domenica 21 agosto 2011

X dopo Pentecoste

Dove dimora Dio? Questa, in modo molto sintetico, è la domanda che emerge dalla Parola ascoltata oggi. È una domanda molto semplice ma che si pone l’uomo di sempre, da quando ha iniziato ad alzare le mani verso il cielo credendo che lì abitasse quel Qualcuno che avrebbe potuto dare un senso alla sua vita e una possibile risposta alle grandi domande, alla nostalgia di eterno e all’inquietudine che si portava nel cuore. Dove dimora Dio? Ovvero dove posso consegnare tutto il peso della mia vita e consegnarmi con fiducia. Dove posso trovare riparo, dove posso sentirmi accolto. Dove posso anch’io mettere i paletti della mia tenda per trovare pace.
Le letture, in una progressione che si fa di volta in volta più profonda, rispondono che Dio decide di abitare nel Tempio che Salomone costruisce con le sue mani. Inoltre, ancora più vero, Dio pone la sua Tenda nella comunità, nella complessità che è data dall’intreccio delle nostre storie e che si raccolgono nell’unità della Chiesa. E, infine, sembra dire il Vangelo, il Signore decide di abitare nel cuore dell’uomo che dona e si dona con amore in quel rapporto singolare che è la fede.
Proverei ora a riprendere uno ad uno questi tre passaggi lasciandomi andare a considerazioni che non hanno nessuna pretesa di organicità, ma vorrebbero essere una risonanza in ordine sparso.
Dio dimora nel Tempio. Dio, ricorda Salomone, non ha mai preteso che Davide gli costruisse una casa. Forse per la nostalgia degli anni certamente duri ma in cui ha trovato fondamento l’alleanza con il suo popolo, forse per una vocazione al nomadismo che assicura, aldilà della poesia, un’indubbia libertà, forse perché Lui ama più l’uomo e la sua carne che i muri con le sue pietre o austere o finemente decorate, Dio ha sempre preferito stare sotto una Tenda posta all’ombra della casa del re. Ma ora che Salomone costruisce il Tempio, il Signore immenso e che, si sa, ha il suo trono su una colonna di nubi e ha la terra come sgabello dei suoi piedi, accetta il compromesso di piantare lì la sua dimora. Il Tempio era una casa in cui la bellezza e la solennità del rito richiamavano qualcosa della grandezza di Dio e in esso si esprimeva il sentimento religioso del popolo e dei singoli; una casa però assolutamente provvisoria: il Tempio sarà distrutto per ben due volte e, a oggi, non è stato più ricostruito ma non si è perduta la verità della fede. Nella bellezza delle nostre chiese e nella semplicità austera del rito, che non può mai essere sciatto e lasciato all’improvvisazione, noi leggiamo le orme del passaggio del Signore. Ma, come diceva don Tonino Bello, Dio non sempre si fa sedurre dal profumo dell'incenso, più di quanto non si accorga del tanfo che sale dai sotterranei della storia ,perché il Signore ha un interesse smisurato per la sua creatura e ciò che conta realmente ai suoi occhi è la dignità dell’uomo. I cristiani possono celebrare anche liturgie sorprendentemente belle e commoventi, possono comporre anche i canti più dolci e le melodie più toccanti ma se, usciti dalle loro chiese, non trasformano in carità la loro fede, rimangono distanti da Dio, se non lottano per sovvertire l’ordine della storia per rendere più simile la terra al Regno dei cieli, hanno recluso nella formalità e messo il chiavistello alla forza rivoluzionaria racchiusa nella Parola che ascoltano ogni domenica.
Dio, ci ricorda Paolo, ha deciso di abitare nella comunità, di ritagliarsi il suo spazio nel cuore della Chiesa. È per questo che noi ogni domenica nella Professione di fede diciamo con certezza che la Chiesa è santa e non per i meriti di qualcuno, nemmeno di chi ha il compito di guidare le singole comunità o di essere successore di Pietro che pure chiamiamo santità! Nella trama delle nostre relazioni, al crocevia del nostro radunarci, quando diciamo di riconoscerci in quel Vangelo che profuma di profezia, quando diventiamo una cosa sola perché facciamo comunione con il Corpo di Cristo Dio sta fra noi come il focolaio nella stanza più interna della casa, come il segreto a cui possiamo sempre attingere. Tuffarsi nel Mistero della fede per poi risalire e rendere più autentiche le nostre relazioni, a tratti nella dialettica anche dura, ma sempre nella logica del perdono, rende evidente al mondo che Dio abita con noi. Chi crede inutile perdita di tempo la cura del clima comunitario, chi uccide la carità, magari anche a nome della carità stessa, per vivere un protagonismo solo all’inizio appagante ma alla lunga sterile, chi si rifiuta di lavare i piedi al suo vicino di posto nella comunità, crea un’ombra che nasconde la presenza di Dio nella Chiesa e per questo la rende meno santa e meno bella.
Infine il Vangelo, ambientato proprio nel Tempio, ci fa comprendere che ciò che conta agli occhi di Gesù è il cuore dell’uomo. La povera vedova ha dato più di tutti perché, dietro a quei pochi spiccioli, sta un cuore generoso che dà tutto senza trattenere. Rende bella la casa di Dio chi si dona con generosità (generoso deriva da generare, è generoso chi sa generare con tutto se stesso qualcosa di nuovo, uno stile nuovo, un mondo nuovo fatto di amore). Proprio in un cuore così Dio prende dimora. Quando trovi un cristiano che non trattiene ma si dona perché ha imparato da Cristo la logica del seme che deve morire per dare frutto, quando trovi un credente che vive sempre a braccia spalancate perché considera fratello ogni uomo e ci ricorda proprio il crocifisso che ha taciuto e non ha trattenuto nulla e nessuno, quando leggi negli occhi di un uomo la gioia di chi sa dare e non vuole più ricevere, allora in lui sai che palpita la presenza di Dio. Qualche fratello così in questa comunità i l’ho trovato e non voglio lasciarlo più!

