domenica 25 dicembre 2011

Natale, messa del giorno

Mentre Giuseppe e Maria erano in viaggio verso Betlemme, un angelo radunò tutti gli animali per scegliere i più adatti ad aiutare la Santa Famiglia nella stalla. Per primo, naturalmente, si presentò il leone. “Solo un re è degno di servire il Re del mondo”, ruggì “io mi piazzerò all'entrata e sbranerò tutti quelli che tenteranno di avvicinarsi al Bambino!”. “Sei troppo violento” disse l’angelo. Subito dopo si avvicinò la volpe. Con aria furba e innocente, insinuò: “Io sono l’animale più adatto. Per il figlio di Dio ruberò tutte le mattine il miele migliore e il latte più profumato. Porterò a Maria e Giuseppe tutti i giorni un bel pollo!” “Sei troppo disonesta”, disse l’angelo. Tronfio e splendente arrivò il pavone. Sciorinò la sua magnifica ruota color dell’iride: “Io trasformerò quella povera stalla in una reggia più bella dei palazzo di Salomone!”. “Sei troppo vanitoso” disse l’angelo. Passarono, uno dopo l’altro, tanti animali ciascuno magnificando il suo dono. Invano. L’angelo non riusciva a trovarne uno che andasse bene. Vide però che l’asino e il bue continuavano a lavorare, con la testa bassa, nel campo di un contadino, nei pressi della grotta. L’angelo li chiamò: “E voi non avete niente da offrire?”. “Niente”, rispose l’asino e afflosciò mestamente le lunghe orecchie, “noi non abbiamo imparato niente oltre all’umiltà e alla pazienza. Tutto il resto significa solo un supplemento di bastonate!”. Ma il bue, timidamente, senza alzare gli occhi, disse: “Però potremmo di tanto in tanto cacciare le mosche con le nostre code”. L’angelo finalmente sorrise: “Voi siete quelli giusti!”.

Vorrei che oggi si sentissero tutti benvenuti in questa chiesa. Chi è da molto che non vi entra, chi lo fa abitualmente, chi per la prima volta. Non so i motivi che vi hanno portato a lasciare le vostre case, feste ancora da preparare, trame di relazioni che per l’occasione si stanno ricucendo: forse il desiderio di rendere diverso questo giorno da tutti gli altri, forse la nostalgia di quando a messa ci andavate con mamma e papà con il vestito della festa tirato fuori per l’occasione; forse siete qui alla ricerca del senso di questo giorno così particolare, forse per un po’ di pace in mezzo a tante corse affannate a cui la vita ci costringe come quando incontri una fontana zampillante dopo aver camminato a lungo sotto il sole. Prendete posto, non state scomodi, mettete da parte per un po’ l’orologio che ci perseguita abitualmente. Benvenuti con quello che portate in voi, con quel che avete nel fardello della vostra vita. Immagino gioie autentiche, speranze di larghi orizzonti e alcune molto semplici, sicuramente domande e angosce, qualcosa che vi batte nel cuore come un dolore nascosto e di cui non trovate il senso, forse la sete per l’aridità, e tutti la stanchezza per il cammino. Siamo gente semplice, come l’asino e il bue. Ma la nostra debolezza piace tanto a Dio e lo innamora e così, possiamo prendere posto qui davanti, qui vicino al mistero del Bambino di Betlemme, il Dio con noi.
Ho tre passaggi che vorrei con voi rimarcare, tre perle preziose che la Parola di oggi ci consegna e che dobbiamo mettere nella nostra sporta per renderla più carica, sono parole che vogliono strapparci alla banalità a cui questo tempo e tutto quello che ci si muove attorno sembra costringerci.

1 la visita di Dio nella nostra storia.
Luca ci dice il tempo e il luogo precisi in cui Gesù nasce. È un tempo, come il nostro, dove fa cronaca la storia dei potenti che vogliono stringere in pugno le sorti della terra e in cui la storia dei semplici fa da corollario spesso insignificante: giorni di fatica e di obbedienza a un quotidiano a tratti difficile e a tratti pieno di sorprese. Proprio in questo tempo Dio decide di piantare i paletti della sua tenda, di volerci stringere a sé in un abbraccio che è condivisione totale, comunione, vicinanza, prossimità. Creatura e Creatore si danno appuntamento nella carne di quel bambino. Sotto i nostri giorni scorre il fiume della Storia di Dio con noi, palpita un Regno in cui sono sovvertite tutte le logiche del mondo e in cui ritrova valore e conta solo l’Amore. Cambia tutto se iniziamo a considerare così il nostro tempo: ci sentiremo liberati dal peso di un nulla che sembra volerci inghiottire alla meta delle nostre tante corse. Il tempo diventa occasione di incontro con questo Dio per imparare ad amare ogni fratello, i giorni carichi di dovere, se vissuti in questo abbraccio, sono occasione di santità e dalle nostre case si sprigionerà un tale potenziale di novità da sovvertire e da rivoluzionare l’intera città.

2 il segno paradossale. Il silenzio di Dio o la presenza di Dio dove non ce lo aspetteremmo?
Questo è il segno: un bambino, piccolo, appena nato, avvolto in fasce e che sta in una mangiatoia. Vorrei, se permettete, togliere per un attimo la patina di poesia a questa scena e rileggerla in tutta la sua scarna prosaicità. Provo a mettermi nei panni di Giuseppe e più ancora nei panni di Maria. Perché a loro, in quella notte, non è apparso nessun angelo a confortarli ma si sono sentiti addosso solo il rifiuto di mille porte sbattute in faccia. Avevano il compito di dare a questo bambino un futuro, una dignità e trovano solo lo squallore di una stalla dove appoggiare la loro stanchezza e la vulnerabilità di questo cucciolo. Io credo che quella notte la loro gioia sia stata velata di malinconia e di tristezza,  e si saranno chiesti con tutta probabilità dove fosse Dio e la sua onnipotenza, dove si fosse cacciata la promessa del riscatto d’Israele, come mai tutto quel silenzio. E hanno stretto fra le mani solo la fragilità di quel piccolo. Ma questo è ormai il modo di essere di Dio. Fragile per essere accolto con un atto libero e non per imposizione, debole ed è tolto per sempre il pregiudizio di un Dio distante, giudice, nemico. Ritratto per farci spazio. Ferito per prendere fra le mani tutte le nostre ferite e trasformarle in feritoie di luce.

3 i pastori e noi come loro: più si è deboli e più si è adatti all’amore trasformante di Dio. 
E infine lo sguardo cade sui pastori, su questa gente giudicata come poco di buono, abbruttiti come le loro bestie, distanti e non poco dai precetti rituali della loro religione. Uomini che vivevano confinati e che su di sé non nutrivano più speranza alcuna. Proprio per loro quella notte il cielo si squarcia, sui loro destini segnati e sui loro orizzonti chiusi, e, come a nessun altro è dato, assistono, loro ripiegati nello squallore, al concerto più bello che l’umanità abbia ascoltato. Più si è deboli e più si è adatti all’amore trasformante di Dio. Non c’è punto così basso in cui l’uomo sia caduto che Dio non lo voglia prendere in braccio e portarlo a casa. E loro vedono il segno, lo sanno interpretare e tornano nei loro villaggi carichi di una Parola che non può essere trattenuta.

Buon Natale fratello, perché buono è il Signore che nasce anche per te. Lui che è nato circondato dai briganti e muore fra i ladri, lui che è nato nella povertà e si è fatto povero perché, libero, oltre al Padre suo non desiderava null’altro, lui che ci spiazza e ci sorprende è per te oggi il sorriso di Dio.


domenica 18 dicembre 2011

domenica della Divina maternità di Maria


Omelia nella sesta domenica di avvento

In quest’ultima domenica dell’Avvento, tutta dedicata al mistero della divina maternità di Maria e al mistero dell’Incarnazione, vorrei con voi raccogliere dal brano di Vangelo, attorno a cui ruota tutta la Liturgia della Parola, qualche spunto, come se ci trovassimo su un campo ricco di fiori, uno più bello dell’altro, tutti profumati e di una rara delicatezza.

Quel giorno nel cuore di un’adolescenza che stava ormai per trasformarsi in maturità nel progetto stabile di essere una cosa sola con l’uomo che amava, in quel giorno in cui le apparso l’angelo che dall’immensità e dall’eternità di Dio è entrato nella piccolezza della casa di Nazareth, no, Maria non ha avuto paura. Lei, del resto, era abituata a leggere la Parola, aveva dimestichezza con il carattere di un Signore che, se pur Altro e distante, non si è mai risparmiato di gettarsi a capofitto nella storia di un popolo che amava e che si era scelto da sempre; di un Signore che, per inscrivere con traccia indelebile la linea dritta della sua presenza nelle tante linee storte dell’uomo, si è scelto spesso uomini e donne insignificanti e piccoli, molto spesso ragazzi, dialogando con loro e donando loro sogni dagli occhi del mondo giudicati miraggi improponibili ma che si sono rivelati alla fine pietre angolari da cui ripartire. E lei, Maria, ormai apparteneva a questa schiera, lei come gli altri, lei più degli altri.

Dio aveva un sogno:  essere uomo, accorciare tutte le distanze che lo separavano dalla sua creatura, per rompere il sospetto di sempre, anche il nostro, antico dai giorni del Giardino dell’Eden, che lui sia in concorrenza con noi, che voglia privarci della nostra libertà, che lui sia un Dio di divieti e di censure, prima fra tutte, alla nostra felicità. Dio vuole fare solo alleanza con l’uomo, vuole dargli la mano per dargli quello che gli manca, quel compimento dei suoi bisogni più profondi e più veri e così lottare per la sua gioia.  Maria accoglie questo sogno fra i suoi sogni e lei per prima sente sulla sua pelle che Dio dona tutto e non toglie nulla. Il suo sogno di amare viene centuplicato, il suo essere madre ritrova un orizzonte nuovo, inedito ma molto più intenso. La sua voglia di essere dono per il mondo trova possibilità  perché Maria, come ogni giovane, sente che può dare al mondo ciò che altri non hanno ancora fatto e, dopo, nessuno mai farà. E il suo sì pieno di gioia è certezza di un compimento non atteso ma da sempre desiderato.

