sabato 24 ottobre 2009

I domenica dopo la Dedicazione del Duomo

Domenica scorsa, durante la festa della Dedicazione del Duomo, abbiamo pensato alla Chiesa come casa dell’uomo abitata dal Mistero di Dio, radicata in uno spazio e in un tempo preciso, profumata di popolo e per questo attrice, certo non unica, della storia della salvezza. La Chiesa è formata da pietre vive, ognuno con la sua vocazione, ognuno con la sua storia, e come comunità si deve pensare costantemente in missione, chiamata a stare sulle strade dell’uomo, lasciarsi rapire e portare dalla Parola di Cristo fino agli estremi confini della terra, fino alla fine dei giorni, per raccontare al mondo, con parole e segni, l’Amore del Padre. La Chiesa o è missionaria o non è. La missione fa parte della sua essenza, non è un’appendice giustapposta o il compito di pochi, non è l’attenzione di uno sparuto gruppo missionario parrocchiale ma la tensione di ogni credente. Non si può pensare a curare il piccolo gregge senza occuparsi di scendere sulle strade, non c’è identità cristiana senza apertura. Se vogliamo una comunità secondo il Vangelo non si può prescindere dalla missione. Fuori da questa chiesa ci sono persone che attendono il senso con domande a volte drammatiche sulla vita, domande che la frenesia e il frastuono non riesce del tutto a nascondere o a soffocare. E poi più in là ci sono poveri che abitano le nostre case, i nostri quartieri e la Chiesa deve attivare progetti di riscatto che altri non possono dare perché la vera promozione dell’uomo è l’annuncio di Cristo e ancora la comunità non può non metterli al centro perché Cristo parte dai poveri per una rivoluzione che cambierà i tratti di questo mondo nel Regno di Dio. E oltre ancora ci sono terre che attendono il Vangelo, una primavera che aiuterà anche le nostre città a reperire l’essenziale.
Oggi abbiamo ascoltato dell’incontro fra Filippo e l’eunuco. Mi impressionano questo sintonia fra lo Spirito e Filippo e la sua corsa per raggiungere la carrozza anche più del dialogo che intercorre fra i due. La prima missione accade sulle strade del nostro mondo aprendoci ai segni dei tempi. Assecondare lo Spirito significa avere una dimensione contemplativa nella propria vita, vuol dire stare con Cristo e ascoltare la sua Parola certo nei tempi che la vita di tutti i giorni ci concede. Non c’è missione se prima non c’è comunione con Gesù. Ma poi si deve correre dove c’è qualcuno che si pone grandi domande ed essere al suo fianco al momento giusto per raccontare come Cristo sia la risposta alla sete di felicità del nostro cuore. E questo accade sul pianerottolo di casa, sulla strada, sul posto di lavoro, sull’autobus o in casa con il proprio compagno e i propri figli, sul muretto che sta appena fuori di questa chiesa o nel cortile dell’oratorio con i nostri giovani. Più che le parole bastano a volte solo la presenza discreta e silenziosa accompagnata da una coerenza affascinante. Ci viene detto oggi che non tutto si può esaurire nel cenacolo, in quella stanza al piano superiore dove i discepoli si ritrovavano. Ritirarsi là certo è importante perché permette di stare cuore a cuore con Cristo, di salire, di cambiare prospettiva sul mondo assumendo lo sguardo stesso di Dio. Ma poi da lì bisogna uscire con la voglia di fare come Cristo nella storia di oggi. In altra parole, la parrocchia deve offrire spazi di contemplazione, attimi in cui si respira la forza della vita comune nella festa e nell’accogliersi