sabato 13 agosto 2011

IX dopo Pentecoste

C’è un punto nella vita in cui la trama che a fatica stai cucendo prende una piega sbagliata e il disegno che avevi in mente pian piano si perde. Da soli è quasi impossibile accorgersene: c’ è sempre qualcuno che ti vuole bene e che ti inchioda alle tue responsabilità! E allora, guardandoti indietro, ti accorgi che veramente qualcosa non è andato, che a tratti ti sei lasciato troppo prendere da te stesso e le tue aspirazioni si sono trasformate in deliri di onnipotenza che non ti hanno portato lontano e ti hanno lasciato da solo. E raschi il fondo di te stesso, ti senti davvero poca cosa, tutta la tela sembra da gettare. Ma si tratta solo di riprendere con umiltà quel bozzetto originario e rimettersi in cammino: la grandezza di un uomo si misura dalla sua capacità di accorgersi dei suoi errori e, quando serve, dal saper domandare perdono. Il cammino della storia della salvezza: il peccato di Davide. È quanto accade a Davide in questo passaggio così alto della Scrittura. Aveva avuto tutto dalla vita eppure, per prendersi una donna (mi sembra già in sé espressivo questo verbo che riduce la donna ad un oggetto), arriva ad uccidere un amico. Tutto è iniziato mentre i suoi erano in guerra e lui, contro ogni regola del galateo regale dell’epoca che costringeva i capi a scendere in battaglia con il loro popolo, passeggiava ozioso sul balcone della sua reggia. Da lì, dopo aver spiato Betsabea fare il bagno, ne sente il desiderio, la fa sua e, per la beffa del destino, quando rimane incinta, per mettere una pezza al guaio, fa richiamare dalla guerra il marito Uria per costringerlo a stare con sua moglie. All’ennesimo tentativo fallito, il ché se non fosse tragico sarebbe grottesco, Davide prende la decisione di farlo morire schierandolo a viso aperto contro il nemico così da prenderla in moglie senza problemi. Ma proprio qui arriva il profeta Natan che gli apre la mente a comprendere fino in fondo quello che è stato il suo peccato. Da allora per Davide nulla sarà più come prima soprattutto perché riprende la misura di se stesso come uomo, come semplice creatura, come piccola cosa nelle mani di un Signore che ha sempre creduto in lui e ancora adesso non si tira indietro e riapre la sfida della sua fedeltà.
Il peccato come oppressione verso qualcuno e verso se stessi. Il peccato, certo diverso l’uno dall’altro, certo dalle grandi o dalle piccole conseguenze, è sempre un miscuglio fra il mistero del male che ci tenta, che compare nel cuore in modo improvviso, e la nostra libertà che sceglie di assecondarlo, di non tenerlo alla porta, ma di farlo entrare e dettare legge. Il peccato si rivela sempre come un’oppressione, un sopruso che noi facciamo a qualcun altro, un atto di soperchieria verso chi è più debole o verso qualcuno che abbiamo deciso di eliminare dall’orizzonte della nostra vita. Ma forse è ancora più vero dire che il peccato è un’oppressione nei confronti di noi stessi. All’inizio appare come una realtà promettente ma alla fine ti toglie il respiro, ti acceca, ti rapisce il cuore per intero costringendolo a ripiegarsi in mille e più giustificazioni e ripensamenti, a strisciare in un avvilente e paralizzante senso di colpa!
