sabato 23 gennaio 2010

III domenica dopo l'Epifania

Ci sono delle domeniche in cui non mi riesce facile predicare: bisogna cercare di tenere insieme la Liturgia della Parola e, allo stesso tempo, cercare di inserirla all’interno della celebrazione eucaristica; bisogna arginare la voglia di parlare a lungo perchè – si sa – il rischio dei colpi di sonno è sempre in agguato! Oppure si cerca disperatamente più di una prospettiva per non chiudere tutto in pochi minuti; e che dire poi quando gli esempi non vengono e si diventa troppo teorici, oppure quando avresti voglia di dire le cose in faccia con una certa schiettezza ed è meglio tacere per non far diventare la Parola un’arma impropria! Ma oggi non è una di quelle domeniche…mi è sembrato che tutto potesse essere semplicemente racchiuso nella parola condivisione, che non è altro dalla parola amore! Gesù è la manifestazione della voglia che Dio ha di condividere se stesso con noi – siamo nei giorni in cui si continua a dare eco al tema dell’Epifania, della rivelazione di Dio – e proprio da questa grammatica aperta del suo amore per noi anche noi siamo chiamati a giocarci in tutto e per tutto con e per i nostri fratelli.
Ho cercato di legare ad ogni lettera del termine condivisione una parola, così, per formare un piccolo prontuario ad uso nostro per ritrovare i presupposti della condivisione qualora fossimo un po’ a corto di stimoli.
Compassione. È Gesù stesso che nel Vangelo di oggi, in questo racconto della seconda moltiplicazione dei pani, usa questo termine. Il nostro è un Dio che si lascia commuovere, toccare, raggiungere, ferire da chi gli sta di fronte. L’amore tende a rompere le distanze, ad avvicinare, a creare comunione. Gesù sente che quella folla non ce l’avrebbe fatta a proseguire il suo cammino e decide di mettersi in gioco, di farsi carico della sua fatica. Spesso noi abbiamo un’idea falsata del nostro Dio: è come se qualcosa ci convincesse che lui non possa amarci per quello che siamo, anche per quella terra in ombra che ognuno si porta nel cuore dove le correnti della memoria si fanno rapidissime, quando il giudizio nostro o degli altri si fa condanna. In realtà il Signore ci abbraccia, si china sulle nostre ferite, soffre con noi per poi portarci in braccio come fa una madre con il suo bambino, prende sulle sue spalle il nostro dolore e il nostro affanno e ci dà la pace. Cos’altro è quel Pane che Gesù ha dato alla sua gente se non il segno di una risposta al suo affanno? Cos’altro è quel Pane che fra poco spezzeremo se non il segno di un’alleanza che nulla e nessuno potranno rompere?
Ostinazione. Mi sembra questo lo stile di Gesù di fronte all’obiezione, pur sensata, dei sui discepoli. La sua ostinazione domanda fiducia. Proviamo a metterci in ascolto dell’ostinazione di Dio per ogni uomo, fidiamoci di lui e anche noi diventeremo caparbi nello scegliere in ogni nostra mossa la carità.
Necessario. Gesù domanda ai suoi di mettere in gioco quanto di necessario avevano per sfamarsi: era poca cosa eppure sarà costato molto donarla; forse nei discepoli era forte la paura di restare anche loro a digiuno. Anche noi abbiamo il poco necessario e a volte anche di meno! È la nostra vita, anche con tutte le sue righe tirate storte, eppure è il necessario che il Signore ci chiede di mettere nelle sue mani. Se non lo traffichiamo, non lo spendiamo bene si rischia di restare a mani vuote.
Dividere per moltiplicare. È strana questa operazione matematica che sembra riuscire bene al nostro Dio. Il necessario messo nelle mani di Gesù si moltiplica. Quel poco perché diviso è diventato abbondanza che ha saziato la fame di quella gente. Dividere solo in apparenza è perdere, in realtà è assecondare la logica della Provvidenza che ci ridona sempre con gli interessi quanto siamo capaci di donare. Proviamo a riprendere con calma lo stralcio della 2 Corinti che abbiamo appena proclamato e troveremo tante altre motivazioni per dividere il nostro necessario.
Inatteso. Il dono di Dio è sempre così e per questo ci riempie di gioia. È quanto i discepoli constatano quando nelle loro stesse mani il pane si moltiplica. È quanto anche noi proviamo di fronte ad un orizzonte che all’improvviso si apre o ad una luce che ci rapisce all’improvviso e ci fa ancora scommettere sul Vangelo.
Vita, è quella che noi vogliamo servire con la nostra condivisione. Ci sono fratelli che hanno perso la dignità perché sono stati messi ai margini, oppure perché si sono chiusi nella loro disperazione. La condivisione è come il vento di primavera che risveglia la vita, è come una linfa misteriosa e nascosta che fa fiorire anche i rami apparentemente secchi. In questa settimana che la nostra Diocesi dedica al tema dell’educazione vogliamo pensare che è fondamentale, una vera e propria scommessa sul futuro, condividere quello che siamo con i nostri ragazzi perché nessuno può essere uomo in pienezza senza nessuno che lo prenda per mano.
Immaginare …lo stile della condivisione ci chiede di non lasciare nulla all’improvvisazione ma domanda di essere progetto di vita.
Sempre. Quando condividere? beh, ecco la risposta!
Ipoteca. Condividere è un impegno sul futuro. Forse oggi non riusciamo a vedere null’altro che la nostra piccola goccia, ma la fede ci porta a immaginare che un giorno sarà un oceano.
Occasione. Specifica il sempre di prima! Ogni occasione è buona per donarci. E ogni occasione persa lo è per sempre. Il bene che noi non faremo qui e ora nessuno potrà compierlo al nostro posto. E il mondo, se perdiamo anche solo un’occasione per amare, è decisamente più povero.
Novità. Condividere è stile che rende davvero nuova ogni cosa. Il mondo è assetato di novità secondo il Vangelo; chi crede e diventa immagine di Gesù che si spezza per amore è creativo nel suo agire, perché è mosso dallo Spirito creatore. Forse non è più tempo dei vecchi moduli egoistici, è tempo di uno slancio di gratuità.
E, congiunzione. E ora tocca a noi lasciarci prendere per mano da Gesù e centellinare il suo amore e poi uscire di qui e fare ed essere come lui e…