come fratelli senza guardare all’apparire, fasciando uno le ferite dell’altro, ma poi il gioco si conduce fuori. Non possiamo essere imprigionati nello spazio angusto del recinto della parrocchia, non si può pensare che l’essere credenti si esaurisca nel confine delle iniziative comunitarie. Dobbiamo spiccare il volo dalla comunità verso il mondo e poi da lì ritornare in comunità magari accompagnati da qualche fratello in più che si è lasciato affascinare dalla nostra gioia e ci chiede qual è la sorgente della nostra vita.
E poi la lettura del Vangelo in questo scorcio conclusivo di Marco. Gesù sale al cielo, lascia posto alla comunità di portare a compimento la storia della salvezza e lui continua a camminare con loro confermando la Parola con i segni. I segni raccontati nel vangelo sono accaduti e forse accadono ancora oggi nella Chiesa. Mi lascio suggestionare e provo a trovarne un significato simbolico.
1 scacciare i demoni. Chi si è lasciato attrarre da Cristo, è divenuto suo discepolo e apostolo è presenza di bene nel mondo. Dove c’è lui non ci può essere compromesso con il male, anche se non è eclatante. Il credente si immerge nei meccanismi della storia e della società, li conosce ma sa che non è del mondo. Questo comporta lucidità, valore etico altissimo, e anche una dose di sofferenza personale che è come un prezzo da pagare. Il Male infatti si accanisce e distrugge, tende a possedere e ad annidarsi nelle pieghe oscure dei cuori. A volte non è facile riconoscerlo e stanarlo e quando questo accade ti si avventa contro. Serve dunque una capacità di preghiera e di purezza di cuore che solo Dio può darti.
Parlare lingue nuove. È la capacità di andare a tutti e parlare la lingua di tutti, cercare di comunicare per creare una relazione promettente, buona, sincera. Non c’è nessuno, di nessuna parte del mondo, di nessuna condizione sociale e culturale che non possa accoglier e il vangelo di Cristo. Il credente è uomo di relazione e non sfugge al confronto.
Prendere in mano i serpenti e bere i veleni senza morire. Mi viene in mente la capacità dell’uomo di fede di prendere in mano i problemi dal verso giusto e di non lasciarsi avvelenare da questi. Il credente è occupato delle cose del mondo, degli altri, di cambiare la società facendosi lievito e sale al suo interno. Non è pre-occupato, non mete prima davanti se stesso lasciandosi poi deprimere e schiacciare. C’è una bella differenza fra occuparsi e preoccuparsi!
Imporre le mani ai malati e guarirli. Penso che sia la scelta di campo che l’uomo di fede deve fare per essere fedele a Gesù. Anche lui partiva infatti dai poveri, gli esclusi, gli ultimi, quelli che la vita aveva drammaticamente segnato. È la scelta i stare con la feccia della storia, della società convinti che però da qui può sgorgare un mondo nuovo. Lo stile di Carità, questo, penso, in sintesi sia l’ultimo invito, non è semplice assistenzialismo, lasciare cadere nella mano del povero qualche cosa di superfluo della nostra vita, ma è farsi loro compagni e guarirli, trovare spinte di riscatto, di sviluppo e di promozione umana.
Paolo, nell’Epistola, afferma che Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della Verità. Che brivido ci prende nel pensare che Dio ha deciso di fare tutto questo non senza di noi, proprio noi, deboli creature nelle sue mani forti. E questo brivido se diventa stupore e progetto sarà una vera e propria rivoluzione che parte dal basso, dalle vene di questa nostra storia.