Le grandi oppressioni. Ognuno di noi può richiamare alla mente adesso qualche esempio di grande peccato che ci circonda o che la storia ci consegna: magari qualche omicidio, rapina, il peccato contro gli innocenti e i poveri, le stragi delle guerra famose e di quelle dimenticate di tutti i giorni. Sono vere e proprie oppressioni che alla fine rendono vittime anche quelli che le commettono.
Quell’uomo sei tu, quegli oppressori siamo noi! Ma molto spesso dietro al volto dei grandi peccatori, che noi stigmatizziamo per tenerli lontani come fantasmi spaventosi, c’è anche il nostro volto. Quegli oppressori siamo noi, almeno potenzialmente, perché il male è davvero accovacciato alla porta del cuore di ognuno (Gn 4) e se non lo teniamo a bada rischia di prender e il sopravvento sulla nostra libertà e ci potrebbe spingere nel baratro di gesti inimmaginabili! Oggi troviamo il coraggio di dire che soprattutto le nostre omissioni ci rendono complici con le grandi oppressioni della nostra società e del mondo intero. Quell’uomo… sono io, sei tu… siamo noi! Siamo noi a chiudere la porta di casa a chi soffre, a chi è straniero. Sono le nostre paure ad alzare muri dove si nasconde la povertà o dove nel deserto affettivo nasce la solitudine di tanti giovani che crea disagio e poi rabbia e violenza.
Natan porta il peso del cuore di Davide a Dio come quei 4 portano il peso del paralitico a Gesù e Dio inchioda alla propria responsabilità ma per schiodare la nostra libertà. Ma il circolo vizioso del male si è spezzato per Davide perché Natan ha il coraggio di portare il peso del suo cuore a Dio. La paralisi che ha inchiodato quell’uomo al suo lettuccio si è sciolta perché quei 4 hanno avuto una fede tale da sbalordire Gesù e da metterlo alle strette per compiere quel miracolo. Anche noi dobbiamo lasciarci portare da qualcuno a Dio, questa è la ricchezza che fa del nostro gruppo una comunità e ci rende forti come una roccia, e il suo amore ci inchioderà alle nostre responsabilità, perché altrimenti non sarebbe tale, ma per poi schiodarci con un perdono che è profondo come l’abisso dell’oceano. Di più: non si capirà mai chi è il nostro Dio se non abbiamo fatto esperienza del suo perdono.
Infine come sarebbe bello, con tutta l’umiltà che serve, proprio perché tutti noi siamo peccatori in conversione, ma proprio perché sappiamo che Dio ci libera dal male, se ci sentissimo Chiesa autorizzata a urlare con la stessa voce profetica di Natan contro tutti i soprusi che uccidono il nostro mondo e la nostra piccola e grande storia. Sogno una Chiesa che rifiuta la connivenza con tutti i potenti della terra per essere sempre all’opposizione, sempre con il dito puntato sulla piaga del male sapendo che questo è solo il primo passo per un’autentica guarigione. Ho nostalgia della voce profetica di papa Giovanni che scongiurò la guerra atomica, di Paolo VI che grida ai potenti “mai più la guerra” o di Giovanni Paolo II ad Agrigento contro l’oppressione della mafia. Che questa nostalgia diventi sogno e da sogno realtà.

