo su di lei è anche una speranza grande per noi: anche noi non siamo destinati alla morte, al buio, al silenzio ma alla Vita, alla luce, alla gioia della festa del Cielo. Dunque non celebriamo un privilegio di Maria ma anticipiamo un destino: la vita senza fine.
Ora vorrei però chiedermi di quale pasta è fatta la fede di Maria e cosa può dire anche alla nostra fede. Perché se il Paradiso è la meta comune, comune deve essere al suo anche il nostro cammino. Maria non è solo Madre della Chiesa ma anche Sorella di ognuno, pronta con le sue mani a raccoglierci dai nostri tanti sentieri e a indicarci le sue orme perché possiamo farle nostre.
Maria è stata Vergine fedele, la Vergine dell’ascolto.
Oggi la pagina della Parola la immortala nella gioia dell’incontro con Elisabetta. Maria aveva ascoltato l’annuncio dell’Angelo, aveva dato il suo sì nella gioia di sentirsi prediletta, amata, scelta, chiamata a partecipare all’orizzonte della salvezza per il suo popolo. E ora la gioia ha spinto i suoi passi e li ha resi agili sui monti della Giudea per raccontare lo straordinario nell’ordinario avvenuto in lei ad una donna che sola avrebbe potuto comprendere quell’accadimento: Elisabetta, sua parente, madre anche lei in modo del tutto straordinario, segno di un Dio che è Signore dell’impossibile. E davanti a lei si scioglie, come una danza, il cantico in cui Dio si rivela come colui che ribalta già qui e ora le sorti dei poveri e degli umili per innalzarli nella sua Grazia.
Maria, nel suo canto, si rivela donna dell’ascolto, capace di vedere nella sua vita avverata la Parola a lungo conosciuta e meditata. E anche a noi lei insegna che una fede vera non può prescindere dall’ascolto della Parola. La vera preghiera a un certo punto è tacere, consegnarsi a Dio e ascoltare la sua Parola. La Parola si fa grammatica per la nostra vita, è l’indice che scorre sotto i risvolti di ogni palpito della nostra esistenza per interpretarli e dare ad essi un senso, un orizzonte, un perché. Nell’ascolto sta la chiamata a non perdere nemmeno un attimo della nostra vita e a darle forma nella vocazione all’amore. Mi piace però pensare che Maria non abbia ascoltato solo le parole del Libro ma anche sia stata capace di mettersi in ascolto ed interpretare le pagine aperte della vita della sua gente in cui si ritrova la presenza di Dio. Anzi, Maria, perché ascoltava il suo Signore, era capace di ascoltare e farsi accogliente verso il grido della gente che le stava accanto. Maria non era indifferente al grido dei poveri, alla sofferenza della sua gente schiacciata dal Potere dei grandi di questo mondo, non le era estraneo il desiderio di vedere l’alba di un’era nuova, quella del Messia. Mi piace pensare che questa passione per l’ascolto Maria l’abbia insegnata anche a Gesù che aveva una Parola capace di illuminare il cuore come un lampo nel cuore della notte proprio perché prima era capace di fermarsi in ascolto del Padre suo e della sua gente.
Maria però, nella sua vita. è stata anche Madre del dolore, sa bene cosa sia il buio della fede e la notte dello Spirito e anche il dramma della croce, della morte e della tentazione della disperazione. Maria ha dovuto presto abituarsi al fatto che la fede non è fatta solo di slanci, di festa e di consolazioni ma anche di fedeltà rosicata giorno dopo giorno, di salti nel buio, di deserti lunghi e silenziosi in cui Dio sembra non esserci o che non voglia rivelarsi. Maria poi sa cosa significa il Male che si avventa sul Bene e sembra consumarlo, distruggerlo, annientarlo. Maria sa cos’è la notte della disperazione e sa che Dio però non lascia troppo brancolare nel buio i suoi figli perché altrimenti si perderebbero. E così Maria ci insegna che se nel cammino della nostra fede anche noi incontriamo l’ostacolo, la paura, la tenebra, se anche noi non vediamo oltre la croce di ogni giorno o non sentiamo più la voce di Dio non siamo sulla cattiva strada ma stiamo percorrendo il deserto che è solo la tappa intermedia alla gioia, quella vera. La sua mano stretta alla nostra, se anche noi siamo nel dolore, ci fa sentire che, come lei per Grazia, ce l’ha fatta a sfidare la vita e a vincere la battaglia, anche a noi Dio non nasconderà a lungo il suo volto e capiremo che il dolore non arriva mai inutile ma come un crogiuolo in cui il nostro cuore viene provato con il fuoco per purificarsi. Se vogliamo anche noi attraccare e gettare l’ancora della nostra vita in Cielo, per arrivare alle stelle, non possiamo non passare dalla strettoia aspra del cammino della vita. Per aspera ad astra dicevano gli antichi. La festa di oggi guarisce il nostro sguardo miope e lo allunga oltre l’orizzonte della sofferenza del presente: il Dio che abbiamo incontrato nell’ascolto non ci abbandona nell’ora del dolore e ci attende nel suo abbraccio.

