domenica 15 aprile 2012

domenica in Albis

Oggi si chiude l’ottava di Pasqua, otto giorni che la Liturgia ci ha fatto vivere come se fosse un giorno solo. Non si può racchiudere in appena ventiquattro ore la gioia di chi ha incontrato la Speranza, di chi sa che l’Amore ha vinto la morte, di chi può sentire nella sua vita la mano forte del Risorto stringere la sua. E ora la Chiesa continua a vivere dell’eco di questa gioia nel tempo di Pasqua che terminerà con la festa di Pentecoste. Un arco di cinquanta giorni. Mi piace sempre sottolineare che se la Quaresima, i giorni della Penitenza, dell’ascesi, della prova è di quaranta giorni, quello della gioia è composta da una decade in più! Per i cristiani vale più la festa, la felicità, la danza, come direbbe Ambrogio, la sobria ebrezza dello Spirito piuttosto che la penitenza. In questi giorni ci faranno compagnia i brani delle apparizioni di Gesù, i racconti in cui si dice che non tanto i discepoli hanno visto il Risorto, troppo chiusi nel loro dolore, nella loro tristezza e nel ripiegamento di uno sconvolgente e interminabile venerdì di Passione, ma piuttosto è stato Gesù a farsi vedere, a rendersi disponibile, a lasciarsi incontrare, a voler riprendere il filo di una storia inaugurata con la predicazione in Galilea e che veniva consegnata nelle loro mani come un tesoro prezioso. Ma ci faranno compagnia anche i brani che ci diranno in che modo il Risorto ha deciso di restare nella sua Chiesa e, in modo particolare, quei Vangeli che metteranno a fuoco la Persona dello Spirito come continuazione di una presenza in noi e fra noi di Gesù.

Se dunque questa è la cornice in cui si inserisce la liturgia di oggi, vorrei ora, volare sopra le letture ascoltate raccogliendo qualche perla preziosa che ci viene consegnata per metterla nella nostra bisaccia di poveri pellegrini per trovare un pizzico di ristoro e riprendere il coraggio di affrontare il nostro quotidiano a  tratti così pesante e a ritmo sempre più frenetico sapendo di non essere mai soli.

La prima lettura. Mi colpiscono due passaggi. La predicazione di Pietro. Pietro rilegge la Scrittura e in essa trova le tracce della notizia della risurrezione. Si convince che l’amico incontrato un giorno mentre stava gettando le reti e lo ha chiamato a seguirlo è il Figlio, il Messia che la morte non poteva tenere prigioniero. È la pietra scartata dai costruttori che è diventata pietra angolare. Anche nella sua lettera questa immagine ritorna, forse per lui aveva una forza evocativa grandissima, forse per lui, Pietra della comunità dei credenti, sapere di poter poggiare su una Roccia più solida era di grande consolazione. Il mondo non ha riconosciuto Gesù lo ha scartato; è abituato a fare così: se non appari, se non possiedi, se non hai un potere che schiaccia non sei nessuno, se non ti allinei a questa logica sei messo da parte. Ma Dio sa far diventare pietra di base ciò che noi scartiamo, Dio fa la rivoluzione con i poveri, Dio sa far tremare sotto i loro passi la Storia, Dio sa rendere polvere di stelle ciò che è debole e di poco conto. Dai giorni della risurrezione in avanti è così. E la seconda cosa che mi colpisce è che Pietro, in questa notizia, trova la forza di schierarsi con ciò che è debole fino a farsi lui stesso pietra di scarto e in questa linea predicare il Vangelo e la sua novità. Dio non ha mai smesso di fare così. Lui è riscatto per noi quando siamo pietre scartate, per noi quando ci sentiamo piccola cosa, e per tutti i poveri che ci stringono attorno, per tutti quelli che sulla terra, nell’agenda dei potenti, non conteranno mai un granché. Il Risorto è il fondamento di una storia nuova, invertita di senso, di un Regno che fa degli ultimi i primi. Sarebbe bello se la Chiesa ne fosse sempre più uno spaccato rappresentativo. Sarebbe bello se la nostra bocca si aprisse per rendere notizia tutto questo che davvero ha la forza di cambiare l’ordine delle cose.

Della lettera di Paolo invece mi colpisce quella convinzione che noi siamo gente risorta con Cristo, la certezza che può esserci un modo altro di abitare la nostra vita, un paradigma diverso per dare senso alle nostre relazioni e alle nostre scelte e anche per rileggere ciò che siamo. Sapere che Gesù non è prigioniero della morte, che c’è stato un giorno in cui uno per amore ha dato la vita e perché si è spezzato per il bene di qualcuno, perché non ha trattenuto nulla ma si è lasciato andare come un seme nella terra, Dio ha fatto Giustizia, si è fatto vedere in lui, gli ha ridato vita è come indossare un paio di lenti nuove e giudicare tutto in modo diverso! Allora anche le nostre scelte d’amore sempre paradossali e sempre in perdita acquistano valore.

