C’è un punto nella vita in cui la trama che a fatica stai cucendo prende una piega sbagliata e il disegno che avevi in mente pian piano si perde. Da soli è quasi impossibile accorgersene: c’ è sempre qualcuno che ti vuole bene e che ti inchioda alle tue responsabilità! E allora, guardandoti indietro, ti accorgi che veramente qualcosa non è andato, che a tratti ti sei lasciato troppo prendere da te stesso e le tue aspirazioni si sono trasformate in deliri di onnipotenza che non ti hanno portato lontano e ti hanno lasciato da solo. E raschi il fondo di te stesso, ti senti davvero poca cosa, tutta la tela sembra da gettare. Ma si tratta solo di riprendere con umiltà quel bozzetto originario e rimettersi in cammino: la grandezza di un uomo si misura dalla sua capacità di accorgersi dei suoi errori e, quando serve, dal saper domandare perdono. Il cammino della storia della salvezza: il peccato di Davide. È quanto accade a Davide in questo passaggio così alto della Scrittura. Aveva avuto tutto dalla vita eppure, per prendersi una donna (mi sembra già in sé espressivo questo verbo che riduce la donna ad un oggetto), arriva ad uccidere un amico. Tutto è iniziato mentre i suoi erano in guerra e lui, contro ogni regola del galateo regale dell’epoca che costringeva i capi a scendere in battaglia con il loro popolo, passeggiava ozioso sul balcone della sua reggia. Da lì, dopo aver spiato Betsabea fare il bagno, ne sente il desiderio, la fa sua e, per la beffa del destino, quando rimane incinta, per mettere una pezza al guaio, fa richiamare dalla guerra il marito Uria per costringerlo a stare con sua moglie. All’ennesimo tentativo fallito, il ché se non fosse tragico sarebbe grottesco, Davide prende la decisione di farlo morire schierandolo a viso aperto contro il nemico così da prenderla in moglie senza problemi. Ma proprio qui arriva il profeta Natan che gli apre la mente a comprendere fino in fondo quello che è stato il suo peccato. Da allora per Davide nulla sarà più come prima soprattutto perché riprende la misura di se stesso come uomo, come semplice creatura, come piccola cosa nelle mani di un Signore che ha sempre creduto in lui e ancora adesso non si tira indietro e riapre la sfida della sua fedeltà.
Il peccato come oppressione verso qualcuno e verso se stessi. Il peccato, certo diverso l’uno dall’altro, certo dalle grandi o dalle piccole conseguenze, è sempre un miscuglio fra il mistero del male che ci tenta, che compare nel cuore in modo improvviso, e la nostra libertà che sceglie di assecondarlo, di non tenerlo alla porta, ma di farlo entrare e dettare legge. Il peccato si rivela sempre come un’oppressione, un sopruso che noi facciamo a qualcun altro, un atto di soperchieria verso chi è più debole o verso qualcuno che abbiamo deciso di eliminare dall’orizzonte della nostra vita. Ma forse è ancora più vero dire che il peccato è un’oppressione nei confronti di noi stessi. All’inizio appare come una realtà promettente ma alla fine ti toglie il respiro, ti acceca, ti rapisce il cuore per intero costringendolo a ripiegarsi in mille e più giustificazioni e ripensamenti, a strisciare in un avvilente e paralizzante senso di colpa!
Le grandi oppressioni. Ognuno di noi può richiamare alla mente adesso qualche esempio di grande peccato che ci circonda o che la storia ci consegna: magari qualche omicidio, rapina, il peccato contro gli innocenti e i poveri, le stragi delle guerra famose e di quelle dimenticate di tutti i giorni. Sono vere e proprie oppressioni che alla fine rendono vittime anche quelli che le commettono.
Quell’uomo sei tu, quegli oppressori siamo noi! Ma molto spesso dietro al volto dei grandi peccatori, che noi stigmatizziamo per tenerli lontani come fantasmi spaventosi, c’è anche il nostro volto. Quegli oppressori siamo noi, almeno potenzialmente, perché il male è davvero accovacciato alla porta del cuore di ognuno (Gn 4) e se non lo teniamo a bada rischia di prender e il sopravvento sulla nostra libertà e ci potrebbe spingere nel baratro di gesti inimmaginabili! Oggi troviamo il coraggio di dire che soprattutto le nostre omissioni ci rendono complici con le grandi oppressioni della nostra società e del mondo intero. Quell’uomo… sono io, sei tu… siamo noi! Siamo noi a chiudere la porta di casa a chi soffre, a chi è straniero. Sono le nostre paure ad alzare muri dove si nasconde la povertà o dove nel deserto affettivo nasce la solitudine di tanti giovani che crea disagio e poi rabbia e violenza.
Natan porta il peso del cuore di Davide a Dio come quei 4 portano il peso del paralitico a Gesù e Dio inchioda alla propria responsabilità ma per schiodare la nostra libertà. Ma il circolo vizioso del male si è spezzato per Davide perché Natan ha il coraggio di portare il peso del suo cuore a Dio. La paralisi che ha inchiodato quell’uomo al suo lettuccio si è sciolta perché quei 4 hanno avuto una fede tale da sbalordire Gesù e da metterlo alle strette per compiere quel miracolo. Anche noi dobbiamo lasciarci portare da qualcuno a Dio, questa è la ricchezza che fa del nostro gruppo una comunità e ci rende forti come una roccia, e il suo amore ci inchioderà alle nostre responsabilità, perché altrimenti non sarebbe tale, ma per poi schiodarci con un perdono che è profondo come l’abisso dell’oceano. Di più: non si capirà mai chi è il nostro Dio se non abbiamo fatto esperienza del suo perdono.
