Mi piace vedere come una spregiudicatezza la convinzione della Chiesa di non limitare al solo arco di 24 ore l’evento dell’Incarnazione del Figlio ma di dilatarlo per 8 giorni: nasce così l’ottava del Natale, 8 giorni-un unico giorno! In un gioco di differenti prospettive la Liturgia continua a farci mettere in ginocchio ai piedi del Bambino, a farci contemplare il mistero della prossimità del nostro Dio. E così Stefano, di cui ieri abbiamo celebrato la festa, Giovanni, i Martiri Innocenti, non sono che amici che ci prendono per mano e ci portano fino a Betlemme per raccontarci cosa accade se si accoglie sul serio Gesù nella propria vita, se si fa spazio nella Tenda del nostro cuore perché lui vi prenda dimora.
Vedere e guardare: mi sembra che su questo binomio di verbi si giochi la prima suggestione che la Parola di oggi ci comunica. Non sono sinonimi. Guardare è un passo oltre il vedere. Ognuno è capace di vedere il mondo e le persone che lo circondano. Non tutti invece sono capaci di guardare perché significa penetrare, andare oltre le apparenze, conservare nel cuore quanto ci circonda lasciandosi interrogare per poi solo alla fine esprimere un giudizio. L’amicizia nasce quando non vedi più nell’altro solo un compagno di viaggio ma guardi in lui un fratello che condivide con te lo stesso orizzonte; l’amore nasce quando accanto a te non vedi solo una delle donne ma guardi in lei la tua promessa di felicità; la fede nasce perché hai saputo guardare in alcuni segni nel cammino della vita la presenza di Dio Padre. Giovanni è uno che ha saputo guardare Gesù, nella sua umanità ha scrutato i segni della presenza di Dio, anche ai piedi della croce non ha visto solo la povertà e lo squallore ma la Gloria del Padre e nell’acqua e nel sangue dal suo costato ha riconosciuto la primavera di un mondo nuovo. Lui è il discepolo che più di tutti conserva questo sguardo mistico, teologico che sa leggere nella realtà fino a scendere nelle vene della storia per scoprire lo scorrere della presenza del Padre. In questo senso capiamo perché è spesso contrapposto a Pietro che invece non era per nulla incline alla riflessione nella sua irruenza e nella sua passione spesso concitata Giovanni ci insegna che se vogliamo essere discepoli di quel Bimbo che è nato per noi, anche noi dobbiamo allenare lo sguardo, superare le barriere della superficie e accogliere in noi la Speranza. Il credente non può permettersi giudizi affrettati sul mondo e sulle persone: ha la saggezza di attendere, ha la speranza di chi sa attendersi ancora qualcosa da tutti, sa che Dio è all’opera e vive nella beatitudine di quell’abbraccio – Giovanni chiama “quelli a cui è dato il potere di diventare figli di Dio” chi ha accolto Gesù – sa che i cardini della storia appartengono a Dio e vive nella pace.
L’annuncio del Vangelo e il nostro Vangelo. È Paolo che mi suggerisce questo secondo spunto nella sua lettera ai Romani quando parla della necessità dell’annuncio perché la salvezza tocchi i cuori degli uomini. Mi sorprende sempre un brivido se penso che Dio ha deciso di non poter fare a meno della parola dell’uomo per raccontare di sé, non vuole fare a meno di noi, e per credere devi passare attraverso il portale della testimonianza dell’altro: non ci sarebbe la fede se non ci fosse qualcuno che la vive in prima persona. Giovanni ha scritto un Vangelo complesso che riesci a cogliere solo se sei ricco di fede, ogni riga è come un’onda che ti prende per portarti al largo e questo è stato il suo modo originale di raccontare la sua esperienza di Dio e attraverso quelle righe lo Spirito continua a suscitare attenzione, conversioni, cammini di santità. Ognuno di noi è chiamato a scrivere il suo vangelo, a raccontare alle nuove generazioni che cosa lo ha colpito, sedotto, attratto di Gesù e solo nella misura in cui sarà parola vera sarà contagiosa e capace di aggregare. A volte mi chiedo che Vangelo noi raccontiamo ai nostri giovani, che cosa possono leggere nelle trame a volte poco pulite delle nostre comunità dove ci si affanna per garantire la sussistenza della struttura piuttosto che dire la freschezza dell’alternativa credente, dove trovano la bellezza nelle nostre liturgie così stanche, così sopite, dettate forse più dal dover assolvere un precetto piuttosto che dalla gioia dell’incontro con il Risorto, che cosa intuiscono di promettente nell’arroccarsi in sterili ritualismi e dogmatismi della Chiesa. Ho come l’impressione che le nostre parole siano ridotte troppo spesso a un’antologia di precetti moralistici oppure che presentino la fede come un prontuario che renderebbe tutto più semplice e per questo poco credibile. Ma come saper dire il fascino di Gesù, la forza della sua umanità, la sua portata rivoluzionaria che ha sconvolto il mondo dal basso e poi la scoperta che lui era Dio, che in lui Dio ha calpestato la nostra terra e si è fatto nostro compagno?
E infine dal Vangelo traggo un ultimo spunto. Giovanni era il discepolo amato. La sua via non è in alternativa a quella di Pietro ma le si affianca per arricchirla. Anche Pietro dovrà imparare a lasciarsi amare da Gesù e questo, aldilà delle apparenze, è forse la cosa più difficile e tutto, in noi e attorno a noi, trama perché smettiamo di crederci. Il Nemico infatti sa che se viene meno questa certezza la nostra fede si fa arida e si svuota della sua portata rivoluzionaria. Ognuno di noi oggi si senta l’amato, il prediletto perché Dio ci ha tanto amati da darci il suo Figlio. E se questa certezza inizierà a palpitare nelle nostre vene davvero tutto può cambiare!
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