domenica 20 giugno 2010

spunti per l'omelia nella quarta domenica dopo Pentecoste

Una ripetizione che fa bene…la provvidenziale opportunità di ascoltare i passaggi della storia della salvezza per allenare i nostri sguardi e cogliere che nelle vene della nostra storia scorre la storia di Dio, che lui c’è, cammina con noi, lotta dalla nostra parte per la nostra gioia, tira i cardini delle nostre vite e ci fa passare anche attraverso valli oscure, verso pascoli erbosi.
La storia della salvezza, dialettica fra l’infedeltà dell’uomo e la fedeltà di Dio

La pagina di Caino e Abele letta in controluce con la parola del discorso della montagna in cui Gesù, con un’autorevolezza singolare, aggiunge alla Legge quel di più che è la rivelazione del cuore del Padre. Al discepolo non basta semplicemente obbedire alla Legge e non oltrepassarne i paletti: deve amare e così superare la Legge. Non basta non uccidere perché anche la parola può ferire, e così il rancore, l’astio. Il discepolo è chiamato alla mitezza e alla pace, e il rapporto con Dio non è mai a prescindere dal rapporto con gli altri.

Mi soffermo però oggi su alcuni spunti che ci consegna la prima lettura
1 il male è accovacciato alla porta del cuore di ognuno. A noi dominarlo. Nessuno può considerarsi al riparo per sempre dal male, nessuno può considerare finita questa costante lotta contro le tenebre che si agitano in noi e che vorrebbero prendere il sopravvento sulle nostre decisioni. La nostra cultura considera casi da ospedale psichiatrico persone che soccombono a questa lotta, giudizio per proiettare lontano da noi la certezza che anche noi potremmo arrivare a certi estremi se smettessimo di vigilare. Forse sono solo persone che hanno disimparato la grammatica dell’emozione e che confondono il confine fra il bene e il male. La nostra cultura getta in prigione chi ha sbagliato e li confina ai margini della società come ci si disfa di un rifiuto forse per esorcizzare il pensiero che anche no potremmo cadere negli stessi identici reati se un filo di buona fortuna, a volte malgrado noi, non ci tenesse legati alla legalità.
La grammatica del bene va continuamente imparata alla scuola della preghiera e nella pratica della relazione con gli altri.
2 “i sangui di tuo fratello gridano a me dal suolo” non ho detto male, è la traduzione letteraria di questa pagina. Quel giorno non solo è morto Abele ma con lui i figli che avrebbe potuto generare e da loro la sua discendenza. Uccidere un solo uomo è far morire il mondo intero. Salvarne uno è salvare il mondo intero. Dio non è sordo al grido del giusto che soffre e ne chiede conto a chi ha una diretta responsabilità. Ma ci sono anche responsabilità indirette, remote che alla lunga schiacciano proprio i piccoli e i più poveri. Mi mette un brivido pensare che Dio metterà anche noi con le spalle al muro riguardo al dolore innocente o non solo ci dirà cosa hai fatto? ma anche che cosa non hai fatto? Riguardo a quel piccolo povero, uno solo prezioso come il mondo intero, polvere di stelle chiusa nel palpito di un’esistenza apparentemente banale, noi oggi cosa possiamo fare?
3 nessuno tocchi Caino! È la conclusione mirabile di questa pagina. Dio punirà con maggiore severità chi si permetterà di fare del male a Caino magari con la scusa del suo sbaglio. Dio non vuole la vendetta perché sa che dal male nasce sempre altro male, che la catena dell’odio si vince con il perdono e rimettendo alle sue mani il giudizio su ognuno. Basta solo questo a correggere il tiro su certi nostri giudizi affrettati, basta solo questo per fare di noi strumenti di pace non di odio

domenica 13 giugno 2010

spunti per l'omelia nella terza domenica dopo Pentecoste

Oggi, festa in famiglia per riscoprire che la nostra comunità è formata dalle famiglie che abitano il nostro quartiere, un’occasione per valorizzare la vocazione della famiglia ad essere cellula preziosa per la Chiesa per la società intera. Un’occasione per la nostra comunità a metterci tutto l’impegno possibile perché ad ogni famiglia sia restituita la sua dignità.

La storia della salvezza è la storia che scorre nelle vene dei nostri giorni, sotto le apparenze degli avvenimenti che fanno cronaca. La cogli se indossi le lenti giuste e ti accorgi della presenza di Dio che tiene i cardini del mondo e guida con la sua Provvidenza ogni cosa. Beato chi se ne accorge perché riscatta il tempo dalla banalità, dal pessimismo, dalla paura che tutto procede a caso verso una fine tragica.