E infine del brano di Vangelo mi rapisce sempre l’ostinata convinzione di Tommaso di non credere che lo aveva portato lontano dal Cenacolo, che lo aveva condotto a decidere di troncare la sua vicenda con quella comunità. E proprio lui, nell’abisso della sua notte, viene raccolto dalla mano di Gesù. Una mano che non lo giudica, non lo mette con le spalle al muro inchiodandolo alla sua pochezza, ma che lo aiuta a superare la sua incredulità. È di una tenerezza incredibile quel gesto di far toccare le sue piaghe ora splendenti di luce. E, come ci dice la tradizione, questa sarà la forza che porterà il più sospettoso e forse cinico dei discepoli a percorrere più chilometri di tutti, fino alle Indie, e lì donare la sua vita dopo aver annunciato il Vangelo. Non ha paura Gesù delle nostre tenebre, non ha timore il Signore della nostra incredulità, non si lascia arginare dallo scoglio dei nostri dubbi. Ma nella comunità, dove anche chi fatica a credere si deve sentire il benvenuto, ci dà appuntamento per lasciarsi incontrare, vedere, toccare e sciogliere le nostre resistenze perché la follia del credere è più ragionevole, ha un motivo in più sempre, del baratro della negazione di una Vita nuova.     

domenica 8 aprile 2012

domenica di Pasqua


E da quel mattino, quando già le prime luci dell’alba stemperavano il buio della notte e rendevano più nitide le forme e distinguibili i colori,  anche della pena di quel Giardino, la notizia che Gesù è stato risuscitato è iniziata a correre di bocca in bocca fino a scavalcare il tempo. È per questo che ora siamo qui. Eppure nessuno lo ha visto risorgere, uno dopo l’altro i protagonisti del racconto del Vangelo hanno dovuto compiere un atto di fede, sbilanciare il loro cuore su una Parola che intuivano essere ragionevole. Le donne hanno creduto all’angelo, i discepoli alle donne e noi a loro e alla Chiesa che ha custodito questo annuncio assieme agli altri racconti di apparizione.

Questa sera sento un brivido nell’accorgermi di quanto sia tenue il filo della nostra fede, avverto come è sottile il crinale fra tenebra e luce, fra disperazione e speranza, fra il venerdì della Passione e la Domenica di Risurrezione. Perché se è Risorto cambia davvero tutto, acquista senso la sua vita e la sua morte, il presente si colora di futuro; ma se non lo è niente ha senso! Non ha senso la Creazione, non ha senso la fede di Abramo e quella dei nostri padri, l’esodo da una schiavitù verso una meta che è deludente e ha il gusto della morte. Non ha senso parlare di perdono, di futuro, non ha senso nulla del Vangelo se poi Gesù rimane attaccato a quella croce e la sofferenza del Giusto non ha riscatto e la violenza rimane la parola assoluta con il suo carico di dolore e di sangue.

Per questo mi piace pensare che anche chi fra noi vive il dramma dell’incredulità, sente in sé la tentazione di giudicare tutto come un inganno, come una storia troppo bella per essere vera, possa sentirsi a casa.

Io vorrei invece con voi, e grazie a voi, afferrare questo filo sottilissimo e dire che è perché è troppo bella questa storia, proprio per questo, è vera. Vorrei stringere fra le mani questo annuncio e dire con convinzione che non poteva non essere così.

Perché Dio è il Dio della vita e la sua Gloria siamo noi se viviamo liberi e in pienezza. Perché Dio non poteva tacere e chiudere nell’ambiguità questa vicenda. Perché Dio non poteva non essere il Padre. Perché il Padre non poteva permettere che quella storia d’amore venisse sepolta sotto il peso del silenzio grosso come il macigno posto sul sepolcro. Perché il Padre non poteva lasciare che il seme morisse senza portare frutto. Perché ognuno di noi questa sera, se è vero che l’esperienza delle donne diventa paradigmatica anche per la nostra vita, può dire con certezza di aver incontrato il Signore risorto, di aver sentito sulla sua pelle il suo sorriso, magari dietro l’angolo del nostro dolore, magari proprio dove non ce lo aspettavamo, magari proprio quando la morte sembrava farla da padrona e stava scivolando nel baratro del non senso. Perché ognuno di noi sente picchiare forte nel cuore la voglia di risurrezione e questa non può che essere la voce dello Spirito che ci avvince e ci conduce alla fede. Perché fra la follia del credere e il baratro della disperazione io sento di dover arrendermi alla prima.