Dio non ha mai voluto smettere di entrare così nella storia dell’uomo. E se in Gesù troviamo la definitività della sua Rivelazione è anche vero che oggi continua ad entrare nella nostra vita dai contorni sfilacciati scegliendo noi e proprio noi, noi con la nostra debolezza e con la nostra pochezza, noi con i nostri sogni, e proprio a noi chiede, nella semplicità delle scelte di ogni giorno, di aggiungere un tratto in più alla storia della salvezza. Noi, come Maria, siamo chiamati a dire il nostro sì perché Dio possa continuare a dire di sì all’umanità. È sorprendente ma è proprio così: Dio non vuole fare a meno di noi per trasformare la nostra terra in un angolo di Paradiso. Come dalla casa di Nazareth, così dalle nostre case si può sprigionare un potenziale d’amore tale da rinnovare il mondo intero.

E da quel sì prende forma il Mistero dell’Incarnazione. Dio sceglie di imparare da una donna ad essere uomo.  Ora nel segreto del suo grembo che tesse la vita con ossa e carne, poi con la pazienza delle cure, con gli insegnamenti delle prime cose: i passi, il linguaggio, l’educazione dei gesti e del loro valore, della preghiera e dell’ascolto della Parola e con l’esempio di una vita spesa nell’operosità del lavoro. Gesù deve anche alla madre tutto ciò che poi è stato. Nella parola profetica che regala speranza ai poveri, nella denuncia dell’ipocrisia e del potere che, con la ricchezza, allontana l’uomo da ciò che più conta, nella cura per ogni uomo ferito, nell’insistenza a raccogliere ogni uomo, nel dono totale di sé fino a spezzarsi per i suoi possiamo forse intravvedere, in potenza, le parole che Maria sussurrava ai suoi orecchi nelle sere a casa loro e gli esempi che gli dava in ogni momento di quegli anni lontani.

Per questo non possiamo fare a meno di avere Maria anche noi per Madre per imparare ad essere uomini e donne alla maniera di Gesù.

Madre, sorella nostra, fatti accanto a ognuno di noi, donaci quelle parole e quei gesti di tenerezza che hai avuto con Gesù perché possiamo qui e ora essere un prolungamento della sua presenza, per riscattare la nostra vita dalla banalità in questo  tempo che si è fatto ormai breve.

domenica 4 dicembre 2011

4 domenica di Avvento - l'ingresso del Messia


Vado perché non reggo più la frenesia che scuote questa città.
Resto perché non saprei più obbedire a un ritmo diverso e, in quest’obbedienza, trovo a tratti la pace del cuore. Vado perché ai palazzi, alle strade, al traffico preferisco la solitudine affascinante del deserto.
Resto perché fra i palazzi, le strade, il traffico io trovo il mio deserto.
Vado perché la folla mi spaventa.
Resto perché in questa folla ancora ritrovo, ultimo fra gli ultimi, Gesù.
Vado perché non sopporto l’anonimato che rende grigia la gente di questa città.
Resto perché voglio strappare dall’anonimato qualcuno da amare.
Vado perché qui tutto mi pesa.
Resto perché,  se condividiamo i nostri pesi, tutto si fa più leggero.
Vado perché mi stanno strappando a poco a poco il futuro.
Resto perché il futuro sono io qui e ora con le mie scelte.

Volevo solo dare voce e condividere le mie sensazioni, contraddittorie certo, che emergono quando penso alla città e mi penso cittadino in un angolo di una trama complessa e gigante.
E mi sento autorizzato a farlo oggi, in questa IV domenica di avvento, perché contempliamo Gesù che entra a Gerusalemme, che decide di terminare il suo cammino fissando i paletti della sua tenda proprio nella grande città, di voler affondare le sue radici lì dove l’uomo corre, lavora, prega, si incontra, progetta il futuro. Qui Gesù porta a compimento la sua incarnazione condividendo con noi anche la morte, abitandola per poi trasformarla in vita dal di dentro.

Questo brano è tipico della tradizione ambrosiana e vuole ricordarci che Gesù, come è entrato nella città, e anche oggi, in modo nascosto continua ad abitarla nel cuore di chi crede, nelle vene nascoste della storia, così ritornerà alla fine del tempo. Nel primo atto sotto i segni della piccolezza e del nascondimento, nell’ultimo atto nella gloria di un giudizio che unirà verità e misericordia, giustizia e pace. E così anche noi, che ci sentiamo a tratti piccoli e smarriti nella corsa della nostra città, sappiamo che il nostro tempo è destinato ad approdare non al nulla ma all’incontro con il Signore. E cambia tutto pensarsi come risucchiati dal buio oppure dirigersi verso la luce, sapendo che tutto è per il nostro bene e per la nostra gioia, con in mano una mappa dettagliata tracciata con l’inchiostro della Speranza.

Vorrei  quest’oggi trovare con voi, in una sintesi approssimativa della Parola ascoltata e ispirandomi a un testo del cardinale C.M. Martini, qualche indicazione su questa mappa. Come dobbiamo abitare noi la città nell’attesa della venuta di Gesù, volendo noi essere un prolungamento vivo e agile (Madeleine Delbrel, il ballo dell’obbedienza in Noi delle Strade) della sua presenza, custodendo la sua memoria, sapendoci accompagnati da lui? Cosa è essenziale e non va smarrito. E ho pensato a queste 5 indicazioni

L’amore per la preghiera, per il deserto. Se attendiamo la salvezza da qualche riforma, da qualche progetto innovativo, da uomini forti capaci di promettere utopie, rischiamo di restare delusi. La città la salva chi osa concedersi spazi di contemplazione, chi dà alla nostalgia del cielo il suo tempo migliore, chi sta con Gesù per ascoltare la sua Parola e farsi cambiare giorno dopo giorno il cuore per poi rituffarsi a capofitto nell’ordinario con occhi nuovi, mani pronte a servire e a dare la vita per amore. E Gesù sapeva ogni mattina, molto presto, uscire dalla città per ritirarsi a pregare, a gettarsi a capofitto nel dialogo cuore a cuore con il Padre. E questo era il segreto della sua gioia discreta che contagiava e lo rendeva così luminoso.   

La bellezza dell’amicizia. La città tende a seppellire nell’anonimato. L’amicizia che nasce dalla condivisione di qualche passione comune, rende l’altro un dono prezioso per la tua vita. Sono i piccoli gruppi di amici che voltano le spalle al mondo che lo salveranno (C. Lewis, I quattro Amori). Anche Gesù esce da Gerusalemme per rifugiarsi a Betania e trovare nel cenacolo di quell’amicizia la forza per donare la sua vita.

La forza della profezia e dei segni. Il cristiano non può firmare deleghe in bianco a nessuno e sgravarsi della responsabilità di rendere più bella, più simile al Paradiso la sua città. Deve porre segni che indicano soluzioni al problema, deve essere libero di dire la sua Speranza o di denunciare la logica che calpesta la dignità dell’uomo. Bisogna porre segni profetici che inquietino la falsa pace delle coscienze e che dicano un futuro alternativo. Proprio per dire la sua voglia di essere il Messia piccolo, povero, nascosto Gesù sceglie di mostrarsi su un asino.

Il coraggio del dialogo. In una città sempre più complessa e articolata il credente oggi è l’uomo del dialogo, dell’incontro ma non per fare sintesi ma per accogliere l’altro nella sua vita, per dare spazio alle domande e per cercare sinceramente con i fratelli la Verità.

La bellezza dell’accoglienza. E infine, l’ultimo atteggiamento che vorrei richiamare, è quello dell’accoglienza, di fare spazio dentro di sé e nella propria vita e, perché no, nelle nostre case, all’altro. Nell’altro c’è sempre un dono di Dio e per me e l’occasione per incontrarlo e amarlo. Mentre fai spazio a lui in realtà fai spazio proprio al Signore. Mentre hai paura di perdere, e in realtà accogliere è sempre un po’ perdersi, ti ritrovi più ricco, inaspettatamente si schiude un orizzonte di senso che non immaginavi. Accogliere il povero, metterlo al tuo livello nella tua vita, dilata a dismisura la libertà e la gioia.

sabato 19 novembre 2011

2 domenica di Avvento - i Figli del Regno

Il tempo dell’Avvento e la sua doppia prospettiva

1 Non una patetica nostalgia del passato, ma un’immersione là dove le nostre radici affondano, nel Mistero cioè di un Dio che si fa carne, che un giorno ha violato quel confine fino ad allora invalicabile fra noi e Lui, che ha trasgredito ogni regola che impone distanza e rigida differenza e si è fatto come noi per vivere sulla sua pelle la vocazione di essere uomo, e diventare in tutto come noi e poi per prenderci per mano e per condurci in alto, per dirci che noi non siamo destinati a brancolare nella nostra pochezza ma il nostro destino è l’eternità e una vita che ha senso solo se vissuta nel segno dell’amore e che trova il coraggio di spezzarsi per l’altro. 2 ma questi giorni risvegliano in noi il desiderio dell’eterno, di andare incontro a questo Signore che, come è venuto e viene ogni giorno in mezzo a noi, tornerà e tirerà i cardini della storia con Giustizia e Misericordia: e allora sarà festa perché darà al suo Regno, la cui presenza scorre al momento nelle vene della nostra storia, al di sotto della cronaca apparentemente sfilacciata dei nostri giorni, i connotati della stabilità e dell’evidenza. Questo tempo riscatta il nostro presente e lo libera da ogni ripiegamento e dalle strettoie e ci ridona la speranza.