domenica 9 agosto 2009

decima dopo Pentecoste

Diceva un grande monaco del secolo scorso, Dossetti, che la preghiera è l’opera più difficile che si possa compiere e che, a dispetto di molti che credono di saper pregare, in realtà solo pochissimi sono capaci di farlo.
Forse la sua era un’esasperazione delle cose, ma certo è che la preghiera cristiana ha una posta in gioco altissima: è la relazione fra il nostro io più profondo e il Padre di Gesù. E in questa relazione che si fa abbraccio nello Spirito, la nostra vita si modella a immagine del Figlio. La Liturgia della Parola di oggi mette in luce il tema della preghiera e sarà bene che le provocazioni che essa ci consegna ci interroghino anche fuori di qui e lungo tutta la settimana per aiutarci e per trasformarci in persone di preghiera secondo il Vangelo.
Anzitutto la Prima Lettura. Salomone trasferisce l’Arca dell’Alleanza, che aveva avuto dimora prima di allora sotto la Tenda, nel Tempio che lui ha fatto erigere. Dopo la solenne processione e l’insediamento, il Tempio si riempie della Nube divina segno della Presenza di Dio. L’uomo ha costruito con le sue mani il Tempio e Dio decide di abitarci ma quello è solo il Segno della sua presenza, l’Arca è solo il ricordo di un’Alleanza stretta con il suo popolo – la Parola è tagliente nel dirci che in quell’arca trattata con tanta solennità in realtà non c’era nulla se non le tavole di pietra – ma poi i conti si tirano fuori da lì, nella storia di ogni giorno, nella coscienza di ogni credente che è chiamato a rispettare le Legge e a metterla in pratica come cammino di santità.
Anche la 2 Lettera ai Corinti, scritta nel vivo di una polemica fra Paolo e la sua comunità a proposito della buona condotta di vita e sulla fedeltà al Vangelo che lui ha annunciato, ci ricorda che il vero culto si celebra in una vita santa che non si compromette con le tenebre, che non fa sconti al Male in noi e attorno a noi.
E infine la pagina di Vangelo di Matteo suggella tutto questo discorso. Gesù non perde le staffe contrariamente a quello che si pensa, non ha uno scatto d’ira. Pone un’azione simbolica e conosce le conseguenze a cui andrà incontro. Il Tempio deve tornare ad essere casa di preghiera e non può essere un rifugio per ladri: è la citazione testuale di Geremia che accusava il suo popolo di doppiezza; nella vita di ogni giorno si permetteva di frodare, di commettere ogni sorta di ingiustizia e poi pensava di presentarsi davanti a Dio come se lui non vedesse, come se lui non conoscesse i cuori, come se lui non pretendesse coerenza. E Gesù in quel Tempio fa le opere di Dio: guarisce i malati e predica la venuta del Regno. La conseguenza è una rapida accelerazione alla condanna e alla morte di croce perché la sua Parola dà fastidio perché esige radicalità e conversione. È più facile metterlo al bando, credere che la sua sia una follia piuttosto che accogliere la sua provocazione e cambiare rotta.
Cosa dice a noi questa Parola. Penso anzitutto che sia un richiamo alla nostra vita di fede. La preghiera è strumento di dialogo con il Padre. Sottolineo la parola dialogo. A volte noi scioriniamo lunghi monologhi ma difficilmente ci mettiamo in ascolto. La Parola dice: parla, Signore, che il tuo servo ti ascolta e noi ci troviamo invece, in pratica, a dire, taci, Signore, perché il tuo servo deve parlare! Ad un tratto dobbiamo lasciar parlare Dio al nostro cuore, la preghiera deve farsi ascolto della Parola se veramente deve cambiare il nostro cuore. La forza della preghiera sta tutta nella sua capacità di convertirci. I primi a cambiare, mentre preghiamo, dobbiamo essere noi. La preghiera non cambierà mai il mondo se noi non siamo i primi a invertire la rotta e a mettere nella storia tutto il nostro impegno e la nostra forza per renderla più simile al Regno di Dio. E allora dalla preghiera sorgerà un nuovo modo di relazionarci con noi stessi, ci renderà prossimo di chiunque. La preghiera pretende di cambiare il nostro rapporto con il mondo, detta le condizioni per il nostro pensiero politico e anche economico. La preghiera ci renderà simili in tutto, ognuno con la sua vocazione, a Gesù e saremo sua immagine qui e ora. La verifica della nostra preghiera rimane dunque la vita di ogni giorno e la coerenza che avremo saputo mettere in ogni sfida. Approdo della preghiera non può che essere la Carità. Sul tema della coerenza siamo parecchio incalzati da chi non crede o ha deciso di non praticare più per i motivi più svariati. A volte è un appello recondito alla santità quello di chi dice di non venire più in chiesa perché è rimasto ferito dall’incoerenza dei credenti. Ma cosa direbbero se noi per primi trasformassimo la nostra preghiera in una vita che nel suo piccolo si fa luce e sale per il mondo?
E infine la Parola di oggi ci interroga anche sulla celebrazione che stiamo compiendo. Siamo qui non per assolvere un precetto. La Messa non ha nessun valore se non spacca il nostro cuore di pietra e non ci rende insieme comunità profetica per il presente, se non ci rende Corpo di Cristo qui e ora, capaci di porre i segni che lui ha saputo dare di relazione profonda con il Padre e di guarigione per l’umanità ferita. La Messa non è un rifugio mistificatorio, il profumo d’incenso e la melodia dei canti non sono capaci di confondere il nostro Dio. Quello che ci è chiesto è di aprirci alla Parola e poi di lasciarci portare in alto dalla capacità che ha avuto Gesù di dare la sua vita e di amare sino alla fine perché anche noi ne seguissimo le orme.

sabato 1 agosto 2009

nona dopo Pentecoste

Ho pensato di intermezzare il mio commento alla Liturgia della Parola di oggi con una poesia del 1946 di Madeleine Delbrel che si intitola Il ballo dell’obbedienza