E dunque lasciamo che la luce della risurrezione da questa notte entri e dilaghi in ogni fibra di noi. Perché risurrezione è vita nella sofferenza, è voce che ci fa sentire amati quando ci sentiamo inadeguati e deboli. È consolazione sulle cicatrici che la vita ci ha lasciato. Risurrezione è voglia di essere perdonati e schiodati da quell’errore che ci fa vergognare ogni volta che ci affacciamo nell’atrio della memoria. È voglia di ricostruire un rapporto che si è lacerato e pensavamo perduto per sempre. È possibilità di giocarsi la vita fino in fondo, nella logica della gratuità e dell’amore che si spezza, sapendo che nulla sarà perduto ma siamo custoditi per l’eternità.

Ma vorrei dire un’altra cosa. Il risorto non possiamo imprigionarlo nel nostro rito. Anzi, è già fuori di questa chiesa e ci aspetta sule strade del mondo perché lui non ha mai smesso di danzare proprio lì dove si infittiscono le tenebre della paura e della morte. E dobbiamo tenergli il passo, perché  con lui il mondo attende noi proprio noi che siamo aggrappati a questo filo di speranza.

Questo mondo che rischia di annegare nella disperazione. Perché è questa che ci rende nervosi al mattino sulle strade, intrattabili con chi pensiamo ci tolga il diritto di esistere, è questa che autorizza i nostri giovani a non guardare più con passione il futuro e ha tolto dalla loro mente ogni idea di rivoluzione oltre che dare la delega agli adulti di disinteressarsi dell’educazione. È perché camminiamo al passo della disperazione che non sentiamo più la voglia di indignarci e di prendere per mano i piccoli e con loro anticipare la logica del Regno.  Forse è mancanza di speranza anche quella della Chiesa quando si arrocca su posizioni autoritarie e ha dimenticato la semplicità del Vangelo, compagna della povertà. È frutto di disperazione permettere che il venerdì santo di tante famiglie, di tanti piccoli e poveri, si consumi nel silenzio. Da questa sera soffia il vento nuovo della Vita. Beato chi si lascia portare lontano.

s. Messa in coena Domini


Nella notte in cui fu tradito

È notte. La notte dove prendono forma di mostri gli incubi che abitano nel cuore dell’uomo. La notte del sangue e della follia, dove si prepara il male che si avventa rapace su ciò che è bello, giusto e vero per distruggere e fare razzia. È la notte del tradimento dell’amico, è la notte della solitudine.

Ostacolo, scoglio su cui si infrange la voglia di amare…eppure il Maestro in quella notte, proprio in essa, ama senza trattenere, ama proprio chi non se lo merita, si consegna, si gioca fino in fondo senza fare sconti a quella tensione di donarsi che da sempre è stata la trama dei suoi giorni. In quella notte, proprio in essa, prende il pane e lo spezza, prende il calice e vi versa il vino e ne fa corpo e sangue, preludio della croce, promessa di una presenza che non smette di accompagnare i suoi.

Da quella notte non c’è spazio per il fraintendimento, per l’ambiguità di un qualcosa lasciato irrisolto. Se vuoi trovare il Signore lo devi cercare nel Pane spezzato. Se vuoi capire il Signore non puoi prescindere da questa logica esagerata di dono, altra, che ci supera in ogni dimensione. È sangue di una nuova alleanza. È amicizia, perdono che cambia il cuore e lo rende disponibile alla relazione. 

Il tuo Dio è così: arreso, umile, povero, disarmato, consegnato, debole, ritratto per fare spazio alla tua libera decisione di amarlo e di seguirlo: perché l’amore non si impone se non per se stesso, non ha ragioni se non quelle della passione e della gratuità. Non puoi confonderlo con altro. Ogni altra idea è proiezione tua. È miraggio troppo umano il Dio che fa la rivoluzione, il Dio che parla con voce di tuono e spezza le reni dei suoi nemici. Il nostro è il Dio che si fa uomo e intreccia il suo sentiero al nostro fino a pagare di persona, è il Dio che avvince e cambia le cose dal di dentro.

Se celebro l’Eucarestia cambia lo sguardo che ho su di me. Io questa notte sento tutto il peso dei miei tradimenti, delle mie fughe, della mia atavica paura, antica come quella del primo uomo nel Giardino, che mi paralizza, che mi fa tenere la mano sempre un po’ chiusa perché non voglio perdere e perdermi. Questa notte comprendo che nel suo cuore ci sono anch’io. E io un Dio così non lo lascio più. In quell’abbraccio io mi posso perdere e posso gettare nell’abisso della sua Misericordia, e farmi sommergere, la voglia di emergere.  E a me non resta che adorare, portare la mano alla bocca per lo stupore e anch’io tacere e farmi cambiare. Era proprio quello che Dio stava chiedendo a Giona e che ora domanda anche a me.