I figli del Regno

Nel percorso che il lezionario ambrosiano ci offre oggi sostiamo sul tema dei figli del Regno, in profonda connessione con il tema di domenica scorsa, con l’annuncio cioè del ritorno del Signore. Oggi ci viene messo fra le mani l’identikit di chi è il credente che attende la venuta del Signore; è come se aprissimo la carta d’identità dei figli di Dio che non hanno smesso di sperare nel ritorno di Gesù e ogni giorno vivono la speranza buona del Regno e che sono, appunto, figli del Regno.

La Parola che abbiamo ascoltato non ci fa rincorrere un insieme di moniti moralistici, come se ci venisse detto solo come dobbiamo comportarci. Il cristianesimo è molto di più: sempre, ai temi della morale, precede la dimensione spirituale, la certezza che Dio ci ha amato per primo, che c’è un dono di Grazia che anticipa anche la nostra decisione di accogliere il Vangelo. La prima azione per la nostra fede è una non azione, uno stare per accogliere un annuncio nuovo per la nostra esistenza. E solo dopo aver scoperto che il Signore ci ha visitato e ha fatto grandi cose in noi, che ha colmato il nostro bisogno di felicità con la sua presenza, che è perdono, misericordia, che trasforma le nostre ferite in feritoie di luce, che abita la nostra debolezza per renderla strumento della sua Potenza, noi possiamo affinare il nostro agire. Allora il primo dato sulla nostra ipotetica carta d’identità potrebbe dire pressappoco così: Figlio del Regno? Un incallito estatico! Uno che è vaso di creta ma con un tesoro prezioso che non è a sua disposizione ma che lo abita e lo trasforma di giorno in giorno.

E poi, in ordine sparso, con la pretesa di offrire niente di più che qualche suggestione, mi piace sottolineare che figli del Regno sono quelli che hanno fatto della vocazione profetica il ciglio fiero della loro vita…come Isaia, come Paolo, come il Battista. I credenti non possiedono ma sono posseduti da una Parola che non può essere taciuta, che ci rende paradossali: quando tutto sembra andare bene il profeta indica la piaga e chiede che sia guarita; quando l’inverno invece lo circonda, quando sembra si sia spenta ogni speranza, il profeta sa dare coraggio, sa indicare i germogli che già corrugano il ramo. Se siamo figli del Regno dobbiamo stare nella città ma a volte anche di fronte ad essa  con uno sguardo critico, con l’intelligenza di chi sa appunto leggere dentro alle situazioni e all’occorrenza parla o tace…perché anche certi silenzi sono molto eloquenti!

Ancora, figli del Regno sono quelli che si sentono in un costante cammino di conversione, che sanno di non essere mai arrivati, che si sentono sempre sproporzionati rispetto al Vangelo e, con estrema docilità, si lasciano correggere. Sanno che Dio sa suscitare anche dalle pietre figli di Abramo e proprio per questo mettono il loro cuore indurito come pietra, perché il tempo che scorre rischia di indurire anche i sogni più accesi, nelle mani abili di un Signore che fa sgorgare fiumi dalle rocce. E, quello che accade a loro è vero per ogni uomo: i figli del Regno guardano con estrema tenerezza le persone che li circondano, in modo particolare i piccoli e i semplici, tutti quelli che faticano a vivere in coerenza, e non sono mai arrabbiati con nessuno. Dio è all’opera nella storia proprio per raccogliere sotto le sue ali, nella tenerezza della sua mano ogni creatura.

Infine, i figli del Regno sono persone che percorrono il sentiero di umiltà che il Battista indica, la via della piccolezza, di quella presunzione ostinata che Dio non ci salva per merito ma per Grazia per cui si smette di voler contare agli occhi degli uomini, per rendere conto personalmente a lui e a chiunque chiede conto della loro speranza.          

domenica 6 novembre 2011

Cristo re dell'universo

Il contesto in cui nacque questa festa…

Era l’epoca dei totalitarismi: uomini dotati di grande carisma, di indubbia capacità demagogica e forti di quello che oggi definiamo populismo, che altro non è che la delega su tutto a uno solo da parte delle masse, stringevano fra le mani le sorti della storia. Il loro era un potere in apparenza destinato a non tramontare, sorretti dall’ideologia di questo o quel colore politico, affermato con la violenza quando occorreva. Contrapposta stava la sapienza di un Papa che proprio non sospese mai il suo giudizio e mai si tirò indietro nell’esprimere la sua critica, Pio XI,  e con lui della Chiesa. Forse sembrava azzardato, controcorrente, sicuramente imbarazzante ma, proprio perché la speranza va annunciata contro ogni speranza, era necessario dire che Cristo era l’unico vero re con tutta la sua paradossalità fatta di vita che si fa servizio, amore che si spende per tutti gli ultimi della terra fino a scegliere di nascondersi fra di loro, di gioia raccolta nella povertà, di beatitudine vissuta nella quotidianità, di denuncia fino a pagare con la morte di ogni ingiustizia che ferisce la dignità dell’uomo. A distanza di anni da quell’epoca così tragica possiamo solo riconoscere il valore profetico di un’intuizione che si è fatto insegnamento nella scuola popolare che è la Liturgia.

…e la sua attualità

Di tempo ne è passato molto, siamo in uno scorcio di storia dove, per tanti motivi culturali, è difficile pensare che possano riaffermarsi quei totalitarismi ma credo sia terribilmente attuale dire la scomoda verità di Cristo contro quei poteri definiti forti, come una certa politica o economia, oppure occulti, nascosti come la criminalità e la mafia, che ancora si oppongono come sistema all’uomo e alla sua vocazione ad essere felice, libero, appagato, aperto al futuro e perciò anche al Dio della vita. Celebrare Cristo re è occasione per salire all’opposizione e gridare che non è giusta un’economia che affama oltre i 3/4 dell’umanità; i credenti devono dire qualcosa contro chi difende allo stremo un modello capitalistico basato sul consumismo per cui essere coincide con l’apparire; che sono sacrosanti i diritti di chi pretende una vita dignitosa per un lavoro, una casa, per progettare il futuro; bisogna denunciare nel nome del Vangelo che una politica che ha perso di mira il servizio del bene comune e continua a raggomitolarsi per difendere i propri privilegi sta affondando le speranze di tanti uomini e donne di buona volontà; dobbiamo spaccare il muro di diffidenza e di indifferenza e riappropriarci del nostro dovere e diritto di educare i nostri giovani soprattutto quelli più fragili che qui, proprio nel nostro quartiere, sono vittime della droga che li fa schiavi, brucia a poco a poco i loro sogni e li rende ostaggio della malavita. È altamente pericoloso celebrare questa festa…ci chiede uno sforzo di coerenza non indifferente!

Gli spunti che ci offrono le letture

Un Dio che è Signore ma non si lascia imprigionare dagli schemi del Tempio, nella rigidità delle leggi del culto. Lui preferisce stare in mezzo alla sua gente, abitare accanto al povero come un povero e un pellegrino che sta sotto una tenda. Questo re non si lascia imbrigliare negli stereotipi o nei moduli già mille volte battuti; non si lascia adulare facilmente o tirare dalla parte di chi ha interessi da difendere. È estremamente libero. E poi vuole profumare di popolo, piangere le lacrime della sua gente, sorridere per la loro gioia, lottare sempre dalla lor parte sia quando c’è da denunciare il male sia quando c’è da sostenere come una pianticella smorta la speranza.

Un Dio che ha un regno altro di cui noi siamo fatti cittadini. Se ti sai di questo Dio, di più, se te ne innamori alla follia, non puoi che fare tue le sue scelte e la sua prospettiva.  Viene alla mente quella pagina della lettera a Diogneto in cui si dice che “i cristiani non si differenziano dal resto degli uomini né per territorio, né per lingua, né per consuetudini di vita. Infatti non abitano città particolari, né usano di un qualche strano linguaggio, né conducono uno speciale genere di vita…Abitano in città sia greche che barbare, come capita, e pur seguendo nel vestito, nel vitto e nel resto della vita le usanze del luogo, si propongono una forma di vita meravigliosa e, per ammissione di tutti, incredibile. Abitano ciascuno la loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutte le attività di buoni cittadini e accettano tutti gli oneri come ospiti di passaggio. Ogni terra straniera è patria per loro, mentre ogni patria è per essi terra straniera…Vivono nella carne, ma non secondo la carne. Trascorrono la loro vita sulla terra, ma la loro cittadinanza è quella del cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, ma, con il loro modo di vivere, sono superiori alle leggi…In una parola i cristiani sono nel mondo quello che è l'anima nel corpo.”

Un re che è verità che si contrappone a tutto ciò che è menzogna in uno scorcio in cui le tenebre stanno avendo il sopravvento, in cui la menzogna si è impadronita della storia. Cosa significa avere una verità: credo sia non smarrire la strada che Gesù ha tracciato, non svenderla, costi quel che costi, la certezza cioè che la vita ha valore solo se donata, spesa per il bene di un altro, solo se vissuta  a mani aperte senza trattenere nulla per sé!   

martedì 1 novembre 2011

solennità di tutti i Santi


“È il 14 luglio. Tutti si apprestano a danzare. Dappertutto il mondo, dopo anni dopo mesi, danza. Ondate di guerra, ondate di ballo. C'è proprio molto rumore. la gente seria è a letto. I religiosi dicono il mattutino di sant'Enrico, re. ed io, penso All'altro re. Al re David che danzava davanti all'Arca. Perché se ci sono molti santi che non amano danzare, ce ne sono molti altri che hanno avuto bisogno di danzare, tanto erano felici di vivere: Santa Teresa con le sue nacchere, San Giovanni della Croce con un Bambino Gesù tra le braccia, e san Francesco, davanti al papa. Se noi fossimo contenti di te, Signore, Non potremmo resistere a questo bisogno di danzare che irrompe nel mondo, E indovineremmo facilmente Quale danza ti piace farci danzare Facendo i passi che la tua Provvidenza ha segnato. Perché io penso che tu forse ne abbia abbastanza Della gente che, sempre, parla di servirti col piglio da condottiero, Di conoscerti con aria da professore, Di raggiungerti con regole sportive, Di amarti come si ama in un matrimonio invecchiato. Un giorno in cui avevi un po' voglia d'altro Hai inventato san Francesco, E ne hai fatto il tuo giullare. Lascia che noi inventiamo qualcosa per essere gente allegra che danza la propria vita con te.” Madeleine Delbrel
Mi sembra che questo scritto ci offra l’approccio corretto per vivere questa festa. Proviamo ad accendere uno sguardo contemplativo: noi ora siamo in comunione con i santi…liberiamo la nostra gioia!
Lasciamoci rapire dal fascino della santità: perché anch’io voglio riscattare la mia vita dalla banalità, voglio essere qui e ora un prolungamento vivo del Signore Gesù, segnare con i miei passi questa storia in questo angolo di mondo che mi è chiesto di abitare
Lasciamoci prendere per mano dalla danza e lasciamoci attrarre dalla logica del Vangelo

In questa chiave allora vorrei sottolineare qua e là qualche aspetto delle letture ascoltate chiedendoci sempre chi è il santo.