sabato 16 gennaio 2010

II domenica dopo l'Epifania

Nelle settimane che seguono l’Epifania la nostra Chiesa vuole vivere ancora la gioia di aver incontrato un Dio che, pur restando diverso e altro da noi, ha deciso di rivelarsi, di raccontarsi in Gesù suo Figlio chiedendoci di seguirlo, di fidarci di lui e di amarlo.
Ascolteremo così in queste domeniche, esclusa la santa Famiglia, i racconti in cui Gesù rivela la sua Gloria nel segno oggi dell’acqua trasformata in vino e poi del pane moltiplicato, la sua Potenza che guarisce e la sua Misericordia che salva.
Mi piacerebbe approcciare il brano delle nozze di Cana con una doppia prospettiva: da una parte mettendomi nei panni di chi era presente lì in quel giorno e poi raccogliendo la simbologia di cui è ricco questo e tutte le pagine del Vangelo di Giovanni.
Sono diversi i protagonisti che si muovono all’interno di questa scena. Gli sposi e la loro gioia condivisa nella festa che, secondo l’uso di allora, poteva anche durare una settimana: loro non si accorgono di tutto quello che stava accadendo nelle retroguardie del cerimoniale e del miracolo di Gesù: ne sono i beneficiari assoluti con tanto di lode da parte del maestro di tavola! E poi ci sono i servi che denunciano la mancanza e sono i soli a vedere il segno dell’acqua trasformata in vino in quelle giare di pietra. A quelle nozze c’è Maria che muove il Figlio a compiere il miracolo con la premura di chi partecipa alla gioia e alla sofferenza dell’altro e infine i discepoli che assistono e credono alla manifestazione di quel Maestro che li aveva affascinati sul cammino della loro vita. La nostra prospettiva in questo racconto coincide con quella del narratore che sa tutto lo svolgersi dell’episodio e, allo stesso tempo, sa anche come prosegue la storia di Gesù fino al compimento dell’Ora in cui il cielo e la terra si sono uniti, come per le nozze, nell’abbraccio del crocifisso-risorto. Noi possiamo condividere la premura della Madre, lo stupore dei servi, la gioia degli sposi e soprattutto la fede dei discepoli che avevano seguito Gesù per credergli e ora gli credono per poterlo seguire più da vicino e comprendere sempre più di lui. La fede non è mai un assioma scontato ma, come per l’amore, un dono che cresce solo nella misura in cui ci si mette in gioco. Gesù si è rivelato a noi in qualche cosa, mai in maniera definitiva, ci chiede di fidarci e di credere in lui, di affidarci alle sue braccia come un bambino in quelle della madre, si rivela e poi si nasconde, ci dà luce e poi ci permette di entrare nella notte della fede, gli piace stare con noi giocando a nascondino. Proviamo ora a vedere insieme qualche cosa della simbologia di cui il testo è ricco. Giovanni scrive sempre su un doppio registro: ci racconta dei segni ma questi rimandano sempre a un oltre, alla Gloria come la carne di Gesù rimanda sempre alla sua divinità.
Il segno delle nozze: in un contesto così il Signore si è voluto rivelare per dire che la sua vocazione è quella di raccontare l’amore di Dio all’uomo e che in lui è arrivato il giorno dell’Alleanza nuova e della comunione. Le giare di pietra per la purificazione sono sei e denunciano l’imperfezione di tutti i riti e le realtà che hanno preceduto il suo giorno; il vino è il segno della festa e della gioia dei tempi ultimi, della pienezza e dice la presenza del Messia; è proprio l’acqua rituale a trasformarsi dal di dentro, dalla fede ebraica è nata la Chiesa come continuità e anche compimento di un cammino di Alleanza – è interessante ricordarlo in questo giorno in cui si celebra il dialogo fra cristiani ed ebrei e in cui il Papa ha fatto visita alla Sinagoga di Roma per dire che la Chiesa non può mai pensarsi lontana o diversa da quel cammino del popolo eletto –; e infine, la gioia degli sposi e quella degli invitati che, pur ignorando tutto, possono continuare a far festa è la gioia del mondo che ha incontrato Cristo: se qualcosa di bello e di buono prende forma nel nostro tempo è perché nasce dal soffio dello Spirito di Gesù.
