Nella notte in cui fu tradito
È notte. La notte dove
prendono forma di mostri gli incubi che abitano nel cuore dell’uomo. La notte
del sangue e della follia, dove si prepara il male che si avventa rapace su ciò
che è bello, giusto e vero per distruggere e fare razzia. È la notte del
tradimento dell’amico, è la notte della solitudine.
Ostacolo, scoglio su cui si
infrange la voglia di amare…eppure il Maestro in quella notte, proprio in essa,
ama senza trattenere, ama proprio chi non se lo merita, si consegna, si gioca
fino in fondo senza fare sconti a quella tensione di donarsi che da sempre è
stata la trama dei suoi giorni. In quella notte, proprio in essa, prende il
pane e lo spezza, prende il calice e vi versa il vino e ne fa corpo e sangue,
preludio della croce, promessa di una presenza che non smette di accompagnare i
suoi.
Da quella notte non c’è spazio
per il fraintendimento, per l’ambiguità di un qualcosa lasciato irrisolto. Se
vuoi trovare il Signore lo devi cercare nel Pane spezzato. Se vuoi capire il
Signore non puoi prescindere da questa logica esagerata di dono, altra, che ci
supera in ogni dimensione. È sangue di una nuova alleanza. È amicizia, perdono
che cambia il cuore e lo rende disponibile alla relazione.
Il tuo Dio è così: arreso,
umile, povero, disarmato, consegnato, debole, ritratto per fare spazio alla tua
libera decisione di amarlo e di seguirlo: perché l’amore non si impone se non
per se stesso, non ha ragioni se non quelle della passione e della gratuità.
Non puoi confonderlo con altro. Ogni altra idea è proiezione tua. È miraggio
troppo umano il Dio che fa la rivoluzione, il Dio che parla con voce di tuono e
spezza le reni dei suoi nemici. Il nostro è il Dio che si fa uomo e intreccia
il suo sentiero al nostro fino a pagare di persona, è il Dio che avvince e
cambia le cose dal di dentro.
Se celebro l’Eucarestia cambia
lo sguardo che ho su di me. Io questa notte sento tutto il peso dei miei
tradimenti, delle mie fughe, della mia atavica paura, antica come quella del
primo uomo nel Giardino, che mi paralizza, che mi fa tenere la mano sempre un
po’ chiusa perché non voglio perdere e perdermi. Questa notte comprendo che nel
suo cuore ci sono anch’io. E io un Dio così non lo lascio più. In quell’abbraccio
io mi posso perdere e posso gettare nell’abisso della sua Misericordia, e farmi
sommergere, la voglia di emergere. E a
me non resta che adorare, portare la mano alla bocca per lo stupore e anch’io
tacere e farmi cambiare. Era proprio quello che Dio stava chiedendo a Giona e
che ora domanda anche a me.
Io posso vivere come arreso,
alzare finalmente bandiera bianca e deporre, assieme con le armi con cui mi
difendo, anche la maschera che rivesto per sembrare forte, sempre pronto a
rispondere nel modo giusto a chi pretende che io sia altro. Io posso di fronte
a lui, è lui che mi autorizza a farlo, essere debole, farmi trovare, sul
crocevia fra speranza e disperazione, e lasciarmi amare finalmente per quello
che sono. Posso dire di essere ferito, di essere un povero pellegrino e che la
strada mi ha inciso sulla pelle cicatrici indelebili ma non sarò giudicato ma
raccolto. E poi restituito al presente. Perché se ti riconcili con la tua
debolezza, se comprendi di essere poca cosa ma teneramente amata puoi davvero
fare la rivoluzione. Qui e ora noi possiamo essere incisivi con segni di
novità.
Ma vorrei anche allargare
l’orizzonte e sostare su un’altra conseguenza, questa decisamente comunitaria.
Mi chiedo spesso come deve essere la Chiesa, la comunità dei credenti, che fa
dell’Eucarestia il centro delle sue premure, che riconosce come suo Dio il
Cristo che si fa Pane, arreso e crocifisso.
Pensavo a tre aggettivi che
iniziano tutti per s
Semplice. Essenziale, come il suo
Dio. Non persa su sentieri della ricerca dell’immagine. Non arroccata in
linguaggi e segni incomprensibili al mondo. Povera perché amata. Agile perché è
custode del sogno di Dio sull’umanità. Aperta a chi è in ricerca perché il suo
Signore non ha mai smesso di cercare anche l’ultimo dei suoi figli magari persi
su qualche sentiero scosceso.
Serva. Non c’è modo migliore
di definirsi. Al servizio del mondo, al servizio della gioia dell’uomo senza
cedere alla tentazione di servirsene. Perché così è stato il suo Maestro. Non
in ricerca di onori, mai sotto i riflettori. Serva di chi la abita. Non
possiamo servire chi sta fuori dalla Chiesa e in nome di ciò dimenticare chi ci
sta accanto e condivide la nostra fede. Sarebbe un assurdo farci del male fra
noi in maldicenze o esclusioni e poi pretendere di servire il mondo: non ci
crederebbe nessuno. E poi serva fra i piccoli del mondo, piccola anch’essa,
perché fra loro Gesù ha deciso di tenere piantati i paletti della sua tenda.
Una Chiesa senza poveri, ma non messi al margine o sempre sotto al piedistallo
del nostro buon assistenzialismo, ma al centro, come figli prediletti come ci
invita a fare Paolo.
Sicura. Sogno una Chiesa che
ricorda sempre che nel Pane spezzato c’è la promessa di Gesù di restare fra noi
e proprio per questo possiamo dirci sicuri. Non supponenti. Aggrappati come ad
una roccia. Se ce ne dimentichiamo inseguiamo altre sicurezze, altri tesori. Dovremmo
inserire spesso fra i nostri peccati quello della paura che paralizza. Noi
abbiamo una Verità che ha in sé la forza del crocifisso risorto. E non è poco
per aprire le braccia a chi cerca una dimora sicura.
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