Uno che porta impresso sulla fronte un sigillo di appartenenza: il santo è uno che sta a fronte alta nelle vicende della vita; perché teme Dio è un temerario, non ha timore di nulla e di nessuno, nemmeno di mettere in gioco la sua vita se il rischio è di perdere la logica del Vangelo e della carità. È uno che appartiene al Signore e per questo appartiene al mondo, in particolare si sente per i poveri della terra in mezzo ai quali il suo Signore ha deciso di abitare e anche per loro tiene alta la fronte, forte la denuncia, contro tutto ciò e contro chiunque schiaccia la loro dignità.

Uno che conta sull’amore di Cristo sapendo che nulla potrà mai separarlo. La santità non è opera nostra ma il lavoro nascosto, a tratti lento e a tratti accelerato, della Grazia in noi. È Gesù che non vuole smarrirci, che ci ha stretto un giorno la mano e ci ha dichiarate tutto il suo amore il ché significa per lui fedeltà alla nostra storia costi quel che costi. Proviamo a pensare alla nostra vita e ci sorprenderemo di scoprire come in molti tratti del nostro cammino se lui non ci fosse stato ci saremmo perduti, non avremmo avuto la forza necessaria per affrontare tanti guadi, non avremmo avuto il coraggio di compiere determinate scelte. La santità è giocare la nostra partita scommettendo sempre su di lui: si diventa allora più semplici, più liberi, più agili.

Uno che si lascia invitare da Cristo alla danza di una vita diversa, lascia che la sua vita abbia il profumo della beatitudine.  Quando leggiamo il brano delle beatitudini dovremmo evitare il rischio di usare una chiave moralistica, evitare cioè di sentirlo come un invito a impegnarci a vivere così! Non ce la faremmo mai! Quando Gesù parla dei beati parla di sé, è come se ci mostrasse la sua carta d’identità. E poi ci dichiara il suo piano rivoluzionario, ci dice che cosa accade quando lo accogli nella tua vita, che cosa fa lo Spirito in noi quando lo lasciamo lavorare. Un esempio per tutti: Beati i poveri in spirito. Gesù è il povero, non ha nulla se non quel pane quotidiano che il Padre ci dona, il necessario per non smarrire la propria dignità: questa non è una logica di pura privazione, non è amore alla povertà in quanto tale ma la convinzione che il di più farebbe smarrire questo rapporto filiale con Dio: Dio solo basta, il resto rischia di entrare con prepotenza nel cuore  e di fare da controaltare a Dio. La povertà di spirito è una dichiarazione di dipendenza da Dio, è dire che Dio solo basta per essere felici! E lui vuole che noi scopriamo il bello, la gioia, la beatitudine appunto di essere così. Così non si diventa per forza ma per la forza dell’amore che attrae e modella e cambia i connotati più profondi della nostra vita! La mancanza di povertà in noi, nella Chiesa, è un termometro che dice la fede: ecco perché fa così scandalo vedere una Chiesa ricca, opulenta, appesantita e quasi soffocate da troppi segni esteriori.

Facci vivere la nostra vita, Non come un gioco di scacchi dove tutto è calcolato, Non come una partita dove tutto è difficile, Non come un teorema che ci rompa il capo, Ma come una festa senza fine dove il tuo incontro si rinnovella, Come un ballo, Come una danza, Fra le braccia della tua grazia, Nella musica che riempie l’universo d’amore. Signore, vieni ad invitarci.

lunedì 31 ottobre 2011

2 domenica dopo la Dedicazione del Duomo


1 un Dio che è salvezza per tutte le genti: l’altra prospettiva sulla missione

In questo ultimo scorcio dell’anno liturgico il lezionario ci sta invitando a riflettere sul mistero di Gesù che convoca la sua Chiesa e la invia missionaria nel mondo fino al giorno in cui lui ricapitolerà ogni cosa, fino a quando tirerà i cardini della storia e darà un senso a tutto, anche alle pagine oscure della nostra vita e ai tanti perché che oggi ci serrano il cuore e, a tratti, la gola. Il credente dunque sa di essere chiamato ad una sfida non da solo ma sempre con altri fratelli, puntando sempre oltre: il suo orizzonte è il mondo e il suo confine è il futuro del Regno…fa bene ogni tanto dirselo per non rischiare di restare impantanati e invischiati in una dimensione troppo ripiegata sull’attimo presente o sui confini angusti delle proprie piccole strade. Fino al giorno ultimo siamo chiamati ad uscire verso ogni uomo per annunciare con la vita e con le parole che Cristo è il senso dell’esistenza e che se rischi con lui non perdi e non ti perdi mai.

Oggi il tema che compare come sottotitolo a questa II domenica dopo la dedicazione del Duomo è la chiamata delle genti alla salvezza. È un modo altro per dire la missione della Chiesa, è una prospettiva forse più specifica per ritrovare il senso di una direzione da marcare a passi rapidi verso i confini della terra. La missione non è anzitutto opera nostra, noi non dobbiamo proprio convincere nessuno a passare, armi e bagagli, dalla nostra parte: la missione è dare nome e indirizzo alla nostalgia che l’uomo di sempre e di ogni terra porta nel cuore, la nostalgia di poter incontrare nella sua vita Dio, di poter far incrociare le sue domande di senso alla risposta che è Cristo, con la sua vita, la sua Parola e la sua Pasqua. Si spezza così l’ansia di convertire a tutti i costi vicini e lontani e il nodo della questione diventiamo noi e l’esemplarità di una testimonianza che in questo senso riusciamo ad offrire; perché alla fine il punto è se noi per primi siamo capaci di trovare in Gesù la fonte che disseta le nostre inquietudini.    

2 Una questione attuale:  le altre religioni e il cristianesimo (Conc. Vat. II Nostra Aetate).

Se così stanno le cose diventa allora urgente riprecisare quale deve essere l’atteggiamento del credente nei confronti delle altre religioni. Siamo in una stagione non facile, di crisi, e quando si ricerca la propria identità si rischia a volte di alzare un muro e di cercare un nemico, di ribadire le differenze. Per questo si rischia di rendere anche le religioni strumentali a questa contrapposizione, si innesta la paura del diverso e si smarrisce il tesoro che anche la tradizione più recente della Chiesa ci consegna a partire dal Concilio: tutti sono salvati in Cristo; in ogni religione, addirittura nella retta coscienza dell’ateo e dell’agnostico, è seminata la presenza creativa dello Spirito. Per dirla con papa Benedetto nei giorni appena passati ad Assisi: siamo tutti pellegrini verso la Speranza. È ancora il tempo di sottolineare ciò che ci unisce più che ciò che ci divide e a noi cristiani resta da vivere la gioia del Vangelo e l’espressione alta della Carità per essere testimoni della bellezza di Cristo. E io non posso non pensare di aver intravisto Cristo nell’amore sincero delle mamme musulmane di Sarajevo che accolgono nelle loro case, come mamme affidatarie, i bambini orfani della seconda generazione dopo la guerra; non posso non dire la straordinaria accoglienza verso i nostri giovani fino a farci celebrare messa in una delle loro case. Non posso tacere lo stupore di aver sentito dire, in quella terra segnata dalla contrapposizione e dalla divisione, che, vedendo i nostri giovani all’opera, loro musulmani hanno compreso che anche i cattolici sono capaci di amare e che dire il contrario è solo sterile propaganda!

3 l’immagine della rete…

Forse mi soffermerò poco sul brano di vangelo che oggi ci è proposto ma è di una lucidità tale che, annunciato in un contesto così, sa illuminare ancora più in profondità il nostro tema. Il Regno è come una rete gettata in mare. In questo Regno convivono i diversi, addirittura i buoni e i cattivi insieme. Ma a noi non è dato di fare discernimento fra gli uni e gli altri. Ci è chiesto di condividere la nostra esistenza con i nostri fratelli ed essere noi per primi impegnati a incarnare il Vangelo facendo sì discernimento fra il bene e il male, rifiutando la logica del peccato, la ricerca del potere e tutto ciò che uccide la dignità dell’uomo, cercando, in altre parole, di essere pesci buoni e denunciando ciò che è male. E un giorno ci sorprenderemo che Dio avrà tratto da quella rete molti più pesci di quello che immaginavamo, fratelli che magari abbiamo avuto la tentazione di giudicare lontani e perduti ma che sono stati sinceramente ancorati alla Carità, l’unica cartina di tornasole, l’unica controverità di ogni religione e di ogni fede. E allora sarà festa.