E' il 14 luglio./Tutti si apprestano a danzare./Dappertutto il mondo, dopo anni dopo mesi, danza./Ondate di guerra, ondate di ballo./C'è proprio molto rumore./La gente seria è a letto/ I religiosi dicono il mattutino di sant'Enrico, re./Ed io, penso/all'altro re./Al re David che/danzava davanti all'Arca./Perché se ci sono molti santi che non amano danzare,/ce ne sono molti altri che hanno avuto bisogno di danzare,/tanto erano felici di vivere…/Perché io penso che tu forse ne abbia abbastanza/della gente che, sempre, parla di servirti col piglio da condottiero,/di conoscerti con aria da professore,/di raggiungerti con regole sportive,/di amarti come si ama in un matrimonio invecchiato.
C’è un che di follia negli uomini e nelle donne di fede. Penso al re Davide nell’episodio che la lettura di oggi ci presenta; penso a Paolo e alla sua convinzione di essere un piccolo strumento nelle mani di Dio: tanto più guarda alla sua debolezza tanto più si sente adatto alla missione perché si rivelino solo la Grazia e la Potenza di Dio; e penso a Gesù, anche lui folle nel seguire la strada della croce e testardo nel proporre la sua follia a tutti quelli che hanno deciso di stragli dietro, nel volere che noi uniamo il nostro destino al suo nella logica sconvolgente di una vita giocata in pura perdita di se stessi per conquistare il Regno. Una via che ha all’apparenza il sapore amaro della sofferenza ma, oltre questa, contiene il segreto della felicità che sta tutta nell’essere fuori di sé, estatici d’amore per il Padre e folli nella carità verso tutti quelli che incontriamo sulla nostra strada. E così è stato per tanti santi di ieri ma anche di oggi. Ma se pensiamo anche alla nostra esperienza, a chi ci ha trasmesso la fede con coraggio e decisione, non possiamo non riconoscere in loro una follia che li proiettava oltre gli schemi del quotidiano, una capacità di prendere in mano la vita e leggerla alla luce di una sapienza più grande di quella del mondo, li sosteneva una speranza incrollabile oppure li guidava un amore davvero disinteressato che in noi ha lasciato un segno indelebile. Come sarebbe bello se lo Spirito, che scende in abbondanza su di noi in questa celebrazione, oggi ci afferrasse e ci mettesse in cuore la voglia di danzare, la voglia di inventarci un modo nostro singolare e allegro per dire la gioia della nostra fede che talvolta davvero sembra l’amore di un matrimonio invecchiato senza slanci, senza calore!

Per essere un buon danzatore, con te come con tutti,/non occorre sapere dove la danza conduce./Basta seguire,/essere gioioso,/essere leggero,/e soprattutto non essere rigido./Non occorre chiederti spiegazioni/sui passi che ti piace di segnare./Bisogna essere come un prolungamento,/vivo ed agile, di te./E ricevere da te la trasmissione del ritmo che l'orchestra/scandisce./Non bisogna volere avanzare a tutti i costi,/ma accettare di tornare indietro, di andare di fianco./Bisogna saper fermarsi e saper scivolare invece di/camminare./Ma non sarebbero che passi da stupidi/se la musica non ne facesse un'armonia./Ma noi dimentichiamo la musica del tuo Spirito,/Signore, vieni ad invitarci.
Certo che ora qualcuno potrebbe obiettare a quello che ho detto fin d’ora dicendo che mi manca il senso pratico, che sarebbe troppo bello se la vita fosse una danza e tutto fosse sempre ritmato dall’armonia e dalla positività. In effetti il quotidiano è sempre pieno di incognite, di croci e di fardelli spesso pesantissimi che tolgono la felicità: col passare del tempo i sogni si assopiscono, i problemi aumentano, ci sentiamo insicuri come in un mare in tempesta sballottati dalle onde di mille difficoltà soprattutto se si affacciano all’orizzonte le nubi della malattia o della morte. Nessuno nega tutto questo. Gesù, nel suo Vangelo, oggi, parla di croce e di strada in salita. Ma la nostra fede non trasforma il brutto in bello, la sofferenza in gioia, non fa della nostra vita una spensierata bevuta di acqua e zucchero! Ci dice che la croce è solo il preludio della gloria e alla fine conta l’amore che hai messo nell’obbedienza alle sofferenze del quotidiano. E questo ci dà una gioia di fondo che nulla può turbare come i fondali del mare che rimangono calmi anche quando in superficie si scatenano le tempeste più violente. La fede non fa di noi degli estranei alle sofferenze del mondo, solo ci dona il segreto per non perdere la speranza e per non smarrire l’essenziale. Si può continuare a danzare solo se si accetta che sia Dio a darci il ritmo e noi non smettiamo di stare al suo passo. E allora tutto avrà un senso: quelle volte che procediamo in avanti e quelle volte in cui ci sembra di indietreggiare ma in realtà stiamo andando solo più a fondo della nostra vita, quelle volte in cui entriamo nel buio e ci sembra di non capire più nulla ma in realtà ci accorgiamo che Dio non ha mai smesso di abbracciarci, quelle volte che la musica sembra finita e in realtà si dipana per noi un’altra occasione.