Io posso vivere come arreso, alzare finalmente bandiera bianca e deporre, assieme con le armi con cui mi difendo, anche la maschera che rivesto per sembrare forte, sempre pronto a rispondere nel modo giusto a chi pretende che io sia altro. Io posso di fronte a lui, è lui che mi autorizza a farlo, essere debole, farmi trovare, sul crocevia fra speranza e disperazione, e lasciarmi amare finalmente per quello che sono. Posso dire di essere ferito, di essere un povero pellegrino e che la strada mi ha inciso sulla pelle cicatrici indelebili ma non sarò giudicato ma raccolto. E poi restituito al presente. Perché se ti riconcili con la tua debolezza, se comprendi di essere poca cosa ma teneramente amata puoi davvero fare la rivoluzione. Qui e ora noi possiamo essere incisivi con segni di novità.

Ma vorrei anche allargare l’orizzonte e sostare su un’altra conseguenza, questa decisamente comunitaria. Mi chiedo spesso come deve essere la Chiesa, la comunità dei credenti, che fa dell’Eucarestia il centro delle sue premure, che riconosce come suo Dio il Cristo che si fa Pane, arreso e crocifisso.

Pensavo a tre aggettivi che iniziano tutti per s  

Semplice. Essenziale, come il suo Dio. Non persa su sentieri della ricerca dell’immagine. Non arroccata in linguaggi e segni incomprensibili al mondo. Povera perché amata. Agile perché è custode del sogno di Dio sull’umanità. Aperta a chi è in ricerca perché il suo Signore non ha mai smesso di cercare anche l’ultimo dei suoi figli magari persi su qualche sentiero scosceso.   

Serva. Non c’è modo migliore di definirsi. Al servizio del mondo, al servizio della gioia dell’uomo senza cedere alla tentazione di servirsene. Perché così è stato il suo Maestro. Non in ricerca di onori, mai sotto i riflettori. Serva di chi la abita. Non possiamo servire chi sta fuori dalla Chiesa e in nome di ciò dimenticare chi ci sta accanto e condivide la nostra fede. Sarebbe un assurdo farci del male fra noi in maldicenze o esclusioni e poi pretendere di servire il mondo: non ci crederebbe nessuno. E poi serva fra i piccoli del mondo, piccola anch’essa, perché fra loro Gesù ha deciso di tenere piantati i paletti della sua tenda. Una Chiesa senza poveri, ma non messi al margine o sempre sotto al piedistallo del nostro buon assistenzialismo, ma al centro, come figli prediletti come ci invita a fare Paolo.

Sicura. Sogno una Chiesa che ricorda sempre che nel Pane spezzato c’è la promessa di Gesù di restare fra noi e proprio per questo possiamo dirci sicuri. Non supponenti. Aggrappati come ad una roccia. Se ce ne dimentichiamo inseguiamo altre sicurezze, altri tesori. Dovremmo inserire spesso fra i nostri peccati quello della paura che paralizza. Noi abbiamo una Verità che ha in sé la forza del crocifisso risorto. E non è poco per aprire le braccia a chi cerca una dimora sicura.   