Anche noi allora non scordiamo che il nostro Dio ci ama e ci veste di tenerezza, ai suoi occhi siamo preziosi come la sposa per lo sposo, come in un matrimonio dove non ci si vuole bene perché si è perfetti ma ci si sceglie e ci si ama a partire dalla debolezza e dai limiti dell’altro. Questo amore deve essere la nostra grammatica per le nostre relazioni in casa, sul lavoro e nella comunità. Non scordiamo che il tono di fondo della nostra vita deve essere la gioia, discreta, profonda che nulla può turbare, e ogni tanto ricordiamo di essere frizzanti come il vino nuovo, capaci di dare ebbrezza e di spaccare ciò che è vecchio, in altre parole, il cristiano deve essere uno che si cala nel mondo e lo rinnova dal di dentro con una speranza che si fa gioia contagiosa, una creatività sempre nuova che rompe i moduli vecchi e se ne inventa sempre di nuovi, con un linguaggio e uno stile che non sanno di muffa ma danno giovinezza a chi ci circonda.

domenica 10 gennaio 2010

Battesimo di Gesù

“Cercate il Signore mentre si fa trovare”
Non davanti a noi in avanscoperta, nemmeno dietro a chiudere le fila, non sopra le nostre teste per mantenere le distanze o sotto di noi per tramare a nostra insaputa… ma in mezzo a noi: ecco dove dimora il Signore da quando ha deciso di dare forma al sogno di comunione con noi sue creature. E se nella pericope della rivelazione ai Magi qualche giorno fa abbiamo celebrato l’audacia dell’uomo che si fa cercatore di Dio, oggi, in questa nuova Epifania di Gesù, è il Signore a muovere i suoi passi verso la nostra umanità e a lasciarsi trovare. È in fila fra i peccatori e attende paziente il suo turno per scendere nell’acqua, sta con chi dal peccato vuole rinascere a una nuova vita, lascia che questo desiderio di santità ma anche che le vicende di peccato profumino la sua pelle; come segno di partecipazione e di condivisione sta con la sua gente che ha fiutato l’arrivo del Messia come quando senti la primavera in un soffio di vento. C’è chi cerca Dio nella solitudine del deserto, c’è chi lo cerca sprofondando nel silenzio delle mura di un convento e c’è chi lo cerca nel frastuono delle vita di ogni giorno. Ma tutti lo troveranno quando avranno il coraggio di guardare al fratello che sta accanto e alla propria umanità perché lì il Signore ha piantato la sua tenda. Non bisogna fuggire lontano da se stessi, bisogna scendere nel proprio cuore per scoprire il volto di Dio: è in mezzo alle nostre domande più vere come risposta che ci mette in cammino e ci chiede fiducia; sta con le braccia allargate per accoglierci quando sbagliamo e cadiamo; ci attende con il sorriso sulle labbra quando ci attardiamo; è compagno discreto in mezzo alle nostre lotte e alle nostre mille difficoltà quando vorremmo mollare il colpo e gettare la spugna; si fa luce nella notte delle nostre sconfitte e delle nostre paure. C’è un’alleanza ormai tenace fra la nostra umanità e la sua presenza che resiste ad ogni colpo, anche duro, della vita.