martedì 20 ottobre 2009

Solennità della Dedicazione del Duomo di Milano

Nel nuovo Lezionario ambrosiano questa solennità si fa cerniera attorno a cui il tema delle letture, nel contesto della storia della salvezza, da Gesù, come centro e culmine, ruota sul mistero della Chiesa e sul suo mandato missionario di annunciare il Regno di Dio fino agli estremi confini della terra, fino al giorno del ritorno del Messia. La storia della salvezza ha trovato il suo centro in Gesù e prosegue nella Chiesa: anche noi dunque, quando viviamo la Liturgia, la Carità e la Missione, siamo protagonisti nel sogno di Dio di amare l’uomo e di creare con lui un’alleanza che profuma di eternità.
Il Signore ci chiede oggi di soffermarci sul mistero della sua Chiesa a partire non da un’idea astratta ma dalla sua concretezza di comunità radicata nel tempo e nello spazio. Oggi si ricorda la Dedicazione della nostra Cattedrale, di questa Chiesa attorno a cui nasce e continua a palpitare la comunità dei fedeli ambrosiani. La prima cosa che mi viene da dire è un grazie al Signore perché se oggi noi possiamo credere, se oggi è possibile dirci cristiani, seguire e amare Gesù e fare di lui il segreto della nostra vita, è perché concretamente uomini e donne prima di noi non hanno interrotto la corsa del Vangelo, non si sono chiusi nel loro orizzonte esiguo, non si sono risparmiati fatiche e anche dolori e hanno reso credibile e affascinante la fede. E anche noi dobbiamo raccogliere questo testimone e non risparmiarci in nulla perché la fede continui a correre, trasformare e rendere più belle le strade di questa nostra città. E se dopo di noi qualcun altro crederà è perché non ci siamo risparmiati questa passione per il Vangelo di Cristo.
Però mi spinge ad essere provocatorio il nome rinnovato di questa solennità, Dedicazione del Duomo di Milano Chiesa Madre di tutti i fedeli ambrosiani. Chiesa, madre o matrigna? A volte ci viene da pensare che oggi si creda nonostante la Chiesa e non grazie alla Chiesa. Ci sono delle cose che non comprendiamo della Chiesa, ci sono vere e proprie derive che a volte ci scandalizzano, ci sono dei no o delle arretratezze che ci fanno a volte vergognare. E più ci entri nella Chiesa e più si fa forte la tentazione di lasciare l’argine e di dare una sterzata tutta personale alla nostra fede. È la tentazione che hanno vissuto anche molti santi o uomini di grande fede. Ma alla fine hanno compreso che le cose si cambiano dal di dentro e non dall’esterno, che il Signore ci chiede qui e ora di rendere più bello il volto della sua sposa casta et meretrix, che senza Chiesa noi non avremmo il Vangelo, l’Eucarestia e la Riconciliazione. A mio avviso si devono prendere sul serio le provocazioni sulla Chiesa del mondo che ci circonda perché spesso, in esse, si nasconde una domanda vera e un’esigenza di santità. Si deve, anzi è doveroso talvolta denunciare le derive della Chiesa, la sua costante tentazione di allontanarsi dal suo Maestro che aveva scelto la via del silenzio, della piccolezza e della croce. Ma alla fine io come pietra viva della mia Chiesa in cosa non devo tirarmi indietro perché le cose siano diverse? Nella mia comunità quale è il mio posto che un altro non può occupare?
E prendiamo ora in mano le letture di oggi, proviamo a sottolineare qualche aspetto, a mettere in evidenza i nodi cruciali attorno a cui possiamo delineare un vero e proprio progetto di Chiesa così come sta nei sogni di Dio.
Si parla, nella Lettura, di un popolo giusto per cui è stata preparata una dimora fondata sulla Giustizia. Nella Parola la Giustizia non è intesa solo come rettitudine morale o atteggiamento che sta nei canoni del diritto. Essere giusti significa essere amici di Dio, lentamente lasciarsi trasformare da lui ed avere il cuore simile al suo, che è pieno di misericordia verso tutti e in particolare verso i poveri. Costruire la chiesa sulla Giustizia è un compito che riguarda anzitutto Dio che ci vuole giusti, sua immagine. Ma è anche un compito nostro e dobbiamo immergerci sempre nel cuore di Cristo per diventare simili a lui, per palpitare dei suoi stessi sentimenti. Non posiamo accontentarci di una religiosità di facciata. La nostra fede deve modellare in profondità il nostro cuore, il nostro essere, deve incarnarsi anche nelle fibre più nascoste del cuore e farsi atteggiamento di misericordia e di passione per l’uomo di sempre. Solo una Chiesa così sarà credibile.
Nell’epistola oggi Paolo ci chiede di costruire su Cristo il nostro fondamento, la nostra comunità, la nostra vita. Vorrei leggere in questo passo la preoccupazione educativa della Chiesa di sempre e che oggi si fa vera e propria emergenza. Abbiamo bisogno di uomini e di donne, appassionati di Cristo, che spendono la loro vita in mezzo ai giovani, che camminino al loro fianco e non sulle loro teste, che vogliano marcire nella loro storia ma per indicare che la vita ha senso solo se si poggia sull’amore di Dio per noi e solo se si allarga nell’orizzonte di un amore verso i fratelli che rende davvero felici. Quale futuro stiamo preparando alla nostra Chiesa se non costruiamo una relazione autentica di fede con i nostri giovani?
E infine il Vangelo ci racconta di un popolo nuovo che si raccoglie attorno a Cristo e che segue la sua voce perché si sa amato. C’è una verità per la Chiesa che non andrebbe mai dimenticata: è l’amore di Gesù per noi. E proprio questo amore ci fa sentire a casa nonostante i nostri limiti e le nostre fughe. Abbiamo bisogno di una Chiesa che segua con fedeltà le orme del Maestro, forse meno avvinghiata ai segni del potere ma certamente, con il potere dei segni, ancora capace di affascinare al Vangelo.