rito per l'accoglienza degli oli e la lavanda dei piedi


Il sole era tramontato. Così, per il computo ebraico dei giorni, era iniziata la grande festa di Pasqua. Che qualcosa non sarebbe andata come al solito era ormai evidente. Troppo insistenti quei richiami del Maestro alla sofferenza, alla morte. Forse stava arrivando davvero l’ora del giudizio, il momento della sintesi, della rivoluzione di quel Regno di cui avevano sentito parlare così tante volte. Il rito della Pasqua era ormai pronto con il suo lungo memoriale fatto di parole alternate a portate. Solo alla fine si accorsero che quella sarebbe passata alla storia come cena ultima perché il tempo si era fatto breve, davvero la luce non sarebbe brillata per sempre e c’era l’urgenza di concludere, di tirare le somme, di lasciare fra le loro mani un testamento. Posso solo immaginare i volti smarriti dei discepoli di fronte al primo gesto che il Maestro quella sera volle compiere. Li fece mettere a tavola e poi, tolte le vesti, presagio di una spoliazione totale che sarebbe avvenuta solo qualche ora più tardi, si cinse un asciugatoio alla vita e si mise a lavare i loro piedi. Quella era un’incombenza talmente umiliante che era affidata solo agli schiavi e che la legge dei romani,  bontà loro, vietava dopo il tramonto del sole. Il Maestro si stava facendo peggio di uno schiavo, una scena davvero imbarazzante! E via via, in ginocchio, alzando lo sguardo per guardare bene gli occhi di chi amava e si era scelto, passa da un discepolo all’altro, da un piede all’altro…si mette in ginocchio davanti a Pietro e al suo cuore buono ma ancora così pieno di intemperanze e di incoerenze, a Matteo e alla sua storia di pubblicano rinato nel perdono, a Giacomo e a Giovanni e alla loro irruenza quasi arrogante, si mette di fronte a Giuda che in quei giorni si era fatto così silenzioso, cupo, scuro in volto, come chi sembra stia per tramare qualcosa o, forse meglio, di chi si sente tradito e per questo è pronto a sferzare un attacco. Solo alla fine capiranno che quel gesto racchiudeva, in un’immagine, lo stile che da sempre ha contraddistinto l’agire del loro Maestro. Gesù aveva vissuto in pura perdita di sé. Aveva messo al servizio degli altri tutto di sé, non risparmiando intelligenza, passione, forze, parole. E il suo tempo era il tempo di chi desiderava incontrarlo, parlargli, ricevere un segno. Nulla per sé, tutto di sé per il Regno che è dei piccoli che lo accolgono. Ma ogni testamento assomiglia anche a un testimone, come quello delle staffette, da ricevere fra le mani e portare lungo la corsa in un tratto che spetta a me. Come ha fatto lui così ora avrebbero dovuto fare anche loro. Correre nel mondo senza pretese, con le mani aperte, senza trattenere ma solo donando e donandosi. Questo era un impegno gravoso ma in cui sta la promessa di una felicità senza fine. Pietro questo testimone non lo vuole. Si veste in quel momento di falsa umiltà ma solo perché per sé voleva altro, avrebbe desiderato potere, apparenza e ricchezza. Ma se il Maestro mi lava i piedi io non ho più il diritto di pretendere altro.

Finisce qui la Quaresima, questo itinerario che don Tonino Bello aveva definito dalla testa ai piedi perché inizia dalla testa cosparsa di ceneri, la nostra, e termina ai piedi, quelli di un altro da servire e da amare con tutto noi stessi. Ogni conversione deve portare al coraggio e alla volontà  di servire gli altri altrimenti è un esercizio di sterile spiritualismo.

Mi piace che nelle nostre comunità ci sia l’abitudine di staccare questo rito dalla Messa in coena Domini per viverlo con una certa calma particolarmente all’interno della comunità oratoriana. A nome di tutti i grandi di questa parrocchia ho lavato i piedi dei nostri piccoli amici e, con loro, immagino di averlo fatto ai ragazzi di poco più grandi, agli adolescenti e ai giovani, alla parte migliore della nostra comunità, anche a quei giovani che non vengono più a messa e non vogliono più intrecciare i loro destini con questo oratorio.

Lavare i piedi ai giovani significa servirli e non servirsene. Significa servire alla loro gioia, servire il loro desiderio di felicità facendolo incontrare con il Vangelo del Regno senza sconti anche perché non li accetterebbero, i giovani sono meno di noi abituati al compromesso. Significa fare di loro buoni cristiani e per questo onesti cittadini autori di una società più bella di quella che hanno ricevuto in eredità. Significa essere adulti credibili. Significa non piegarli alle esigenze della struttura ma piegare le strutture a loro vantaggio. Significa educarli, farsi guide pazienti che sanno dove puntare  ma che sanno anche che non c’è mai educazione senza disponibilità a farsi educare a propria volta da loro che è il modo unico per acquistare ai loro occhi autorevolezza. Significa non prendersi gioco dei loro sogni. Significa spendere tempo e passione, regalare gratuità. Significa farsi trovare lì dove sono loro e mettere a disposizione le nostre forze.  Significa non disprezzarli mai, non averne paura, non alzare barriere insormontabili. In poche parole, significa fare come ha fatto Cristo con tutti i giovani che ha incontrato: camminava con loro verso una meta di felicità alta.

E io, in questo giorno dedicato ai preti perché in esso Gesù ha istituito con l’Eucarestia il sacerdozio, vorrei chiedere perdono a tutti i giovani che non ho saputo incontrare in gratuità e con cui non mi sono messo al passo per mancanza di tempo o forse per pigrizia. Perdono per quando ho rappresentato quella Chiesa istituzione preoccupata di sé e poco attenta a farsi incontrare e a condividere il tesoro del Vangelo.