Infine come sarebbe bello, con tutta l’umiltà che serve, proprio perché tutti noi siamo peccatori in conversione, ma proprio perché sappiamo che Dio ci libera dal male, se ci sentissimo Chiesa autorizzata a urlare con la stessa voce profetica di Natan contro tutti i soprusi che uccidono il nostro mondo e la nostra piccola e grande storia. Sogno una Chiesa che rifiuta la connivenza con tutti i potenti della terra per essere sempre all’opposizione, sempre con il dito puntato sulla piaga del male sapendo che questo è solo il primo passo per un’autentica guarigione. Ho nostalgia della voce profetica di papa Giovanni che scongiurò la guerra atomica, di Paolo VI che grida ai potenti “mai più la guerra” o di Giovanni Paolo II ad Agrigento contro l’oppressione della mafia. Che questa nostalgia diventi sogno e da sogno realtà.
Il peccato come oppressione verso qualcuno e verso se stessi. Il peccato, certo diverso l’uno dall’altro, certo dalle grandi o dalle piccole conseguenze, è sempre un miscuglio fra il mistero del male che ci tenta, che compare nel cuore in modo improvviso, e la nostra libertà che sceglie di assecondarlo, di non tenerlo alla porta, ma di farlo entrare e dettare legge. Il peccato si rivela sempre come un’oppressione, un sopruso che noi facciamo a qualcun altro, un atto di soperchieria verso chi è più debole o verso qualcuno che abbiamo deciso di eliminare dall’orizzonte della nostra vita. Ma forse è ancora più vero dire che il peccato è un’oppressione nei confronti di noi stessi. All’inizio appare come una realtà promettente ma alla fine ti toglie il respiro, ti acceca, ti rapisce il cuore per intero costringendolo a ripiegarsi in mille e più giustificazioni e ripensamenti, a strisciare in un avvilente e paralizzante senso di colpa!
Le grandi oppressioni. Ognuno di noi può richiamare alla mente adesso qualche esempio di grande peccato che ci circonda o che la storia ci consegna: magari qualche omicidio, rapina, il peccato contro gli innocenti e i poveri, le stragi delle guerra famose e di quelle dimenticate di tutti i giorni. Sono vere e proprie oppressioni che alla fine rendono vittime anche quelli che le commettono.
Quell’uomo sei tu, quegli oppressori siamo noi! Ma molto spesso dietro al volto dei grandi peccatori, che noi stigmatizziamo per tenerli lontani come fantasmi spaventosi, c’è anche il nostro volto. Quegli oppressori siamo noi, almeno potenzialmente, perché il male è davvero accovacciato alla porta del cuore di ognuno (Gn 4) e se non lo teniamo a bada rischia di prender e il sopravvento sulla nostra libertà e ci potrebbe spingere nel baratro di gesti inimmaginabili! Oggi troviamo il coraggio di dire che soprattutto le nostre omissioni ci rendono complici con le grandi oppressioni della nostra società e del mondo intero. Quell’uomo… sono io, sei tu… siamo noi! Siamo noi a chiudere la porta di casa a chi soffre, a chi è straniero. Sono le nostre paure ad alzare muri dove si nasconde la povertà o dove nel deserto affettivo nasce la solitudine di tanti giovani che crea disagio e poi rabbia e violenza.
Natan porta il peso del cuore di Davide a Dio come quei 4 portano il peso del paralitico a Gesù e Dio inchioda alla propria responsabilità ma per schiodare la nostra libertà. Ma il circolo vizioso del male si è spezzato per Davide perché Natan ha il coraggio di portare il peso del suo cuore a Dio. La paralisi che ha inchiodato quell’uomo al suo lettuccio si è sciolta perché quei 4 hanno avuto una fede tale da sbalordire Gesù e da metterlo alle strette per compiere quel miracolo. Anche noi dobbiamo lasciarci portare da qualcuno a Dio, questa è la ricchezza che fa del nostro gruppo una comunità e ci rende forti come una roccia, e il suo amore ci inchioderà alle nostre responsabilità, perché altrimenti non sarebbe tale, ma per poi schiodarci con un perdono che è profondo come l’abisso dell’oceano. Di più: non si capirà mai chi è il nostro Dio se non abbiamo fatto esperienza del suo perdono.
Infine come sarebbe bello, con tutta l’umiltà che serve, proprio perché tutti noi siamo peccatori in conversione, ma proprio perché sappiamo che Dio ci libera dal male, se ci sentissimo Chiesa autorizzata a urlare con la stessa voce profetica di Natan contro tutti i soprusi che uccidono il nostro mondo e la nostra piccola e grande storia. Sogno una Chiesa che rifiuta la connivenza con tutti i potenti della terra per essere sempre all’opposizione, sempre con il dito puntato sulla piaga del male sapendo che questo è solo il primo passo per un’autentica guarigione. Ho nostalgia della voce profetica di papa Giovanni che scongiurò la guerra atomica, di Paolo VI che grida ai potenti “mai più la guerra” o di Giovanni Paolo II ad Agrigento contro l’oppressione della mafia. Che questa nostalgia diventi sogno e da sogno realtà.
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