Tu sei il mio figlio, l’amato.
Questa è la voce che Gesù sente e anche chi era presente in quel momento e lo Spirito si rivela abbraccio d’amore fra il Padre e il Figlio suo. E dalle rive del Giordano inizia un cammino in salita per dare amore ad ogni uomo nel segno della gratuità. Darà vino nuovo alle nozze di Cana, spezzerà il pane per una moltitudine di gente, raccoglierà chiunque si è perso nel cammino della vita e alla fine, perché la gratuità lo pretende, si farà lui Pane spezzato per tutti nel segno di una dedizione che non si risparmia in nulla. Ci si scopre amati per poi amare. E Gesù ha accettato totalmente la sfida e l’azzardo di questa vocazione. Anche su di noi, in Gesù, il Padre pronuncia questa parola di benedizione: anche noi siamo gli amati suoi figli. Tutto quello che in noi o attorno a noi cercherà di convincerci del contrario è falso e non merita attenzione. Il Nemico sa bene che quando smettiamo di credere di essere amati da Dio iniziamo un cammino in discesa. Da quell’abbraccio nulla potrà strapparci e anche oggi in questa Messa ci sarà confermato. Dunque dobbiamo ripartire dall’amore che Dio ha per noi per riversare amore sui nostri fratelli: è il nostro destino. E se a volte ci accorgiamo di essere a corto di passione è perché siamo a corto di fede. E se la fede viene meno è perché ci manca l’audacia della Carità.

Un tempo voi eravate i lontani… ma ora siete familiari di Dio
Oggi non possiamo dimenticare il nostro Battesimo. C’è stato fatto il dono della fede e ci scopriamo da quel giorno da sempre vicini a Dio tanto da essere suoi familiari, gente di casa, figli che possono vivere in libertà. Siamo stati immersi nell’amore di Dio e ricordare quell’evento significa avanzare nel nostro cammino di santità, significa lasciarsi prendere per mano dal Figlio e lasciare che lui modelli la nostra vita sui tratti della sua. E così, ognuno con la sua vocazione, potrà raccontare non a parole ma con i fatti la storia di Gesù al mondo. Anche noi saremo prossimo di ogni fratello, anche noi scommetteremo sulla gratuità senza timore di perderci, anche noi saremo strumenti semplici ma incisivi perché il mondo si trasformi nel Paradiso.

