domenica 6 giugno 2010

II dopo Pentecoste

Noi sappiamo cosa diceva Gesù e come passava i suoi giorni, sprofondato fra la sua gente, con la mano tesa a chi aveva bisogno del suo Amore. Sappiamo che il segreto di questa passione era la preghiera, l’immersione nel silenzio per stare cuore a cuore con il Padre suo. Ma Gesù aveva anche l’anima del poeta che sa stupirsi di ciò che lo circonda. Questo i Vangeli non lo raccontano, ma fra le righe possiamo immaginare che Gesù amasse perdersi fra i disegni delle nuvole in cielo, ascoltare il canto dei passeri, sostare ad ammirare i fiori del campo, il grano maturo, la straordinaria bellezza del creato e dell’uomo. La Creazione gli racconta che Dio è un Padre affidabile, che ha deciso, nella sua tenerezza, di non essere solo ma di dare forma al mondo per divertirsi, per non essere più solo, per avere di fronte qualcuno da amare.

Ed ecco che la contemplazione del creato diventa insegnamento alla sua gente, un invito a fare come lui, a sostare, respirare e liberarsi da ciò che opprime, liberarsi cioè dal desiderio di possedere, di stringere, di accaparrare che accende in cuore una sete implacabile che si fa ansia e poi tristezza, depressione. Contro l’affanno cambia prospettiva! Non solo perché il bicchiere non è mai mezzo vuoto, non solo perché bisogna essere inguaribili ottimisti ma soprattutto perché il Padre c’è ed è all’opera e a noi non manca nulla altrimenti già lui ce lo avrebbe dato.

Noi siamo di quelli che spesso temono di non essere mai adeguati: tutto pretende che noi siamo sempre attivi, operosi, produttivi, efficienti, in ogni campo, da quello affettivo a quello lavorativo e familiare, impareggiabili. Talvolta anche noi, gente di Chiesa, a marcia ingranata, viviamo il rischio di perderci in centinaia di progetti e rischiamo l’illusione che Dio ci ama e siamo credenti adeguati solo se impegnati nel recinto delle nostre parrocchie…a volte anche in chiesa è difficile respirare un po’ di calma (me lo diceva ieri un papà “so che voi preti siete sempre di corsa”…e chi lo ha detto che deve essere così!) E non ci è mai permesso di essere quello che siamo, anche creature fragili, deboli! Tutto ci obbliga a mascherarci e a correre. Salvo poi ritrovarci schiacciati in un vortice quasi con un cappio stretto alla gola. Noi siamo di quelli che vivono la paura che ci manchi qualcosa e qualcuno, che saremo felici solo se avremo fra le mani un salario adeguato, il vestito all’ultima moda, a disposizione la tecnologia più avanzata e, vicino a noi, tanti amici. Noi siamo di quelli che vivono la paura della novità e del futuro come se la Provvidenza non ci accompagnasse giorno dopo giorno e come se Dio che c’era e anche oggi c’è domani si scordasse di noi. Noi siamo di quelli che hanno paura di perdere tempo: sappiamo che, aldilà di tanti discorsi, il tempo è il bene più prezioso che non ci sarà mai più restituito e proprio per questo crediamo di doverlo mettere a frutto, impiegarlo perché è denaro e non abbiamo il coraggio di perderlo per ciò che realmente vale: l’amore che è gratuità totale e spezzarsi per l’altro senza trattenere nulla.

Anche noi abbiamo il bisogno di uno sguardo rinnovato per non essere stritolati dall’ansia e dall’affanno. Proviamo a perderci nella semplicità dei passeri del cielo, fragili eppure liberi, li sentiamo ogni mattina presto che cantano sulle persiane ancora chiude delle nostre case mentre attorno il traffico ancora tace. Anche noi siamo piccole creature eppure preziose, anche noi come loro palpitiamo nel palmo della mano di Dio e siamo amati e conosciuti per quello che siamo e possiamo gettare via la maschera perché il Padre con noi ricomincia daccapo proprio a partire dai nostri fallimenti. Proviamo a perderci nella bellezza di un tramonto e chiediamoci su cosa abbiamo puntato la nostra giornata e se c’è stato davvero un attimo in cui Dio non era con noi. Proviamo ad aprire le braccia alla luce di un’alba e scopriamo che il tempo che noi viviamo non è un’agenda da riempire con l’elenco fittissimo di appuntamenti e impegni ma l’occasione che Dio si dà per incontrarci e che ci dà perché noi andiamo incontro ai nostri fratelli.

Vorrei concludere la mia riflessione di quest’oggi con una nota a margine che la lettura di Paolo mi suggerisce. Nel creato, ma anche nella nostra stessa vita, sentiamo a volte un senso di incompiutezza che non è l’affanno di cui dicevo prima: è quasi un bisogno di definitività, di fermare l’attimo perché la felicità non ci sfugga fra le dita, di arrivare ad un porto e attraccare, di gettare per sempre l’ancora. È l’attesa di una vita diversa, nuova, compiuta. La vita è attesa del Regno, il tempo scorre verso l’eternità e noi a volte vorremmo già esserci. La nostra condizione di creature che stanno come nelle doglie del parto è segno di una vitalità, certo a nervi scoperti, ma promettente per noi e per chi ci sta accanto, gravida di un Regno che già c’è e non è ancora definitivo. Ed è in nome di questa speranza che noi possiamo dirci vivi.

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