Con voi, per il vostro esempio, e per voi per il dovere che ho di rispondere a Dio del mio ministero, oggi vorrei, alla luce di quel sapendo queste cose sarete beati se le metterete in pratica ripartire daccapo.

dom delle Palme - messa per la benedizione degli ulivi


Con lo sguardo dei discepoli

Che sarebbe stata diversa dalle altre quella Pasqua se lo erano immaginati già da qualche tempo. Il Maestro aveva indurito il suo volto, aveva lo sguardo fisso alla meta, il pensiero fisso su una missione da compiere proprio a Gerusalemme. Non avevano fatto caso alle parole che annunciavano la passione, meglio, non volevano pensarci. Chissà, forse ci sarebbe stato un agguato, una lotta, e loro le armi per difendere e attaccare le avrebbero anche abbracciate. Gesù era diventato scomodo con le sue parole, i suoi segni, l’annuncio di un Regno che poneva gli ultimi al primo posto e la pressione da parte delle autorità politiche e religiose si era fatta sempre più forte. Volevano credere che i giorni del Messia erano prossimi e si preparavano in cuor loro ad una rivoluzione contro l’ordine costituito e, chissà, magari anche contro i romani. E sognavano come avrebbero poi spartito il potere e pensavano, nell’eventualità della morte del Maestro, chi fra loro avrebbe potuto sostituirlo. La festa per il suo ingresso tutto lasciava immaginare fuorché quello che poi in realtà avvenne. Le folle erano in delirio, come avrebbero potuto poi cambiare il loro osanna in un grido di morte rimane un mistero. Il mistero della vulnerabilità della gente, sempre pronta a seguire il più forte e a delegare il proprio destino nelle mani di chi ha il potere. Compresero poi, soltanto poi perché Gesù volle un asinello per quell’entrata anche al rischio di coprirsi di ridicolo e di sparire di fronte a ben altre parate. Compresero poi, soltanto poi che quelli sarebbero stati i giorni dello spettacolo di chi fa di sé un dono , della mitezza che vince l’arroganza, della debolezza che disarma la forza, dell’amore che si dona senza pretendere nulla ma solo consegnarsi per fare spazio alla tua libera decisione di amarlo e di seguirlo.



Con lo sguardo di Gesù

Entrare nella città, volerla abitare, prendere posto in mezzo alle dinamiche contraddittorie dell’uomo ed essere il profeta che soffre per amore e arriva a dare la vita: questo voleva fare Gesù quel giorno. Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio. E lui la sua tenda davvero l’ha voluta piantare dove l’uomo vive e consuma i suoi giorni. Gesù ama Gerusalemme e con questo ingresso si compie il mistero di un Dio che tende la mano alla sua creatura fino a toccarla, prenderla per mano, raggiungerla anche nei suoi lati oscuri senza giudicarla ma condividendo il suo destino. Non gli interessa il delirio della folla, non gli interessa il possibile fraintendimento dei suoi discepoli, non gli interessa nemmeno la rabbia dei potenti. Ciò che vuole è compiere la sua missione. Sa che tradirà le attese di chi attendeva un azzardo politico. Vuole essere Messia nel solco dei profeti e in particolare di quelli che, per amore della Verità, hanno saputo abbracciare anche la sofferenza. A lui non interessa la rivoluzione, lui vuole che l’uomo si apra a un Dio che cambia il cuore perché non sia più duro come la pietra. E finché questo non accade i poveri saranno sempre schiacciati e il mondo annegherà nella sua ingiustizia. Sarà pronto ad aprire le braccia sulla croce perché solo così si compie la Parola dell’Alleanza.       



Con i nostri occhi

E noi? Noi non ce la faremo a stragli dietro, anche noi arranchiamo come i discepoli perché non vogliamo comprendere la logica della croce. Abbiamo camminato lungo questa Quaresima cercando di convertirci, ma quanto rimane ancora da fare... e se pensavamo di emergere con le nostre forze dovremo ancora accettare, in questa Pasqua, di lasciarci sommergere dalla sua Misericordia, lasciarci perdonare e lasciarci avvicinare da lui nella nostra pochezza. Sappiamo però di essere amati teneramente, sappiamo che ai suoi occhi valiamo, siamo consapevoli che non ci vuole perdere. Abita ora proprio nella nostra città in cui è voluto entrare per rimanerci come il Messia crocifisso e risorto, segno di amore a cui si può sempre ritornare, monito anche per noi perché se anche tu non ti doni e non apri la tua mano al fratello allora ti sei perso. Gesù compie la storia e compie anche il nostro desiderio di felicità. Vogliamo seguirlo e non lasciarlo in questi giorni. Penso che ad ogni Pasqua ci sia data l’occasione di avanzare di un poco sul cammino della sequela e di vivere il nostro quotidiano un po’ di più come lui con la nostra croce ma felici perché doniamo la vita.

quinta domenica di quaresima


Non è facile prendere un ideale evidenziatore fra le mani e lasciar emergere i tratti più importanti di questa lunga pericope del Vangelo di Giovanni.