sabato 10 ottobre 2009

VII domenica dopo il martirio del Battista

1 Gesù è davvero il senso della Storia e delle nostre storie. L’itinerario di queste domeniche ci ha condotto per mano a scoprire il volto e le parole del Maestro di Nazareth e ci chiede di scegliere lui come il perché della nostra vita.
E se settimana scorsa il Vangelo ci ha parlato di un Regno a cui Dio vuole che anche noi prestiamo mano, in cui ogni uomo ha il diritto di entrare e piantare i paletti della sua tenda, oggi stiamo scoprendo i suoi lineamenti, il suo segreto, la sua misteriosa verità. Siamo nel cuore del Vangelo di Matteo, il centro di tutta la sua opera che è dedicato al Discorso in parabole del Regno. A qui arriva tutto l’annuncio del Vangelo fatto sulle strade di Galilea e da qui si dipana il cammino che porterà Gesù a dare la vita; in altre parole, se vuoi scoprire chi è il Maestro che ha affascinato le folle con le sue parole e i suoi gesti devi entrare nella profondità del mistero del Regno e se vuoi scoprire qual è il segreto che ha spinto Gesù ad affrontare la croce nella certezza della Risurrezione è per amore di questo Regno che fiorisce proprio mentre il seme muore.
2 Il Regno dei cieli è come…queste tre Parabole! Il Regno non è solamente il Paradiso: è il costante agire di Dio in mezzo a noi; già ora, già qui, se ti lasci aprire gli occhi da questa Parola, lo puoi vedere.
Le Parabole non andrebbero mai spiegate, non si può farne una versione in prosa, non si possono aggiungere didascalie che le renderebbero noiose e inefficaci. La Parabola era il modo che Gesù si era scelto per parlare di cose complesse ma usando il linguaggio dei semplici, attingendo alla vita quotidiana similitudini che aprissero l’intelligenza per accogliere il segreto dell’agire di Dio. Ma la Parabola è anche provocazione, come quella ascoltata settimana scorsa, che serviva per demolire assuefazioni o sclerotizzazioni per suscitare curiosità e la voglia di comprendere meglio il messaggio del Maestro. Si coglierà il senso profondo di questa Parola solo seguendo Gesù e amandolo.
Cosa ci dicono i racconti di oggi.
1 il regno è come questo campo su cui qualcuno, accanto al buon seme, ha gettato anche della zizzania. Le piante crescono e solo alla fine, al momento della mietitura, si può discernere quella buona dalla cattiva. E solo allora la zizzania sarà bruciata. Scegliere il Regno non significa estraniarsi dal mondo, tirarsi fuori dalla battaglia del male contro il bene, non sporcarsi le mani con la storia e le sue contraddizioni. Qui siamo chiamati a stare e a portare il nostro frutto buono, e beato chi avrà il coraggio di perseverare! Allo stesso tempo siamo chiamati alla pazienza, alla lungimiranza, a mettere nelle mani di Dio solo il discernimento sugli altri. Non ci è permesso di sradicare nessuno. Solo alla fine Dio renderà giustizia. Come Chiesa, che non è il Regno ma ne fa parte, come comunità ogni tanto sentiamo anche noi la tentazione di alzare i muretti, ad arroccarci su presunti privilegi, di ritenerci parte santa, giusti incalliti poco attenti però ad aprire le braccia a chi bussa alla nostra porta, a chi, avendo sbagliato, ha però voglia di rialzarsi e camminare con noi. La Chiesa oggi deve essere certamente segno della Giustizia di Dio ma che non è mai senza Misericordia, anzi è proprio l’annuncio dell’amore e del perdono a dare anche i contorni chiari alla Giustizia.
2 Il regno è come il granello di senape, piccolissimo ma che, una volta cresciuto, dà una pianta straordinariamente alta; è come il lievito sprofondato nella pasta che però la fa fermentare. Il regno è dinamica, è movimento. È forza nascosta che ad un tratto esplode. Il Regno a volte lo trovi accanto a te piccolo come un semino o come un frustolo di lievito e ad un tratto ti sorprende per la sua maestosità. A volte ci si scoraggia nel pensare che noi siamo chiamati, come Chiesa, solo a porre piccoli segni del Regno. Ma altrove quei segni sono diventati un’evidenza inconfutabile. E non per merito nostro ma perché Dio non si stanca di agire in mezzo a noi, lavora nel segreto, ci tiene al mondo e non vuole che neanche uno dei suoi figli vada perduto. Qui si fa eco la lettura di Isaia che promette a Israele cose nuove, fiumi nella steppa e nel deserto. Assumere questa prospettiva significa disfarsi della nostra lamentazione, della mormorazione, della disperazione. Questi non sono tempi difficili perché Dio è con noi. Questi non sono tempi bui perché c’è la luce del sorriso del Padre che accompagna i nostri giorni. Questo non è il tempo per tenersi ostinatamente ancorati alla riva ma il momento di solcare e prendere il largo, sempre più in là senza il timore di perdere perché Dio lavora dalla nostra parte e quando meno te lo aspetti ti consola con l’evidenza del suo Regno.
Che bello concludere allora sottoscrivendo quanto dice Paolo nell’Epistola di oggi. Noi siamo chiamati, ognuno per la sua parte, a condividere l’opera di Dio nella Chiesa e nel mondo; ognuno con la sua strada edifica il Regno, ognuno con le sue forze cerca di dare forma al sogno di amore del Padre. E non si può uscire di qui che con il sorriso, l’annuncio del Regno di oggi ci regala un senso inedito e promettente da vivere insieme.