4 come una conclusione. ogni scriba che diviene discepolo…

All’inizio non ho compreso bene il perché di queste parole, mi sono chiesto cosa c’entrassero con il tema posto dalla liturgia di oggi. Ma poi ho pensato che, se è vero che la salvezza è data a tutti indistintamente, allora ogni praticante di qualsiasi religione, in retta coscienza, è come uno scriba che ha un tesoro prezioso da cui attingere sapienza. Ma, come è lecito pensare di restare scriba, sarebbe magnifico se tutti conoscessero Gesù e diventassero suoi discepoli. Il tesoro della vita si arricchisce quando riconosci che Cristo è la pienezza della Rivelazione di Dio.

sabato 22 ottobre 2011

1 domenica dopo la dedicazione del Duomo. giornata missionaria mondiale


È una domenica tutta dedicata alla missione, in uno scorcio di tempo, quello dopo la festa di settimana scorsa, in cui siamo invitati a riflettere sul fatto che Gesù, centro della storia dell’incontro fra Dio e l’uomo, ha radunato attorno a sé la sua Chiesa per poi mandarla, aprirle l’orizzonte della missione.

I verbi raccogliersi e partire sono il doppio respiro che si fa regola per la Chiesa di sempre. È il minimo comune multiplo da cui esplodono in tutta pienezza e creatività tutte le proposte della Chiesa. Noi siamo chiamati a stare con Gesù, a fermarci cuore a cuore con lui, lasciarci raccontare tutto il suo amore per noi; dobbiamo fare il pieno alla sua vita che si spezza ancora per noi e, allo stesso tempo però, non possiamo trattenerci troppo presso di lui per non consumare fra le mani il dono ricevuto, non ci è dato di indugiare pena il rischio che la spiritualità si faccia spiritualismo, l’appartenenza diventi chiusura a doppia mandata, l’amore per lui si fossilizzi in un’abitudine sclerotizzata: Gesù non ama chiusure di sorta, trasgredisce quella legge sociale per cui per essere gruppo, per stabilire un’adesione devi alzare muretti, trincerarti dietro a rigide appartenenze. Dobbiamo andare, dobbiamo portare fuoco alla terra, dobbiamo spingere sempre più gente a entrare alla festa…già con queste poche intuizioni quanta verifica si potrebbe fare alle nostre comunità e ai loro stili un po’ incancreniti, alle proposte che non nascono da una dimensione contemplativa e si gettano troppo facilmente sulle strade e quindi troppo a corto respiro; oppure alle chiusure in gruppetti in cui è impossibile a volte entrarci se non ci sei dentro da troppo!

La missione davvero non è come un’appendice delle attività della Chiesa…dove c’è Chiesa c’è missione, dove c’è una comunità che celebra il crocifisso risorto allora c’è apertura all’altro, ad ogni uomo in ogni luogo. Proviamo a riprendere il Vangelo, ma la stessa suggestione ricorre anche nella prima lettura, quando Gesù spiega ai suoi le Scritture: per smarcarli dalla convinzione che gli eventi della Pasqua fossero stati solo un tragico incidente di percorso, per convertirli alla logica del Messia crocifisso, indica che il cuore della Rivelazione di Dio è proprio la croce e la risurrezione e poi c’è una congiunzione una E a cui segue l’invio dei discepoli nel mondo per predicare il Vangelo. È una congiunzione  a mio avviso straordinaria, densa di prospettiva, di futuro: quando si racconta il Vangelo, quando si parte nel nome di Gesù verso orizzonti nuovi, quando si decide di piantare la propria tenda fra genti che non è la tua ma nel nome di un annuncio che non ti può fermare; oppure quando si resta nella propria città e si cerca di amare il povero, quando ci si dedica alle nuove generazioni per educarle nella gratuità della fede, quando si accetta la sfida di entrare in una comunità per lavarsi a vicenda i piedi, allora si sta scrivendo una pagina in più della storia della Salvezza. Se ce ne accorgessimo davvero proveremmo un brivido e vivremmo come stupiti, incantati, sognatori che si sanno partner di Dio per l’oggi del mondo. Vorrei prendere spunto da alcune suggestioni delle letture ascoltate oggi, lasciando poi a ognuno la possibilità di riprenderle lungo questa settimana per continuare a pregarci su e per trovare stimoli per la propria dimensione missionaria.

1 il cuore dell’annuncio missionario è la certezza che Dio ci ha amati, che noi valiamo quanto la vita stessa di Gesù che si è donato a noi, che si è spezzato sulla croce e che è stato risuscitato proprio per questo suo amore per l’uomo. E con lui ogni croce non è che l’evento penultimo di una storia molto più grande, anche le nostre tenebre sono confinate, le nostre croci, se vissute con amore, sono solo il preludio di una Gloria che già intravedi, che quando ti perdi è allora che ti ritrovi. E ancora il cuore dell’annuncio è la certezza che la nostra vita ha il respiro dell’eternità, che c’è un oltre, fatto di carità e di giustizia, a cui aggrappare le nostre speranze…tutto non si chiude nell’attimo presente.

2 la missione per gli Undici inizia a Gerusalemme per allargarsi agli estremi confini della terra. Deve partire sempre da questa fetta di terra in cui ti è dato di abitare. Lascio la parola a una grande donna del nostro tempo, si chiamava Madeleine Delbrel che, nella periferia marxista e scristianizzata di Parigi, con altre sorelle, si è immaginata un nuovo modo di evangelizzare condividendo in modo ordinario la vita ordinaria dei suoi vicini ma con in cuore il segreto dell’amore di Dio per noi. Così scrive in Missionari senza battello mettendo la sua vita in parallelo ai missionari che partono per le terre lontane: “Quest'amore che ci abita, quest'amore che risplende in noi, perché non ci modella? Signore, Signore, questa scorza che mi copre non sia almeno uno sbarramento per te. Passa, Signore. I miei occhi le mie mani, la mia bocca sono tuoi. Questa donna così triste di fronte a me: ecco le mie labbra perché tu le sorrida. Questo bambino quasi grigio, tant'è pallido: ecco i miei occhi perché tu lo guardi. Quest'uomo così stanco, così stanco: ecco tutto il mio corpo perché tu gli dia il mio posto, e la mia voce perché tu gli dica dolcissimamente: «Siediti». Questo ragazzo così fatuo, così sciocco, così duro: prendi il mio cuore per amarlo con esso, più fortemente di quanto non gli sia mai accaduto. Missioni nel deserto, missioni senza fallimento, missioni sicure, missioni dove si semina Dio in mezzo al mondo, certi che in qualche parte germinerà, perché «dove non c'è amore mettete l'amore, e raccoglierete l'amore».

3 Missionari significa essere testimoni e solo chi testimonia è credibile. Il Vangelo rifiuta il verbo insegnare se non è accompagnato realmente da gesti che lasciano il segno; non si può annunciare senza fare; raccontare dell’amore se si rimane con il cuore chiuso, meschino, ripiegato. Non importa l’eloquenza, anche qui, come per tutto del resto, contano i fatti e la coerenza.


sabato 15 ottobre 2011

Dedicazione del Duomo,Chiesa madre di tutti i fedeli ambrosiani

E puntuale, alla terza di ottobre, si affaccia questa solennità del Signore, occasione provvidenziale per pensare al nostro modo di essere Chiesa e di costruirla per quanto spetta a noi; e poi per ascoltare la Parola del Signore e convertire la nostra comunione. Nel nuovo Lezionario ambrosiano inoltre questa domenica fa da cerniera al ciclo delle letture dopo Pentecoste: da oggi in avanti il racconto della storia della salvezza, che in Gesù ha trovato il suo compimento, ci indica che l’incontro con il Dio della vita è possibile ancora oggi proprio nella storia della Chiesa, proprio nella trama apparentemente sfilacciata dei nostri giorni. E questa certezza ci riscatta e dà senso anche a questo scorcio così drammatico della nostra vita: Dio c’è, è all’opera e attende il nostro sì perché il suo Regno divampi come un incendio nel mondo, perché questa nostra terra assomigli un pizzico di più al Paradiso.

Celebrare la Dedicazione del Duomo è un po’ come festeggiare un compleanno. La nostra cattedrale, la sua architettura, la sua composizione artistica, il suo essere cantiere costantemente aperto – quasi un monito per ricordarci che l’opera della Chiesa non è mai compiuta ma è costantemente aperta a cui mettono mano l’uomo e lo spirito di Dio – sono un dono prezioso per noi di Milano. Ma la nostra attenzione è guidata per mano da tutta la Liturgia ad andare oltre l’aspetto esteriore, oltre quelle pietre, per benedire il Signore per la storia della nostra Chiesa e per concentrarci sulle dinamiche che ci rendono comunità. Chiesa non è un’idea astratta ma un qualcosa di tangibile, che occupa uno spazio e un tempo. È il ritrovarsi insieme di uomini e di donne che in libertà hanno scelto di vivere come un rischio praticabile il Vangelo di Gesù e di fare dell’amicizia con lui il senso dei loro giorni. È il ritrovarsi attorno ad una Parola annunciata e ad un Pane spezzato, è un ritrovarsi raccolti dalla guida del Vescovo, di qualcuno cioè che ci rimanda alla presenza di Gesù il Buon Pastore. Chiesa è una presenza in un quartiere, in una città, un nido in cui rifugiarci, una sorgente a cui bere, una comunione che dice un modo di vivere altro, diverso, migliore, più umanizzante.  E che la Chiesa sia essenzialmente una trama di relazioni è evidente: ognuno di noi si è costruito un giudizio su di essa proprio a partire dall’esperienza che ha avuto: in positivo quando troviamo persone che ci danno forza, coraggio, sostegno, motivo in più per credere; in negativo perché a volte, spero non troppo spesso, scottano sulla nostra pelle relazioni che si deteriorano, o in cui serpeggia l’ipocrisia, e la controtestimonianza.

Mi piace pensare alla Parola di oggi come a una cassetta di attrezzi che ci viene data per trovare gli strumenti giusti per costruire sempre la meglio la Chiesa premesso che la sua bellezza interessa a tutti noi e che la sua santità dipende proprio da noi tutti!