Siamo pronti a danzarti questa corsa che dobbiamo fare,/questi conti, il pranzo da preparare, questa veglia in/cui avremo sonno./Siamo pronti a danzarti la danza del lavoro,/quella del caldo, e quella del freddo, più tardi./Se certe melodie sono spesso in minore, non ti diremo/che sono tristi;/Se altre ci fanno un poco ansimare, non ti diremo/che sono logoranti…/Facci vivere la nostra vita,/non come un gioco di scacchi dove tutto è calcolato,/non come una partita dove tutto è difficile,/non come un teorema che ci rompa il capo,/ma come una festa senza fine dove il tuo incontro si/rinnovella, come un ballo,/come una danza,/fra le braccia della tua grazia,/nella musica che riempie l'universo d'amore./Signore, vieni ad invitarci.
La vita è fatta di croci piccole e grandi. Quelle che noi consideriamo spesso inutili perdite di tempo mote volte sono le occasioni per testare il nostro amore per Dio e per i fratelli, per capire se davvero abbiamo imparato a vivere in perdita, al ritmo del Vangelo, oppure siamo tenacemente legati alle nostre cose, chiusi nel nostro egoismo e magari perennemente in attesa dell’occasione giusta per amare che, molto spesso, non arriva mai! Signore, vieni ad invitarci! Ogni giorno noi siamo pronti costi quel che costi la nostra vita, fuori dalla tua danza, è solo inutile tappezzeria!