sabato 3 ottobre 2009

VI domenica dopo il martirio del Battista

Di fronte alla Parola appena proclamata, invito tutti a gettare via la maschera del buonismo e a lasciare emergere il proprio disappunto, le nostre obiezioni. Questo padrone si meriterebbe una bella denuncia da parte dei sindacati! È vero, non è venuto meno al salario pattuito con gli operai della prima ora, certo però che non è stato rispettoso e forse nemmeno giusto: non ha badato alla fatica dei primi premiando anche gli ultimi con la stessa paga. Quella della provocazione doveva essere uno stile consueto nella predicazione di Gesù…conosciamo anche un figlio maggiore che aveva da obiettare al padre le stesse identiche cose di questi operai di fronte all’accoglienza e alla festa riservate al figlio minore fuggito di casa per sperperare tutti i suoi averi. Che senso ha avuto lavorare nella vigna di Dio dal primo momento? Comprendiamo e fino ad un certo punto condividiamo la preoccupazione che nessuno rimanga escluso e senza lavoro, ma insomma, un merito nell’aver lavorato sodo e fin dall’inizio dovranno pure averlo? Così facendo in un certo senso vengono vanificati la fatica, l’impegno, il loro ruolo e la loro identità.
La Parola così provocante di oggi ci deve aiutare a fissare meglio il volto del Padre di Gesù. Dio ha un criterio di Giustizia completamente differente dal nostro. La sua preoccupazione è che nessuno dei suoi figli rimanga escluso: è davvero struggente l’immagine di questo padrone che continua a uscire sulle strade e sulle piazze a cercare operai per la sua vigna; ma non solo: è abituato a dare in gratuità, indipendentemente dalle opere. Esserci è per lui più importante del fare. Conta abbandonarsi al suo abbraccio, approdare anche dopo un cammino tortuoso al porto del suo amore, lasciarsi raggiungere dalla sua Grazia e abbattere il muro di ogni orgogliosa autosufficienza. Accogliere un Vangelo così significa anche ricomprendere la nostra identità. Questa testarda inclinazione ad accogliere e a donare il primo posto anche agli ultimi non toglie nulla a nessuno, anche perché non è così semplice capire chi sia arrivato prima o dopo. Siamo figli teneramente amati perché ricercati, attesi, voluti, desiderati. Non sarà il sentiero su cui ci siamo smarriti a impedire a Dio di venire a cercarci e a portarci a casa sulle sue spalle. Le opere buone non sono principio della nostra salvezza ma esito, conseguenza. Perché salvati impariamo a fare bene,a fare il bene proprio a immagine del Padre.
Oggi la nostra parrocchia è in festa per il suo oratorio che riprende le sue attività ordinarie dopo lo straordinario periodo estivo. E facciamo bene a fare tutti festa perché, nonostante tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni, l’oratorio è ancora il segno della nostra preoccupazione educativa per i ragazzi del nostro quartiere. Un segno perché non si esauriscono in esso tutte le possibilità educative; un segno perché interpella e dice che, aldilà