La lettura di Apocalisse. Giovanni contempla la nuova Gerusalemme, ci racconta di questa visione perché, da sogno abbozzato, possa trasformarsi in realtà tangibile per l’oggi nella Chiesa. Alza lo sguardo per poi abbassarlo con maggiore responsabilità nel presente. E già qui trovo un’indicazione preziosa. Non mi piace una Chiesa dal respiro corto, una Chiesa che ha lo sguardo sempre rivolto al basso, sfiancata dall’ansia di una corsa tutta giocata nel presente. Non mi piace una Chiesa che attinge acqua da cisterne screpolate, che insegue i potenti di turno, che ha logiche troppo umane, calcoli troppo politici, avvinghiata nelle strettoie economiche. Amo una Chiesa che sa guardare in alto e che per questo cammina a fronte alta, una Chiesa profetica, una Chiesa che deve obbedire solo a Dio e che per questo si mette al servizio dell’uomo per la sua dignità, una Chiesa che sta sempre all’opposizione, una Chiesa che profuma di futuro perché prende le mosse proprio dal Regno, una Chiesa dove si asciugano le lacrime dei piccoli e dei poveri, dove si annuncia un mondo alternativo, che vibra di speranza perché sa che ha fra le mani il segreto della vita senza fine che scorre nelle vene del mondo.

Paolo, in questo scorcio della sua lettera a Timoteo, suo giovane collaboratore, chiamato a presiedere come vescovo una comunità, ricorda, con l’immagine dei differenti vasi delle case, che la comunità è bella perché è un’iride di colori, che l’armonia non sta nell’uniformità ma nella composizione armoniosa di tonalità differenti. Ciò che deve unire è il fondamento della fede, il sapersi conosciuti e ri-conosciuti da Dio, e il fondamento della carità, la pace, l’amore e la giustizia rincorsi sempre. Per il resto è bello arricchirsi con le proprie diversità. Credo che questo sia il compito più difficile per noi preti e anche per chi vivrà il ministero che oggi si rinnova del consiglio al Parroco: garantire l’unità nella differenza. Sospettate sempre di chi vi offre un modello di Chiesa uniformato, omologato perché non è il modello della Chiesa che è cattolica appunto!

E infine il Vangelo di Matteo. Gesù, con un gesto che non è di ira improvvisa o di stizza impulsiva, ma meditato e voluto in tutta la sua forza e violenza, ci ricorda quell’alternativa profetica che deve essere della Chiesa. Di questo brano però mi colpisce il contrappunto che ai mercanti fanno i malati, i poveri e i piccoli. La Chiesa è chiamata a mettere loro al centro, non ai margini, non un gradino sotto perché siano trattati con un odioso assistenzialismo. Accogliendo i poveri la Chiesa deve convertirsi a loro e ricordare che nell’Amore sta l’evidenza della sua santità, alla Carità deve portare la fede, e deve diventare povera, soltanto abbandonata come un bambino alle braccia misericordiose del Padre.    

domenica 2 ottobre 2011

V domenica dopo il martirio del Battista. festa dell'oratorio a Berni e Bono

Vorrei con voi, in questo momento della celebrazione, fare due semplici passi: il primo assomiglia a un appunto scritto a matita a margine di questa giornata di festa; nel secondo, per far risuonare ancora la Parola appena ascoltata, vorrei chiedere a Gesù qualche “dritta” per il nostro oratorio che riprende da oggi, dopo lo straordinario del periodo estivo, le sue attività ordinarie. 1 Cos’è per me l’oratorio? È abbastanza difficile sintetizzarlo in poche parole: basta dire che è la mia vita? Non vorrei dilungarmi a descrivere il metodo educativo che giorno dopo giorno cerchiamo di modellare tutti assieme, genitori, preti, religiosi, catechisti ed educatori: forse basta dire che in oratorio accogliamo tutti, accompagniamo molti nel loro cammino di crescita e portiamo a Gesù qualcuno. Non è il caso nemmeno di farmi prendere dai sogni anche se vorrei con forza che il cuore delle nostre proposte fosse Gesù e il Vangelo del suo Regno, che in ogni attimo si respiri la proposta di una vita comune autentica e che il muretto che ci separa dalla strada fosse il più basso possibile perché a molti sia facile entrare fra noi e per noi sia agile uscire e farci missionari. E allora cosa posso dire, anche per augurare a tutti un buon cammino in questo anno intenso, bello, promettente che si apre? Mi propongo di creare un acronimo della parola oratorio, per ogni lettera trovare una parola corrispondente. O…occasione. L’oratorio è l’occasione per una vita diversa per i piccoli, le loro famiglie e per i grandi che si mettono al servizio. Dietro ad ogni occasione passa il Signore, si nasconde il sorriso di Dio che ci invita a fare festa con lui. R…rischio. In oratorio si assapora il rischio di una sequela a Gesù e alla sua Parola di amore. Se rischi con lui la tua vita non è davvero buttata. A…allegria. Non c’è oratorio senza allegria! È il messaggio antico dei padri che hanno dato forma a questa proposta. Via i musi, le chiacchiere che rendono malinconico e pesante il clima. L’allegria, come tutto ciò che è bello, educa al Buono. T…tutti, o almeno, Tanti! L’oratorio nasce dall’abbraccio della comunità cristiana al quartiere. Qui i cammini sono tanti quanti sono i ragazzi. E da questo intreccio si scorge l’unico sentiero che conduce al Signore. O…occhio! Ti tengo d’occhio! Che bello incontrare in oratorio adulti e giovani educatori che vibrano di passione per i ragazzi, che li tengono d’occhio per essere puntelli solidi piantati sulla parete scivolosa della vita! R…ricreazione. In fondo l’educazione è l’opera che ri-crea una persona, che estrae dal cuore di un giovane la verità del suo essere unico, meritevole di stima, pieno di dignità. I…intenso. Così deve essere ogni proposta, densa di possibilità, capace di suscitare un nuovo orizzonte. O…ora! Adesso è il futuro della Chiesa. In oratorio già si respira la profezia di una Chiesa più giovane, più agile, più povera, più aperta al mondo, più evangelica e simile al Regno. E attraverso la Parola ascoltata, Gesù, che cosa vuole dirci che augurio vuole farci. Nella prima lettura abbiamo ascoltato l’imperativo del fare memoria, il bisogno, per vivere e per progettare il futuro, di non scordarsi chi è Dio per la storia d’Israele. Dio è colui che è entrato di forza e per amore nelle vicende di questo popolo e proprio per questo chiede che gli si voglia bene, che non lo si consideri lontano, estraneo, troppo alto da non poter nemmeno essere immaginato e questo di generazione in generazione. Mi sembra una parola provvidenziale oggi, piena di senso, rivolta a tutti gli adulti, per primi i genitori, impegnati ad educare i ragazzi. Non parliamo di un Dio generico ai nostri figli, troppo umano, non raccontiamo favole su di lui, non diamogli la maschera del giudice severo o del Signore impietoso, non annoiamoli con troppe parole, le nostre. Facciamo vibrare di passione la nostra testimonianza, mettiamoci in gioco noi per primi, lasciamoci ferire da un Padre che ci ama al punto da perdonarci e prenderci per mano anche se siamo caduti tanto in basso. Se saremo noi credibili avremo spianato la strada perché i nostri ragazzi si lascino rapire dall’incontro con lui. E la nostra memoria sarà il loro futuro, il futuro della fede, della Chiesa. Paolo, con parole a tratti dure ma molto lucide, invitava i suoi Galati a non ritornare indietro per rintanarsi nella sicurezza di una religione fatta di legge e precetti. Gesù ci ha donato le ali della libertà. In fondo Gesù non ha detto cosa non fare, ci ha detto di amare come lui e in questo ha spalancato per ognuno un sentiero che è tutto da inventare. Penso che educare alla libertà nella libertà sia il compito del nostro oratorio. Le regole serviranno da trampolino di lancio ma poi bisognerà farci compagni di ogni ragazzo per accompagnarlo nella scelta di una vita, nella definizione di una vocazione, in cui dovrà esprimere il suo potenziale d’amore. E Gesù non sarà un di più di cui si può fare anche a meno ma l’amico a cui stringere la mano per capire come fare ogni giorno a donare la vita. E infine, in Matteo, Gesù ci mette fra le mani la regola d’oro. Ama Dio e ama il prossimo, due facce dell’unica cosa che conta per non buttare via la nostra vita. Per qualcuno sarà più facile partire dal volere bene a Dio e stare tanto con lui: dovrà però prima o poi capire che a Dio piace tanto essere amato nel servizio agli altri, soprattutto ai poveri. Per qualcun altro invece sarà più facile all’inizio voler bene ai poveri, spendere intelligenza e passione per loro, magari anche viaggiare per andare a trovarli per poi accorgersi di essere chiamato a voler bene soprattutto a chi condivide con lui gomito a gomito la vita. Sono convinto però che a un certo punto scoprirà, nel suo amore per il fratello, che Dio è lì, nascosto dietro il suo volto, pronto ad attenderlo. Che bello è un oratorio dove la fede conduce alla carità e la carità alla fede?