sabato 25 luglio 2009

Ottava dopo Pentecoste

C’è differenza fra abitare la terra e possederla. Nel primo caso la memoria al Dio che te l’ha messa fra le mani è viva e senti tutto come dono suo. Nel secondo caso ti dimentichi di Lui e inizi a piantare i paletti della tua prepotenza e quello che era dono diventa dovuto. La Parola di questa domenica ci obbliga a sostare sulla sete di potere dell’uomo contrapposta all’esempio del nostro Dio che è dono di sé in totalità, che chiama Onnipotenza l’Amore senza risparmio.
Israele vende, assieme alla fede nel Dio dei suoi padri, la sua libertà per servire gli dei di quella terra a lungo sognata e conquistata con tante difficoltà. In fondo l’idolo tace, va solo adorato, è la proiezione dei nostri desideri più reconditi e acconsente alla nostra fame di potere. Israele abbandona Dio ma Dio non riesce a dimenticare la sua eredità. È la luce fioca eppure gravida di speranza della pagina della Scrittura di oggi. Dio non riesce a tapparsi le orecchie di fronte al grido disperato di Israele e invia di tanto in tanto dei Giudici che lo raccolgano dalla dispersione e lo guidino fuori dall’abisso. È un Dio incredibilmente geloso il nostro, terribilmente passionale, che arriva a pronunciare minacce ma ha viscere di misericordia come una madre e un padre per il loro bambino quando, per la voglia di essere grande, si caccia in qualche brutto guaio e loro sono lì, pronti a raccoglierlo.
È l’atteggiamento che ha Paolo verso la sua comunità di Tessalonica: come una madre raccoglie i suoi sotto le sue ali; come un padre non manca di dare indicazioni con fermezza e autorevolezza. In più, dell’Epistola, c’è da dire, che anche Paolo probabilmente ha sentito ad un certo punto la tentazione di spadroneggiare sulla sua comunità, di essere autoritario e non solo autorevole, ma l’ha superata perché amava Cristo e ha fatto delle sue orme il sentiero costante da seguire, anche al prezzo durissimo di sofferenze e di tradimenti da parte della sua gente.
La sete di potere ad un tratto afferra i discepoli di Gesù. La cosa forse più inquietante che il contesto di questa pagina ci consegna è che la domanda di Giacomo e di Giovanni nasce quando Gesù ha già annunciato la sua Passione e la sua morte. Loro sapevano di essere in un certo senso i prediletti dal Maestro, che aveva dato loro il soprannome di figli del tuono e che spesso aveva condotto con sé e Pietro in disparte. Ma, ora che il loro Maestro stava per essere tolto di mezzo e si era probabilmente aperta la corsa alla sua successione, volevano un riconoscimento pubblico della loro autorità. E questo scatena decisamente le ire degli altri…e come dare loro torto? Ma, nell’insieme, quanta povertà di cuore, quanta mediocrità! Di questa pagina però mi colpiscono sempre due cose: la pazienza con cui Gesù ricomincia daccapo a tessere nel cuore dei suoi discepoli la trama