dei muri che gli adulti spesso alzano per paura nei confronti dei più giovani, educare è ancora possibile; un segno perché ci dice che ogni possibilità di una vita felice, compiuta, realizzata non può prescindere dall’annuncio del Dio di Gesù. così ne parla il cardinale Arcivescovo nel messaggio per la festa di riapertura degli oratori L’oratorio, attraverso l’insieme delle sue proposte e attività, è davvero una casa delle vocazioni, perché è il luogo nel quale ciascuno viene educato a fare della sua vita un dono per gli altri, secondo il progetto d’amore di Dio. Tutto questo avviene anzitutto con lo stile semplice e concreto della testimonianza di quanti – genitori, educatori, catechisti, animatori, allenatori li ringrazio con tutto il cuore e ringrazio Dio per averli incontrati nella mia vita – mettono a disposizione con intelligenza e generosità il loro tempo e i loro carismi per aiutare i ragazzi, gli adolescenti e i giovani a riconoscere la presenza dell’amore di Dio nella loro vita e insieme per accompagnarli nella scoperta dei doni – sempre numerosi e grandi – che il Signore fa a ciascuno di noi per il bene di tutti.
Vorrei che la Parola di oggi consegnasse agli educatori e a tutta la nostra comunità qualche suggerimento per fare del nostro oratorio sempre più un segno della presenza del Regno di Dio
L’oratorio deve avere sempre più il muretto basso e il cuore ardente per accogliere tutti, perché tutti i ragazzi si sentano voluti bene e considerino come promettente il cammino di santità e l’amicizia con Gesù, perché tutti loro hanno il diritto di esserci a prescindere.
L’oratorio deve essere casa dove si fa festa per ogni fratello che bussa alle sue porte: non c’è spazio per la mormorazione. L’apertura incondizionata non è sinonimo di identità debole, ma coraggiosa testimonianza dell’amore del Padre.
Vorrei che in ogni sorriso, in ogni gesto premuroso dei catechisti e degli educatori, degli allenatori e degli animatori ci fosse un riflesso dell’amore del Padre perché il vangelo si trasmette più con i gesti che con le parole. Ma di questo amore dobbiamo essere solo un riflesso, in questo amore dobbiamo noi per primi specchiarci.
Chissà se per qualche Agostino del nostro quartiere noi riusciremo ad essere risposta alla sua preghiera
Signore, io non sono capace di pregare:
mai nessuno me lo ha insegnato!
Anche adesso non so cosa dirti: ma tu esisti?
Se esisti, perché non ti fai veder da me?
Forse pretendo troppo!
Le vette, il mare, i fiori
tutto il creato parla di te
ma io non sono capace di scoprirti.
Dicono anche che l’amore
sia una prova della tua esistenza:
forse è per quello
che io non ti ho incontrato:
non sono mai stato amato
in modo da sentire la tua presenza.
Signore, fammi incontrare un amore
che mi porti a te, un amore sincero, disinteressato
fedele e generoso
che sia un poco l’immagine tua.
(preghiera di Agostino, un ragazzo del centro salesiano di Arese, ritrovata nei suoi diari dopo la sua morte a 16 anni)