La Parola allena lo sguardo e ci offre due chiavi per interpretare la storia della salvezza.

l’uomo e il suo peccato, le sue ombre, il tentativo di emancipazione attraverso il falso mito dell’autonomia.

l’ostinata caparbietà di Dio nel tendergli la mano, di offrirgli occasioni di ricucire una comunione

Eva tentata dal serpente inizia a pensare che Dio sia nemico, un compagno di viaggio ambiguo che promette e poi non mantiene, che abbia qualcosa da nascondere, che sia da ostacolo alla sua felicità. In realtà quell’albero era stato proibito non per nascondere all’uomo la conoscenza del Bene e del Male ma perché Dio voleva che l’uomo, attraverso una regola, un comandamento, fosse libero di scegliere se fidarsi o meno di lui. Il nostro è un Dio che non vuole creature prone e soggiogate ma persone a fronte alta, libere di seguirlo o meno. Da qui la disobbedienza e le conseguenze: Dio non castiga ma prende sul serio il desiderio di autonomia e l’uomo dovrà accettare le conseguenze di aver scelto di essere slegato dal suo Creatore. Dio aveva messo fra le sue mani la natura e ora, nella solitudine ricercata e immaginata come possibilità di realizzazione, l’uomo la scopre nemica contro cui lottare. Anche l’amore diventa ambiguo e può diventare, da scambio reciproco, dominio. La pagina di oggi non ci fa leggere i versetti immediatamente successivi. Dio intreccia un vestito ad Adamo ed Eva, segno di una volontà di ricucire appena l’uomo lo vorrà l’antica comunione.

Saranno un altro uomo e un’altra donna, Maria e Giuseppe, scelti nella loro diversità e nella loro storia di coppia, in obbedienza ognuno alla propria vocazione (Maria a generare Gesù e Giuseppe a dargli il nome, a legarlo cioè alla storia di Israele), a donare la mondo un Uomo, il Cristo, Gesù che salverà il suo popolo, che intreccerà definitivamente i fili della comunione con il Padre per chi fa di lui il motivo della sua vita. è Paolo nella sua riflessione che ci offre le dimensioni giuste della salvezza che ci è stata data in Gesù.

Cosa dice a noi questa stralcio della storia della salvezza.

1 la salvezza non ce la siamo guadagnati con le nostre mani, con le nostre buone opere. è un dono che ci precede. Noi siamo rivestiti di Grazia attraverso la Pasqua di Gesù. su quella croce Gesù porta anche la nostra storia con le sue ferite, i suoi errori e Gesù ci dice che tutto ci è stato perdonato e che noi siamo amati e attesi a casa in un abbraccio forte; sulle palme delle sue mani ferite d’amore stanno i nostri nomi e Dio non li vuole dimenticare. Noi siamo figli e questa è la verità che cambia la nostra prospettiva su noi stessi. Da qui si può iniziare a vivere in modo nuovo.

2 nel racconto di Genesi ci è detto che la radice del peccato è la voglia di essere autonomi, indipendenti da Dio, avvertirlo come nemico e sovvertire l’ordine delle cose, iniziare a pensare come male ciò che è bene e viceversa. Anche se oggi siamo qui non ci è risparmiata la tentazione di voltargli le spalle e di voler fare di testa nostra in una strana idea di libertà, salvo poi stare male e soffrire le conseguenze di questa scelta. Dio ci ha creati come persone di comunione e ogni volta che ci barrichiamo e vogliamo fare di testa nostra andiamo contro noi stessi.

Se ci scopriamo poveri pellegrini, ancora una volta feriti per le nostre cadute, sentiamoci però accolti. Forse da qui, oggi, si può iniziare ancora una volta daccapo.

domenica 6 giugno 2010

II dopo Pentecoste

Noi sappiamo cosa diceva Gesù e come passava i suoi giorni, sprofondato fra la sua gente, con la mano tesa a chi aveva bisogno del suo Amore. Sappiamo che il segreto di questa passione era la preghiera, l’immersione nel silenzio per stare cuore a cuore con il Padre suo. Ma Gesù aveva anche l’anima del poeta che sa stupirsi di ciò che lo circonda. Questo i Vangeli non lo raccontano, ma fra le righe possiamo immaginare che Gesù amasse perdersi fra i disegni delle nuvole in cielo, ascoltare il canto dei passeri, sostare ad ammirare i fiori del campo, il grano maturo, la straordinaria bellezza del creato e dell’uomo. La Creazione gli racconta che Dio è un Padre affidabile, che ha deciso, nella sua tenerezza, di non essere solo ma di dare forma al mondo per divertirsi, per non essere più solo, per avere di fronte qualcuno da amare.