sabato 24 settembre 2011

IV dopo il martirio del Battista

“Se tu squarciassi i cieli”…è la speranza dell’uomo di sempre! Incontrare Dio, attendere che lui sciolga il nodo di mille e più domande di senso sulla vita, il mondo, la morte; un Dio che prenda per mano il nostro sogno di eternità e lo porti a compimento! Noi siamo qui non solo con questa domanda ma anche con la certezza, forte a tratti oppure avvolta nella nebbia del dubbio e della paura, che questo Dio si è lasciato incontrare, ha calpestato anche la polvere della nostra terra, ci ha voluto raccogliere, ha reso la fede non solo uno slancio del cuore ma un accadimento, un evento, una relazione…per meno di questo non c’è cristianesimo, e forse sarebbe il caso anche di disertare questa Messa perché cambieremmo i connotati delle nostre liturgie in cui sappiamo passa il Signore risorto per chiamarci e invitarci a seguirlo. In questo scorcio dell’anno liturgico in cui la nostra Chiesa riflette sul compimento della storia della Salvezza che si è data con l’incarnazione la vita e la Pasqua di Gesù, vorrei soffermarmi particolarmente sul brano di Vangelo. Siamo nel capitolo VI di Giovanni che si apre con il segno della moltiplicazione dei pani e dei pesci e prosegue con il discorso del Pane di vita, parole di rivelazione, in cui Gesù dice di sé di essere Pane, certezza di comunione, già ora e già qui vita eterna per chi lo accoglie. È un discorso a tinte forti, esigente, come trapela anche dalle righe di quest’oggi, che tuttavia si conclude nel peggiore dei modi: quei giudei, che pure avevano creduto in lui, comprendendo la portata delle sue Parole, lo abbandonano, lo lasciano solo con il gruppo dei 12, anche loro a corto di motivazioni ma, forse di più, con il coraggio di restare per comprendere e attendere. Quella gente che aveva mangiato quei pani aveva frainteso il segno. Nel cuore cercava un Dio che saziasse il loro ventre, che accettasse il compromesso di dare per essere amato, onorato, temuto e rispettato. Quella gente era piena di religione ma con pochissima fede, cioè non pronta a slanciarsi in una relazione d’amore che si basa sulla confidenza e sull’abbandono. Voleva segni, voleva mettere a posto per sempre il dramma di tirare a campare, cercava salute, pane, una vita dignitosa…a loro non serviva il Dio della relazione, ma solo il dio, che è creatura della mente umana, che dà, riempie e prosciuga anche la bellezza della ricerca…e per un dio così sarebbe stati anche disposti a svendere la loro libertà, per un profeta così avrebbero fatto pure una rivoluzione armata e lo avrebbero reso loro re. Gesù si oppone a tutto questo e avanza il suo modo di essere Dio e non di sembrarlo. Dio si avvicina all’uomo, lo interpella, suscita nel suo cuore il desiderio della relazione, vuole entrare in punta di piedi nel suo cuore, lì dove si prendono le decisioni più importanti, e dialogare con la sua creatura, tendergli la mano e indicargli la via per vivere la sua vita in pienezza. Non chiede di essere amato per ciò che dà ma per chi è! Comprendiamo allora perché questa prospettiva su Dio è difficile da accogliere perché ti mette in gioco in prima persona ed è esigente quanto la relazione con chi ami o con chi ti è amico. La relazione con Gesù ti apre uno scenario inedito di vita, esige che anche tu accolga la sua logica di condivisione – del resto Gesù moltiplica i pani dividendoli, anzi, condividendoli! – fino a dare la tua vita per il fratello, fino a perderti come un seme nella terra, fino ad allargare le tue braccia sulla croce come argine ultimo per la salvezza del mondo. E noi quale Dio stiamo cercando? Forse è una domanda a bruciapelo, che ci mette con le spalle al muro, che interpella magari le nostre abitudini consolidate e le nostre certezze di fede. Rispondere a questa domanda però è necessario perché tutto, anche qui, vada avanti. Del resto la Parola deve scuotere la coscienza e suscitare interrogativi, forse più che offrire risposte falsamente rappacificanti! Abbiamo sbagliato porta se stiamo cecando il pane e la tranquillità Abbiamo sbagliato porta se stiamo cercando un futuro senza problemi Abbiamo sbagliato porta se cerchiamo la soluzione dall’alto di qualche nostro problema Abbiamo sbagliato porta se chiediamo denaro e prosperità Abbiamo sbagliato porta se bussiamo per avere la salute, l’unica cosa che conta. Del resto il Padre sa che di queste cose abbiamo bisogno e se solo ci accorgessimo che nulla ci manca del necessario saremmo anche più felici! Questo è l’indirizzo per lasciarsi incontrare. Questa è la casa dove dialogare e stendere insieme a Dio l’itinerario del nostro destino. Qui di viene per farsi convertire lo sguardo, la mente e il cuore. Qui si viene per apprendere la grammatica del Vangelo che inizia con la lettere a del verbo amare e termina con la coniugazione in ogni respiro dello stesso verbo.

domenica 18 settembre 2011

III dopo il Martirio del Precursore


"Uomini vanno a Dio nella loro tribolazione, piangono per aiuto, chiedono felicità e pane,
salvezza dalla malattia, dalla colpa, dalla morte.
Così fan tutti, tutti, cristiani e pagani.
Uomini vanno a Dio nella sua tribolazione, lo trovano povero, oltraggiato, senza tetto né pane,
lo vedono consumato da peccati, debolezza e morte.
I cristiani stanno vicino a Dio nella sua sofferenza. Dio va a tutti gli uomini nella loro tribolazione,
sazia il corpo e l’anima del suo pane, muore in croce per cristiani e pagani
e a questi e a quelli perdona".

Forse la mia omelia potrebbe chiudersi qui, lasciando come unico commento alla Parola di oggi questa preghiera che scrisse D. Bonhoeffer. In questo scorcio dell’anno liturgico in cui viene messo al centro l’annuncio che Gesù è il compimento della storia della salvezza, oggi in particolare, ci viene detto in che modo si compie questa rivelazione, nel segno della forza che si fa debolezza per salvare ogni uomo, della potenza che si fa crocifissa per abbracciare nel perdono ogni uomo.

Eppure il messia che Israele attendeva doveva avere una tono differente. Proviamo a immaginare come poteva essere letta, ad esempio, la pagina di Isaia che anche noi oggi abbiamo ascoltato, nel contesto della Palestina ai tempi di Gesù, schiacciata dall’oppressione politica e militare dei romani. Il Messia che tutti si attendevano, anche i discepoli, era la manifestazione di un Dio guerriero, forte, intransigente, che libera e spezza, che brucia e ridà dignità all’oppresso. Ma Gesù rifiuta questa categoria, nella preghiera, immerso costantemente nel cuore del Padre, ha maturato un modo diverso di essere Figlio di Dio. Non sarà il Messia re; non sarà il Messia del giudizio ma il volto del Dio debole, prossimo all’uomo, del Dio che si ritrae per fare spazio alla libertà. Il Dio che conquista uno ad uno i suoi. È Il Messia che ad un certo punto, dopo aver gridato l’annuncio di un Regno in cui gli ultimi e i piccoli sono amati dal Padre, decide per amore di tacere e di lasciarsi crocifiggere. E proprio da questa conquista del cuore può sgorgare la rivoluzione che, per dirla con Maria, “rovescia i potenti dai troni e innalza gli umili”.

E io che Messia attendo?

Non è banale chiederci oggi qual è il volto di Dio che noi abbiamo in mente e lasciarci convertire dal Vangelo ascoltato. Forse per tanto tempo per noi Dio è stato il Dio Giudice che vede ogni cosa ed è pronto a punirci. Oppure forse per noi Dio è il Dio distante che scrive a priori il cammino di ogni uomo non risparmiandoci la sofferenza.

Forse è il Dio da piegare a nostro favore con la nostra preghiera e la nostra buona condotta.

Il Dio di cui avere paura, da cui guardarsi per non soccombere. Il Dio da tenere buono.

Questo è un Dio troppo umano, troppo a immagine di noi stessi.

Oggi ci viene annunciato che Il nostro è il  Dio crocifisso, che raccoglie l’ultimo, che è solidarietà infinita con l’uomo crocifisso, anche con i miei dubbi e le mie paure, soprattutto con le mie ferite per renderle feritoie di luce con il suo perdono e il suo amore.

Convertirsi a questo Vangelo non è facile così come non lo è stato per Pietro e per gli altri discepoli. Perché è molto più facile avere una legge e obbedire piuttosto che lasciarsi avvincere nella propria libertà da Gesù ed essere docili. È molto più facile immaginare una rivoluzione e prendere in mano le armi e sovvertire il potere dei forti piuttosto che abitare dal di dentro le situazioni difficili e amare fino a dare la vita. È molto più facile tracciare una linea e dividere il mondo in buoni e cattivi piuttosto che amare anche chi non lo merita e per lui dare la vita come unica possibilità per il suo riscatto.

Concludo soffermandomi sulla Parola di Paolo. Anche lui, ad un certo punto della sua vita, ha incontrato il crocifisso risorto ed ha dovuto ribaltare la sua idea di Dio. Ha trovato sulla sua strada un Signore che fa della debolezza la sua forza e lo ha avvinto per sempre rendendolo testimone instancabile, randagio per il mondo con un Vangelo da annunciare per la gioia di ogni uomo. E Paolo risponde in modo tutto suo alla domanda su chi è Gesù per lui. Sarebbe bello se anche noi questa settimana rispondessimo alla stessa domanda.

Gesù, ogni giorno ho bisogno di capire chi sei per me. Ti ho conosciuto come molti di noi fin da ragazzo ma ti ho scoperto un giorno Messia piccolo e povero, ferito perché così io potessi avvicinarmi a te con le mie ferite e lasciarmi guarire. E da allora ti cerco ogni giorno in ogni fratello povero, la cui vita è spezzata e ti trovo in effetti accanto a lui, pronto a fasciare le sue piaghe.

domenica 11 settembre 2011

II dopo il Martirio del Battista - spunti per una messa in memoria delle vittime di tutti gli attentati terroristici


1 il percorso liturgico. Tempo dopo Pentecoste, occasione per ripercorrere la storia della salvezza, accorgerci che la storia di Dio scorre come un fiume carsico nelle vene della nostra storia e comprendere che noi siamo chiamati, con il nostro sì a Dio ogni giorno, nelle scelte che danno forma ai nostri giorni, a scrivere ancora una pagina in più di questa storia. In queste settimane stiamo riflettendo su come Gesù, che ha calpestato la polvere delle nostre strade e si è incarnato sporcandosi le mani con la nostra storia chiamando attorno a sé la sua Chiesa, sia la pienezza della rivelazione di Dio, del suo presentarsi come Padre all’umanità

Le letture di oggi:

-          Il sogno d’Isaia si è compiuto: ha fine il tempo della miseria, del lutto, della guerra. Il profeta, che sa scorgere sui rami rinsecchiti dall’inverno i segni dei germogli, che sa annunciare speranza nel cuore della disperazione annuncia il tempo nuovo in cui Dio farà pace con il suo popolo che finalmente abiterà la terra. I cristiani vedono in Gesù e nel suo Regno in cui i piccoli e i deboli trovano un riscatto il compimento di questo miraggio antico.