del Vangelo che si oppone a tutte le logiche di questo mondo e poi certamente ci commuove, a distanza di tempo, che uno ad uno tutti i discepoli, dopo la Risurrezione, davvero hanno saputo bere al calice della Passione e hanno saputo immergersi nel loro Battesimo di sangue, segno che gli insegnamenti del Maestro non sono andati perduti e che hanno capito che il Regno di Dio, per attecchire, ha bisogno di povertà, nascondimento, umiltà e croce.
All’improvviso, forse perché non ti basta più vivere di sogni, forse perché hai iniziato a provare paura, forse perché senti su di te il peso della frustrazione che la vita non risparmia, inizi a stringere il pugno e a volere conquistare ricchezza, fama, vuoi possedere chi ti sta intorno e credi che questo basti ad appagare la sete di felicità che tutti ci portiamo nel cuore.
Non c’è uomo che non abbia sentito almeno una volta nella vita su di sé la seduzione del potere. Dai tempi del Giardino ci affascina l’idea di essere onnipotenti e crediamo con la nostra orgogliosa autoreferenzialità di riuscire ad essere come Dio. E quando la relazione con lui inizia ad essere troppo esigente, quando lo avvertiamo come un rivale nella nostra corsa al potere, si decide di abbandonarlo e di costruirsi altri dei, a immagine nostra.
Il potere ha la forza di un idolo sul cui altare puoi arrivare a sacrificare il meglio di te stesso e anche la vita di chi ti sta intorno. I grandi di questa terra spesso scambiano il servizio a cui sono chiamati nel gestire il potere con il delirio di onnipotenza.
Ma anche la Chiesa non è immune da questa tentazione e spesso si lascia più affascinare dai segni del potere piuttosto che vivere il potere dei segni ed essere così credibile e coerente con il vangelo che annuncia. Dobbiamo sognare e costruire ancora una Chiesa libera e che cammina sulle orme del suo Maestro di Nazareth, il crocifisso risorto, piuttosto che, per paura di perdere e di affrontare il mare in tempesta di questi anni complicati da interpretare, arrenderci ad una Chiesa complice del potere di questo mondo e che gioca la sua partita dentro ai palazzi dei potenti. Su questo punto il Vangelo davvero non ci permette sconti o scorciatoie interpretative.
Ma penso anche alla nostra comunità. Spesso ci sono lotte di potere al limite del ridicolo e del patetico per spartirsi compiti e spazi e quello che era un sevizio diventa un’occasione per fare bella mostra di sé, e quello che era un’occasione di testimonianza diventa un campo di battaglia che fa scappare scandalizzato chi si avvicina.
Abbiamo ancora bisogno che Gesù ci mostri come si fa ad amare senza trattenere ecco perchè siamo qui a Messa: converti a te, Signore i nostri cuori e mostraci il sentiero della Carità senza confini che è vivere in pura perdita di noi stessi ma, lo crediamo, solo così saremo uomini davvero realizzati e contagiosi di beatitudine.