domenica 7 agosto 2011

VIII dopo Pentecoste

Tre racconti, la storia di alcuni uomini
Come abbiamo ascoltato la Parola di oggi e come l’ascoltarono i protagonisti? Sarà per la nostra atavica propensione ad anestetizzare tutto ciò che può metterci seriamente in discussione, sarà per l’onda anomala di parole che ogni giorno ci investe e da cui, forse anche in chiesa, abbiamo preso l’abitudine a difenderci, sarà perché l’abitudine al precetto della domenica stempera i contorni forti del rito e delle sue provocazioni ma magari ci è sfuggito che qui si parla di uomini che, ad un tratto, si sono trovati coinvolti in un’avventura che non apparteneva a loro; qui si racconta di persone che, come noi, avevano un intreccio di relazioni, avevano una religiosità più o meno accesa, vivevano il tempo con le sue pesanti monotonie o i suoi deliranti strattoni che ti mettono fretta nel cuore, conducevano una normalissima esistenza e, ad un tratto, si sono imbarcati, chissà a quale prezzo, sulla rotta che avrebbe segnato per sempre il loro destino.
La chiamata dei primi discepoli: il fascino di una parola e di uno sguardo
Ad esempio i primi 4 discepoli. Stavano vivendo una normale giornata di lavoro, sentivano forse il peso di una fatica accolta solo per assicurare un presente dignitoso e un futuro promettente a qualcuno di caro, stavano conducendo con destrezza le loro barche e con passione la loro arte gustando la gioia di sentirsi uniti da una professione finché una voce decisa, poche parole a dire il vero, li ha gettati su una nuova strada, li ha messi in cammino verso una meta non chiara ma accolta perché era affidabile quell’uomo che passando li ha chiamati. Mi chiedo spesso che cosa quella voce ha fatto risuonare nel cuore di questi uomini e più ancora che forza affascinante dovevano avere gli occhi di Gesù per diventare contrappeso così pesante alla sicurezza di una vita messa da parte con fatica.
La chiamata di Paolo: un Vangelo che è un dono che se non condividi si consuma fra le mani
Era un uomo come noi, Paolo, o, a dire il vero, molto più acceso di noi nelle cose che riguardano Dio. Eppure anche lui si è trovato sbalzato da una voce che, se non il carattere, gli ha cambiato prospettiva. Da quel giorno sulla strada di Damasco quello che era importante non lo è stato più per lui, e ciò che disprezzava è diventato il suo tesoro tanto da accettare la sofferenza, tanto da iniziare a vivere la passione forte per il Vangelo.
La chiamata di Samuele: al servizio della Parola, il servizio della Profezia.
Era solo un ragazzo Samuele, uno come tanti, uno come i nostri. Cercava in Eli un maestro a cui poter aggrappare i sogni del miglior futuro immaginabile, già sapeva di Dio molte cose, ma non l’essenziale ovvero la sua capacità di destabilizzare ogni sicurezza per aprire orizzonti nuovi. Già stava preparando il suo posto in quella religiosità un po’ spenta e confinata nella sacralità del Tempio, quando una voce gli mette nel cuore un fuoco che da lì in avanti non potrà più contenere e che gli farà salire sulle labbra parole profetiche, forti con i forti e di tenerezza con i poveri, piene di speranza nei giorni della crisi e piena di duro monito nei giorni della finta prosperità.
Ciò che unisce queste storie. L’irruzione di Dio nel quotidiano: ci dicono che Dio non bada a schemi precisi e non si lascia confinare nel modulo già sperimentato. Al contrario lui è pieno di fantasia e creatività e, ad un tratto, rompe le distanze e si fa prossimo con un progetto che interpella la libertà dell’uomo. A volte questa sua comparsa è distesa nel tempo, a volte è rapida come il bagliore di un fulmine: in ogni caso è una vera e propria irruzione che usa violenza a chi la vive.
Un orizzonte che si spalanca all’improvviso e che dà senso pieno alla vita. Se chiedessimo ai nostri protagonisti se mai avevano immaginato cosa sarebbe stato di loro nell’assentire a Dio, tutti direbbero di no. Se domandassimo loro se ripeterebbero il loro sì risponderebbero in modo affermativo perché per la loro vita non avrebbero mai previsto nulla di così bello e di così profondo.
La vita come dono che si spezza per il bene di qualcun altro. Dio li chiama ma non li stringe sul palmo della sua mano. Piuttosto invece rende loro un dono per la vita di molti altri. La vocazione non è mai un bene privato ma una ricchezza da trafficare nella relazione con i fratelli.
Oggi, in questa tappa del cammino che ci fa riscoprire il mistero della storia della salvezza, è importante fare memoria della nostra vocazione: come e quando Dio ci ha chiamato e quale era l’orizzonte che ci ha aperto? Fa bene tornare indietro con la memoria e scoprire che siamo stati messi a parte di un sogno che ci ha fatto palpitare il cuore e che è diventato la nostra ricchezza.
Scoprire che c’è sempre una vocazione nella vocazione e Dio ci chiama sempre a precisare il nostro modo di amare come lui…in fondo la vocazione è proprio questo, il nostro modo speciale di vivere la fede, il nostro rapporto con lui e con i nostri fratelli alla maniera e secondo le esigenze del vangelo
Chiederci che ne è della nostra radicalità, se abbiamo svenduto i nostri sogni, se ci siamo lasciati prendere dalla delusione, dalle frustrazioni, se il nostro cuore si è arenato o è invecchiato oppure se questo cammino ci fa crescere ogni giorno sempre più, ci mantiene giovani, ci ha reso vulnerabili ma per far entrare nel cuore tutti quelli che amiamo.
E nel mondo deserto aprirai una strada nuova. Così dice una canzone che ha per tema la vocazione. Mi dà i brividi pensare che con il mio sì alla sua chiamata io apro un sentiero su cui tanti altri fratelli potranno scoprire il volto del Padre e l’annuncio che la vita ha senso solo se donata per amore.