Questo è l’ultimo dei segni che Gesù compie, il più importante. I segni…questi accadimenti che cambiano la natura delle cose, che incidono nella carne e che rimandano ad una realtà altra, che portano con sé sempre un interrogativo rivolto alla libertà dell’uomo perché possa aprirsi con fiducia alla presenza di un Dio che è Padre e che non ha mai smesso di farsi compagno, alleato del suo popolo camminando proprio in mezzo a loro.

Gesù decide di partire per la Giudea anche se sa che è come scendere nella fossa dei leoni. Ha maturato forse già la convinzione che solo donando la su vita, spezzandosi come pane, avrebbe potuto dichiarare tutto il suo amore e la sua intenzionalità salvifica per i suoi. E così la morte d Lazzaro diventa ai suoi occhi, alla sua mente un angoscioso presagio della sua morte: un conto è comprendere di dover dare la vita e un altro trovarsi nel mezzo dell’arena, sentire sulla pelle il brivido che quel momento è molto, troppo prossimo.

Qui a Betania incontra le sorelle di Lazzaro. Una, Marta, che gli corre incontro alzandosi dal suo dolore, uscendo da quella casa che la costringeva a tenere il pensiero fisso sulla morte. E l’incontro con il Maestro le apre la dimensione di una nuova fede e una nuova speranza. Maria invece rimane in quella casa e ci sarebbe rimasta se sua sorella non fosse corsa a pregarla di accompagnarla da Gesù. Maria non vuole saperne di incontrare l’amico che ha sentito  così distante proprio nel momento più angoscioso della sua vita. Le due sorelle sono i due opposti atteggiamenti di fronte alla morte: rispettivamente un’inattesa apertura alla fede e una chiusura definitiva all’Altro.

E poi il segno che si esaurisce in poche righe: una preghiera, un grido e la pietra che pesava come un macigno irremovibile sulla tomba e sulla vita degli amici di Gesù viene ribaltata e Lazzaro esce dal sepolcro.

Vorrei soffermarmi su questo verbo uscire. Mi sembra che sia la condizione in cui si trovano tutti i protagonisti di questo racconto. Maria e Marta devono abbandonare una fede troppo popolare, troppo generica per accedere ad una dimensione nuova, ad una fede personale, cioè che punta tutto sulla persona di Gesù. Lazzaro lascia la tomba. I discepoli devono uscire dalla paura e dal tentennamento. I giudei devono, vedendo quel segno, uscire dalla presunzione orgogliosa id aver compreso tutto di Dio e addentrarsi nell’enigma di Gesù come Messia e Figlio di Dio.

Ma anche Gesù deve uscire. Uscire dalla paura della morte, la sua, che lo fa commuovere e turbare profondamente, che gli spezza la parola in gola e lo fa piangere.

Tutti loro escono solo per un atto di affidamento profondo. Per la fede in Dio che è Padre e che non ci abbandona mai le cui orme rimangono invisibili sulla sabbia della nostra vita perché ci solleva sulle sue ali e ci fa volare assieme a lui, questo Padre che, per dirci che la sua Gloria è la nostra vita in pienezza, ci fa sperimentare ogni giorno scampoli di risurrezione.

Vorrei che questa sosta di quaresima, prima di entrare nella settimana autentica, sia per noi occasione per purificarci da tutte le nostre paure. La morte è, a mio avviso, l’immagine più emblematica di ciò che paralizza il cuore rendendoci duri, chiusi, muti, spaventati e arresi di fronte alle sfide della vita. Ci sono paure che attanagliano il nostro cuore. La paura di non essere amati, la paura del fallimento, la paura dell’altro, di aver tradito i nostri sogni, la paura della delusione, la paura di non farcela e di non riuscire a fare tutto quello che vorremmo in un tempo che percepiamo essere diventato breve. c’è la paura di ricucire un rapporto mentre il tempo passa. Lasciamoci prendere per mano dal Padre, lui è la nostra roccia. Lasciamo che la sua Grazia ci tocchi e compiamo un salto di affidamento. Lasciamo che la sua luce entri nelle nostre zone d’ombra e ci aiuti a metterci in gioco perché davvero vivere nella paura è perdersi la vita, lasciarsi frenare dal timore è un azzardo troppo alto che rischia di far scivolare nella banalità e nel ripiegamento il resto dei nostri giorni. Sarà allora come una primavera. Sentiremo di avere la nostro fianco un Dio che lotta dalla nostra parte e inizierà a fiorire in noi una vita degna di questo nome che è già segno di risurrezione.