martedì 5 gennaio 2010

Epifania del Signore

vennero da oriente a Gerusalemme…
ed erano uomini saggi, pieni di quella sapienza che però non gonfia, che non si ferma all’evidenza dei dati ma vuole risalire al perché delle cose. Erano sempre riconsegnati alla loro infinita pochezza di fronte all’universo, al cielo a lungo scrutato nelle limpide e fredde notti d’oriente: sono dotti e si sentivano sempre come bambini colmi di stupore di fronte ad ogni novità.
La giovinezza davvero non è un fatto banalmente anagrafico: ho conosciuti giovani invecchiati troppo in fretta e vecchi che sono rimasti giovani ! La vita ha senso solo se è vissuta nella ricerca, nel non accontentarsi mai non solo della menzogna ma anche delle mezze verità, se non ci si accomoda sui primissimi risultati e nemmeno sui secondi ma si tende sempre all’oltre, all’orizzonte grande della verità; quando si ha il coraggio di porsi grandi domande, di scendere in solitudine nei meandri più nascosti del proprio cuore, fino a star male, di fronte alla vita, alla sofferenza e alla morte, quando non si mette un punto definitivo sugli altri ma si ha sempre il coraggio di stupirsi, quando anche la propria vita non si sclerotizza nei moduli consueti ma sa evolversi e crescere con il passare dei giorni, quando la paura di sbagliare non ci impedisce di metterci in cammino perché è ben più grave restare immobili. E così si scopre che la felicità non è solo nella meta ma anche, se non soprattutto, nel cammino. Devo dire grazie a tutte le anime inquiete che ho incontrato nel mio cammino, a tutti quelli che mi hanno aperto gli occhi ad una verità che ignoravo o non volevo conoscere, a chi mi ha aiutato a cambiare idea su qualcosa o su qualcuno, a quei santi che hanno vissuto la notte del cuore e, dopo tanto dolore, sono stati capaci di rimettersi nelle mani della Provvidenza lasciandosi modellare perchè anche la fede non è mai un assioma assunto definitivamente ma un pungolo a non essere soddisfatti dell’evidenza e a cercare motivi sempre più credibili per affidarsi alle braccia di un Dio. E quel Dio, che a volte ama nascondersi nella nebbia e giocare a nascondino con la sua creatura, sembra apprezzare chi è in ricerca e non piuttosto chi pensa di conoscerlo come un teorema noioso o come un compendio moralistico: lui, ai primi, non fa mancare quei segni necessari che assomigliano a quella stella apparsa nel cielo all’improvviso.
videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono
il loro cammino approda a Betlemme, nell’unica casa dove mai nessuno avrebbe potuto immaginare esserci un re. Eppure la stella parlava chiaro e brillava proprio sopra quella stalla. Devono immediatamente fare i conti con la paradossalità dell’evento. Qualcosa alla vista di quel bambino e di quella donna li avrà convinti e loro, che non appartengono al popolo eletto, lo adorano con un gesto che solo i grandi del passato avevano compiuto di fronte a qualche manifestazione di Dio. Hanno compreso bene che Dio non ama dimorare nei palazzi dei re: si sarebbe fatto complice di logiche troppo interessate al potere; non sta nella curata rifinitura dei templi perché avrebbe perso la sua libertà: Dio non può che essere povero, ritrarsi, per fare spazio all’altro di accoglierlo, non può che essere solidale in tutto con gli ultimi di questo mondo per riscattarli, non può non occupare il posto più basso per far sorgere dalla polvere della terra una rivoluzione capace di squassare i sistemi più rigidi. Beati saremo noi se ci lasceremo prendere dalla paradossale bellezza di questa povertà perché avremo compreso il carattere del nostro Dio. Beati noi se ci lasceremo contagiare da questo cammino che non si risparmia di scendere in basso ma solo perché l’amore è estroversione e tende a dare la vita.
per un’altra strada fecero ritorno al loro paese
questi cercatori di Dio sanno sempre trovare strade alternative, anche ora non si accontentano di percorrere lo stesso cammino per tornare al loro paese: si fidano dei loro sogni e azzardano sentieri non ancora battuti. È il segno questo che hanno davvero incontrato il Signore e che dovranno continuare a cercarlo nella loro vita, per non tradirlo devono nuovamente gettarsi nell’avventura. Il segno che anche noi abbiamo trovato il Bambino, ci siamo lasciati rapire dalla rivelazione del nostro Dio, sta nel coraggio di intraprendere vie nuove, dal sapore evangelico, nella trama di tutti i giorni. Forse in una vita come la tratteggia Paolo nella lettera a Tito, forse in gesti di carità discreta e per questo davvero incisivi, forse nella gioia che non è mai sguaiata ma sempre contraddistinta da un sorriso. E nel cielo della nostra vita qualcuno si farà certamente compagno di volo.