-          La risurrezione dei morti, una speranza che entra con prepotenza nello scorrere dei nostri giorni. Il dono che Cristo ha fatto all’uomo è la certezza della risurrezione, il superamento dell’ostacolo più angosciante che è la morte.

-          La vita piena nell’amore, la vita di Dio. Nel vangelo è come se leggessimo la carta d’identità di Gesù. Chi è, da dove viene, quali sono i segni particolari che lo contraddistinguono…lui è dal Padre e il Padre è il segreto dei suoi giorni, della sua gioia, del suo agire profetico che ha ribaltato ogni schema rigido su Dio.

Il già e il non ancora. Quando è avvenuto tutto questo. Se è già accaduto perché il nostro tempo sembra così lontano dal sogno di Isaia? Non è ancora accaduto? I nostri occhi non vedono: la memoria di quello che è accaduto nell’11 settembre di 10 anni fa, questo senso di precarietà che si è impadronito della nostra vita, la guerra che nasce dalla voglia di sicurezza e dalla sofferenza  ma che ha generato altra sofferenza e instabilità e poi il grido dei poveri che spesso le nostre politiche e i nostri sistemi economici  affamano e che rappresentano la vera leva del terrorismo. Già e non ancora sono in un equilibrio instabile che è la nostra vita, la nostra storia.

Quale via ci indica la Parola ascoltata per abitare questo tempo così sospeso?

1 abitare questa nostra storia e la sua complessità. Come a Israele anche a noi è chiesto di saper accogliere l’alba nel cuore delle tenebre. Abitare la notte prepara il cuore alla luce del mattino, chi conosce lo sgomento del buio sa gustare il dono della luce. In questo scorcio della storia così precario, così buio non sono ammesse fughe indietro, barricate, pregiudizi, inutili addebiti di colpa che rendono nemico chi è diverso solo perché tale. Dobbiamo affinare lo sguardo profetico di chi sa scorgere l’alba e anticiparla con una conversione personale, uno stile di vita sobrio che annuncia un tempo nuovo, solidale con gli ultimi della terra che non hanno scelto di nascere in paesi dove si muore di fame e dove sono ridotte le possibilità di riscatto. E forse non saremo noi a godere della luce del mattino perché non sappiamo quanto ancora dureranno queste tenebre ma avremo lavorato per il bene dei nostri figli e per un mondo più giusto che siamo chiamati, come un imperativo, a lasciare nelle loro mani.

2 essere segno di Risurrezione, essere segno di vita a immagine di Cristo risorto, rifiutare cioè la morte e la violenza che la genera. E se questo vuol dire condannare chi semina la morte addirittura in nome di Dio, vuol dire anche spegnere tutte le micce di violenza che sono disseminate nel nostro parlare, nella nostra quotidianità, nei nostri giudizi, nelle nostre relazioni più prossime e che potrebbero, trascinate a lungo e non controllate, portare ad uno scontro di civiltà dagli esiti negativi imprevedibili. Bisogna puntare sull’amore  e sulla grammatica dei suoi segni perché solo l’amore dà vita e il segno più forte di questa logica si chiama perdono.

3 Il Mistero di Dio è la comunione che rende una cosa sola tre Perone diverse. È la comunione il segreto che Gesù ha voluto raccontarci, che portava inciso nel cuore come un marchio di fabbrica e che tentava in ogni momento di realizzare. Il lessico della comunione parte dalla A di accoglienza che rispetta la diversità ma promuove sentieri di dialogo e di integrazione. La vita in pienezza è proprio il miraggio di un mondo dove osiamo dirci fratelli.

domenica 21 agosto 2011

X dopo Pentecoste

Dove dimora Dio? Questa, in modo molto sintetico, è la domanda che emerge dalla Parola ascoltata oggi. È una domanda molto semplice ma che si pone l’uomo di sempre, da quando ha iniziato ad alzare le mani verso il cielo credendo che lì abitasse quel Qualcuno che avrebbe potuto dare un senso alla sua vita e una possibile risposta alle grandi domande, alla nostalgia di eterno e all’inquietudine che si portava nel cuore. Dove dimora Dio? Ovvero dove posso consegnare tutto il peso della mia vita e consegnarmi con fiducia. Dove posso trovare riparo, dove posso sentirmi accolto. Dove posso anch’io mettere i paletti della mia tenda per trovare pace.
Le letture, in una progressione che si fa di volta in volta più profonda, rispondono che Dio decide di abitare nel Tempio che Salomone costruisce con le sue mani. Inoltre, ancora più vero, Dio pone la sua Tenda nella comunità, nella complessità che è data dall’intreccio delle nostre storie e che si raccolgono nell’unità della Chiesa. E, infine, sembra dire il Vangelo, il Signore decide di abitare nel cuore dell’uomo che dona e si dona con amore in quel rapporto singolare che è la fede.
Proverei ora a riprendere uno ad uno questi tre passaggi lasciandomi andare a considerazioni che non hanno nessuna pretesa di organicità, ma vorrebbero essere una risonanza in ordine sparso.
Dio dimora nel Tempio. Dio, ricorda Salomone, non ha mai preteso che Davide gli costruisse una casa. Forse per la nostalgia degli anni certamente duri ma in cui ha trovato fondamento l’alleanza con il suo popolo, forse per una vocazione al nomadismo che assicura, aldilà della poesia, un’indubbia libertà, forse perché Lui ama più l’uomo e la sua carne che i muri con le sue pietre o austere o finemente decorate, Dio ha sempre preferito stare sotto una Tenda posta all’ombra della casa del re. Ma ora che Salomone costruisce il Tempio, il Signore immenso e che, si sa, ha il suo trono su una colonna di nubi e ha la terra come sgabello dei suoi piedi, accetta il compromesso di piantare lì la sua dimora. Il Tempio era una casa in cui la bellezza e la solennità del rito richiamavano qualcosa della grandezza di Dio e in esso si esprimeva il sentimento religioso del popolo e dei singoli; una casa però assolutamente provvisoria: il Tempio sarà distrutto per ben due volte e, a oggi, non è stato più ricostruito ma non si è perduta la verità della fede. Nella bellezza delle nostre chiese e nella semplicità austera del rito, che non può mai essere sciatto e lasciato all’improvvisazione, noi leggiamo le orme del passaggio del Signore. Ma, come diceva don Tonino Bello, Dio non sempre si fa sedurre dal profumo dell'incenso, più di quanto non si accorga del tanfo che sale dai sotterranei della storia ,perché il Signore ha un interesse smisurato per la sua creatura e ciò che conta realmente ai suoi occhi è la dignità dell’uomo. I cristiani possono celebrare anche liturgie sorprendentemente belle e commoventi, possono comporre anche i canti più dolci e le melodie più toccanti ma se, usciti dalle loro chiese, non trasformano in carità la loro fede, rimangono distanti da Dio, se non lottano per sovvertire l’ordine della storia per rendere più simile la terra al Regno dei cieli, hanno recluso nella formalità e messo il chiavistello alla forza rivoluzionaria racchiusa nella Parola che ascoltano ogni domenica.
Dio, ci ricorda Paolo, ha deciso di abitare nella comunità, di ritagliarsi il suo spazio nel cuore della Chiesa. È per questo che noi ogni domenica nella Professione di fede diciamo con certezza che la Chiesa è santa e non per i meriti di qualcuno, nemmeno di chi ha il compito di guidare le singole comunità o di essere successore di Pietro che pure chiamiamo santità! Nella trama delle nostre relazioni, al crocevia del nostro radunarci, quando diciamo di riconoscerci in quel Vangelo che profuma di profezia, quando diventiamo una cosa sola perché facciamo comunione con il Corpo di Cristo Dio sta fra noi come il focolaio nella stanza più interna della casa, come il segreto a cui possiamo sempre attingere. Tuffarsi nel Mistero della fede per poi risalire e rendere più autentiche le nostre relazioni, a tratti nella dialettica anche dura, ma sempre nella logica del perdono, rende evidente al mondo che Dio abita con noi. Chi crede inutile perdita di tempo la cura del clima comunitario, chi uccide la carità, magari anche a nome della carità stessa, per vivere un protagonismo solo all’inizio appagante ma alla lunga sterile, chi si rifiuta di lavare i piedi al suo vicino di posto nella comunità, crea un’ombra che nasconde la presenza di Dio nella Chiesa e per questo la rende meno santa e meno bella.
Infine il Vangelo, ambientato proprio nel Tempio, ci fa comprendere che ciò che conta agli occhi di Gesù è il cuore dell’uomo. La povera vedova ha dato più di tutti perché, dietro a quei pochi spiccioli, sta un cuore generoso che dà tutto senza trattenere. Rende bella la casa di Dio chi si dona con generosità (generoso deriva da generare, è generoso chi sa generare con tutto se stesso qualcosa di nuovo, uno stile nuovo, un mondo nuovo fatto di amore). Proprio in un cuore così Dio prende dimora. Quando trovi un cristiano che non trattiene ma si dona perché ha imparato da Cristo la logica del seme che deve morire per dare frutto, quando trovi un credente che vive sempre a braccia spalancate perché considera fratello ogni uomo e ci ricorda proprio il crocifisso che ha taciuto e non ha trattenuto nulla e nessuno, quando leggi negli occhi di un uomo la gioia di chi sa dare e non vuole più ricevere, allora in lui sai che palpita la presenza di Dio. Qualche fratello così in questa comunità i l’ho trovato e non voglio lasciarlo più!