quarta domenica di Quaresima


Con gli occhi dei farisei

Certo, il fatto che lui ora ci vedesse era davvero singolare e fuori da ogni logica. Non riuscivamo a spiegarci come fosse accaduto. Eravamo davvero smarriti: ecco perché continuavamo a interrogarlo rischiando, sì lo ammetto, di diventare ridicoli. I piatti della bilancia però non riescono a stare in equilibrio: da una parte pesa la sua guarigione e dall’altra c’è l’uomo per il quale era avvenuto il segno. Dio non può guarire di sabato, Dio non può essere con uno che viene da Nazareth, uno qualunque, uno che non è dei nostri, uno che esce da ogni schema. Dio sta nella Legge, si è rivelato a Mosè, visita Israele con la sua mano potente, è Altro e altrove. Eppure quegli occhi prima chiusi ora mi facevano paura così pieni di luce intensa.



Con gli occhi del cieco nato

Non avevo chiesto nulla di più di qualche spicciolo per tirare a campare anche quel giorno. Ma lui probabilmente mi aveva letto dentro. Il mio sogno più grande, il mio desiderio più autentico era quello di potermi riscattare, di potere acciuffare la mia libertà fra le mani e dare alla mia vita la direzione che io volevo. Mi ha messo del fango sugli occhi, come quando Dio crea Adamo così lui ha riplasmato i miei occhi informi. E poi sono corso subito a Siloe, le mie gambe hanno obbedito, era la mia partecipazione era la mia voglia di novità. Non capisco però come non si possa credere, come si possa negare anche l’evidenza, chiudere gli occhi di fronte all’ovvietà del bene che ho ricevuto: che pena quell’essere rimbalzato come un imputato in un processo da un parte all’altra di fronte a gente che aveva deciso a priori di non lasciarsi interrogare. Di buono c’è solo il fatto che, nonostante mi abbiano cacciato fuori dal loro mondo, in quel dialogo mi si faceva sempre più chiaro che Gesù non è solo un uomo o un profeta ma il Messia e Figlio di quel Dio che ancora oggi in me rivela la sua grandezza e che nella mia debolezza mi ha salvato.

Quando incontri la Verità la tua prospettiva cambia definitivamente e nulla è più come prima. E ora questa Verità è il mio tesoro.    



Io credo davvero che l’incontro con Cristo, lasciare che la sua presenza di Signore tocchi il tuo cuore, ti raggiunga nella situazione in cui sei, nelle tue zone d’ombra, che il suo passaggio raccolga i tuoi sogni, il tuo desiderio di eternità ti cambia la prospettiva sulla vita. Quando questo accade, per te Cristo non è una verità fra le altre, uno fra i tanti, uno che occupa una parte del tuo tempo senza nulla intaccare del resto. Gesù diventa il punto prospettico per rileggere e ricomprendere ogni cosa a partire da te stesso. Oggi siamo chiamati a metterci nei panni di questo cieco nato per ritrovare uno sguardo nuovo, quello che ci è stato donato come un paio di lenti, nel giorno del Battesimo

Chi sono io. Quanta sfiducia nel giudicarci inversamente proporzionale alla carica di aggressività che usiamo per difenderci davanti agli altri. Ci sentiamo davvero piccoli, povera cosa, indifesi di fronte a un mondo che vuole frammentarci e rubare a noi noi stessi. La verità ce la consegna Gesù: tu sei prezioso, tu vali, per te il Signore opera prodigi, tu sei la gloria di Dio nella tua vita e la tua vita è preziosa, molto perché sei unico e irripetibile. La tua libertà è insopprimibile e sei chiamato a dare ai tuoi giorni la direzione dell’amore per non sciupare nemmeno una briciola della tuo tempo.    

Chi è l’altro Un vecchio rabbino domandò una volta ai suoi allievi da che cosa si potesse riconoscere il momento preciso in cui finiva la notte e cominciava il giorno. "Forse da quando si può distinguere con facilità un cane da una pecora?". "No", disse il rabbino. "Quando si distingue un albero di datteri da un albero di fichi?". "No", ripeté il rabbino. "Ma quand'è, allora?", domandarono gli allievi. Il rabbino rispose: "E' quando guardando il volto di una persona qualunque, tu riconosci un fratello o una sorella. Fino a quel punto è ancora notte nel tuo cuore".

Cos’è questo tempo che mi è dato di vivere. Occasione, Grazia, tempo visitato, in esso tutto il necessario per la tua gioia e per la gioia di qualcun altro

Chi è Dio. Padre.