domenica 27 dicembre - san Giovanni apostolo ed Evangelista

Mi piace vedere come una spregiudicatezza la convinzione della Chiesa di non limitare al solo arco di 24 ore l’evento dell’Incarnazione del Figlio ma di dilatarlo per 8 giorni: nasce così l’ottava del Natale, 8 giorni-un unico giorno! In un gioco di differenti prospettive la Liturgia continua a farci mettere in ginocchio ai piedi del Bambino, a farci contemplare il mistero della prossimità del nostro Dio. E così Stefano, di cui ieri abbiamo celebrato la festa, Giovanni, i Martiri Innocenti, non sono che amici che ci prendono per mano e ci portano fino a Betlemme per raccontarci cosa accade se si accoglie sul serio Gesù nella propria vita, se si fa spazio nella Tenda del nostro cuore perché lui vi prenda dimora.
Vedere e guardare: mi sembra che su questo binomio di verbi si giochi la prima suggestione che la Parola di oggi ci comunica. Non sono sinonimi. Guardare è un passo oltre il vedere. Ognuno è capace di vedere il mondo e le persone che lo circondano. Non tutti invece sono capaci di guardare perché significa penetrare, andare oltre le apparenze, conservare nel cuore quanto ci circonda lasciandosi interrogare per poi solo alla fine esprimere un giudizio. L’amicizia nasce quando non vedi più nell’altro solo un compagno di viaggio ma guardi in lui un fratello che condivide con te lo stesso orizzonte; l’amore nasce quando accanto a te non vedi solo una delle donne ma guardi in lei la tua promessa di felicità; la fede nasce perché hai saputo guardare in alcuni segni nel cammino della vita la presenza di Dio Padre. Giovanni è uno che ha saputo guardare Gesù, nella sua umanità ha scrutato i segni della presenza di Dio, anche ai piedi della croce non ha visto solo la povertà e lo squallore ma la Gloria del Padre e nell’acqua e nel sangue dal suo costato ha riconosciuto la primavera di un mondo nuovo. Lui è il discepolo che più di tutti conserva questo sguardo mistico, teologico che sa leggere nella realtà fino a scendere nelle vene della storia per scoprire lo scorrere della presenza del Padre. In questo senso capiamo perché è spesso contrapposto a Pietro che invece non era per nulla incline alla riflessione nella sua irruenza e nella sua passione spesso concitata Giovanni ci insegna che se vogliamo essere discepoli di quel Bimbo che è nato per noi, anche noi dobbiamo allenare lo sguardo, superare le barriere della superficie e accogliere in noi la Speranza. Il credente non può permettersi giudizi affrettati sul mondo e sulle persone: ha la saggezza di attendere, ha la speranza di chi sa attendersi ancora qualcosa da tutti, sa che Dio è all’opera e vive nella beatitudine di quell’abbraccio – Giovanni chiama “quelli a cui è dato il potere di diventare figli di Dio” chi ha accolto Gesù – sa che i cardini della storia appartengono a Dio e vive nella pace.
L’annuncio del Vangelo e il nostro Vangelo. È Paolo che mi suggerisce questo secondo spunto nella sua lettera ai Romani quando parla della necessità dell’annuncio perché la salvezza tocchi i cuori degli uomini. Mi sorprende sempre un brivido se penso che Dio ha deciso di non poter fare a meno della parola dell’uomo per raccontare di sé, non vuole fare a meno di noi, e per credere devi passare attraverso il portale della testimonianza dell’altro: non ci sarebbe la fede se non ci fosse qualcuno che la vive in prima persona. Giovanni ha scritto un Vangelo complesso che riesci a cogliere solo se sei ricco di fede, ogni riga è come un’onda che ti prende per portarti al largo e questo è stato il suo modo originale di raccontare la sua esperienza di Dio e attraverso quelle righe lo Spirito continua a suscitare attenzione, conversioni, cammini di santità. Ognuno di noi è chiamato a scrivere il suo vangelo, a raccontare alle nuove generazioni che cosa lo ha colpito, sedotto, attratto di Gesù e solo nella misura in cui sarà parola vera sarà contagiosa e capace di aggregare. A volte mi chiedo che Vangelo noi raccontiamo ai nostri giovani, che cosa possono leggere nelle trame a volte poco pulite delle nostre comunità dove ci si affanna per garantire la sussistenza della struttura piuttosto che dire la freschezza dell’alternativa credente, dove trovano la bellezza nelle nostre liturgie così stanche, così sopite, dettate forse più dal dover assolvere un precetto piuttosto che dalla gioia dell’incontro con il Risorto, che cosa intuiscono di promettente nell’arroccarsi in sterili ritualismi e dogmatismi della Chiesa. Ho come l’impressione che le nostre parole siano ridotte troppo spesso a un’antologia di precetti moralistici oppure che presentino la fede come un prontuario che renderebbe tutto più semplice e per questo poco credibile. Ma come saper dire il fascino di Gesù, la forza della sua umanità, la sua portata rivoluzionaria che ha sconvolto il mondo dal basso e poi la scoperta che lui era Dio, che in lui Dio ha calpestato la nostra terra e si è fatto nostro compagno?
E infine dal Vangelo traggo un ultimo spunto. Giovanni era il discepolo amato. La sua via non è in alternativa a quella di Pietro ma le si affianca per arricchirla. Anche Pietro dovrà imparare a lasciarsi amare da Gesù e questo, aldilà delle apparenze, è forse la cosa più difficile e tutto, in noi e attorno a noi, trama perché smettiamo di crederci. Il Nemico infatti sa che se viene meno questa certezza la nostra fede si fa arida e si svuota della sua portata rivoluzionaria. Ognuno di noi oggi si senta l’amato, il prediletto perché Dio ci ha tanto amati da darci il suo Figlio. E se questa certezza inizierà a palpitare nelle nostre vene davvero tutto può cambiare!