Ed ecco che la contemplazione del creato diventa insegnamento alla sua gente, un invito a fare come lui, a sostare, respirare e liberarsi da ciò che opprime, liberarsi cioè dal desiderio di possedere, di stringere, di accaparrare che accende in cuore una sete implacabile che si fa ansia e poi tristezza, depressione. Contro l’affanno cambia prospettiva! Non solo perché il bicchiere non è mai mezzo vuoto, non solo perché bisogna essere inguaribili ottimisti ma soprattutto perché il Padre c’è ed è all’opera e a noi non manca nulla altrimenti già lui ce lo avrebbe dato.

Noi siamo di quelli che spesso temono di non essere mai adeguati: tutto pretende che noi siamo sempre attivi, operosi, produttivi, efficienti, in ogni campo, da quello affettivo a quello lavorativo e familiare, impareggiabili. Talvolta anche noi, gente di Chiesa, a marcia ingranata, viviamo il rischio di perderci in centinaia di progetti e rischiamo l’illusione che Dio ci ama e siamo credenti adeguati solo se impegnati nel recinto delle nostre parrocchie…a volte anche in chiesa è difficile respirare un po’ di calma (me lo diceva ieri un papà “so che voi preti siete sempre di corsa”…e chi lo ha detto che deve essere così!) E non ci è mai permesso di essere quello che siamo, anche creature fragili, deboli! Tutto ci obbliga a mascherarci e a correre. Salvo poi ritrovarci schiacciati in un vortice quasi con un cappio stretto alla gola. Noi siamo di quelli che vivono la paura che ci manchi qualcosa e qualcuno, che saremo felici solo se avremo fra le mani un salario adeguato, il vestito all’ultima moda, a disposizione la tecnologia più avanzata e, vicino a noi, tanti amici. Noi siamo di quelli che vivono la paura della novità e del futuro come se la Provvidenza non ci accompagnasse giorno dopo giorno e come se Dio che c’era e anche oggi c’è domani si scordasse di noi. Noi siamo di quelli che hanno paura di perdere tempo: sappiamo che, aldilà di tanti discorsi, il tempo è il bene più prezioso che non ci sarà mai più restituito e proprio per questo crediamo di doverlo mettere a frutto, impiegarlo perché è denaro e non abbiamo il coraggio di perderlo per ciò che realmente vale: l’amore che è gratuità totale e spezzarsi per l’altro senza trattenere nulla.

Anche noi abbiamo il bisogno di uno sguardo rinnovato per non essere stritolati dall’ansia e dall’affanno. Proviamo a perderci nella semplicità dei passeri del cielo, fragili eppure liberi, li sentiamo ogni mattina presto che cantano sulle persiane ancora chiude delle nostre case mentre attorno il traffico ancora tace. Anche noi siamo piccole creature eppure preziose, anche noi come loro palpitiamo nel palmo della mano di Dio e siamo amati e conosciuti per quello che siamo e possiamo gettare via la maschera perché il Padre con noi ricomincia daccapo proprio a partire dai nostri fallimenti. Proviamo a perderci nella bellezza di un tramonto e chiediamoci su cosa abbiamo puntato la nostra giornata e se c’è stato davvero un attimo in cui Dio non era con noi. Proviamo ad aprire le braccia alla luce di un’alba e scopriamo che il tempo che noi viviamo non è un’agenda da riempire con l’elenco fittissimo di appuntamenti e impegni ma l’occasione che Dio si dà per incontrarci e che ci dà perché noi andiamo incontro ai nostri fratelli.

Vorrei concludere la mia riflessione di quest’oggi con una nota a margine che la lettura di Paolo mi suggerisce. Nel creato, ma anche nella nostra stessa vita, sentiamo a volte un senso di incompiutezza che non è l’affanno di cui dicevo prima: è quasi un bisogno di definitività, di fermare l’attimo perché la felicità non ci sfugga fra le dita, di arrivare ad un porto e attraccare, di gettare per sempre l’ancora. È l’attesa di una vita diversa, nuova, compiuta. La vita è attesa del Regno, il tempo scorre verso l’eternità e noi a volte vorremmo già esserci. La nostra condizione di creature che stanno come nelle doglie del parto è segno di una vitalità, certo a nervi scoperti, ma promettente per noi e per chi ci sta accanto, gravida di un Regno che già c’è e non è ancora definitivo. Ed è in nome di questa speranza che noi possiamo dirci vivi.