domenica 8 aprile 2012

s. Messa in coena Domini


Nella notte in cui fu tradito

È notte. La notte dove prendono forma di mostri gli incubi che abitano nel cuore dell’uomo. La notte del sangue e della follia, dove si prepara il male che si avventa rapace su ciò che è bello, giusto e vero per distruggere e fare razzia. È la notte del tradimento dell’amico, è la notte della solitudine.

Ostacolo, scoglio su cui si infrange la voglia di amare…eppure il Maestro in quella notte, proprio in essa, ama senza trattenere, ama proprio chi non se lo merita, si consegna, si gioca fino in fondo senza fare sconti a quella tensione di donarsi che da sempre è stata la trama dei suoi giorni. In quella notte, proprio in essa, prende il pane e lo spezza, prende il calice e vi versa il vino e ne fa corpo e sangue, preludio della croce, promessa di una presenza che non smette di accompagnare i suoi.

Da quella notte non c’è spazio per il fraintendimento, per l’ambiguità di un qualcosa lasciato irrisolto. Se vuoi trovare il Signore lo devi cercare nel Pane spezzato. Se vuoi capire il Signore non puoi prescindere da questa logica esagerata di dono, altra, che ci supera in ogni dimensione. È sangue di una nuova alleanza. È amicizia, perdono che cambia il cuore e lo rende disponibile alla relazione. 

Il tuo Dio è così: arreso, umile, povero, disarmato, consegnato, debole, ritratto per fare spazio alla tua libera decisione di amarlo e di seguirlo: perché l’amore non si impone se non per se stesso, non ha ragioni se non quelle della passione e della gratuità. Non puoi confonderlo con altro. Ogni altra idea è proiezione tua. È miraggio troppo umano il Dio che fa la rivoluzione, il Dio che parla con voce di tuono e spezza le reni dei suoi nemici. Il nostro è il Dio che si fa uomo e intreccia il suo sentiero al nostro fino a pagare di persona, è il Dio che avvince e cambia le cose dal di dentro.

Se celebro l’Eucarestia cambia lo sguardo che ho su di me. Io questa notte sento tutto il peso dei miei tradimenti, delle mie fughe, della mia atavica paura, antica come quella del primo uomo nel Giardino, che mi paralizza, che mi fa tenere la mano sempre un po’ chiusa perché non voglio perdere e perdermi. Questa notte comprendo che nel suo cuore ci sono anch’io. E io un Dio così non lo lascio più. In quell’abbraccio io mi posso perdere e posso gettare nell’abisso della sua Misericordia, e farmi sommergere, la voglia di emergere.  E a me non resta che adorare, portare la mano alla bocca per lo stupore e anch’io tacere e farmi cambiare. Era proprio quello che Dio stava chiedendo a Giona e che ora domanda anche a me.

Io posso vivere come arreso, alzare finalmente bandiera bianca e deporre, assieme con le armi con cui mi difendo, anche la maschera che rivesto per sembrare forte, sempre pronto a rispondere nel modo giusto a chi pretende che io sia altro. Io posso di fronte a lui, è lui che mi autorizza a farlo, essere debole, farmi trovare, sul crocevia fra speranza e disperazione, e lasciarmi amare finalmente per quello che sono. Posso dire di essere ferito, di essere un povero pellegrino e che la strada mi ha inciso sulla pelle cicatrici indelebili ma non sarò giudicato ma raccolto. E poi restituito al presente. Perché se ti riconcili con la tua debolezza, se comprendi di essere poca cosa ma teneramente amata puoi davvero fare la rivoluzione. Qui e ora noi possiamo essere incisivi con segni di novità.

Ma vorrei anche allargare l’orizzonte e sostare su un’altra conseguenza, questa decisamente comunitaria. Mi chiedo spesso come deve essere la Chiesa, la comunità dei credenti, che fa dell’Eucarestia il centro delle sue premure, che riconosce come suo Dio il Cristo che si fa Pane, arreso e crocifisso.

Pensavo a tre aggettivi che iniziano tutti per s  

Semplice. Essenziale, come il suo Dio. Non persa su sentieri della ricerca dell’immagine. Non arroccata in linguaggi e segni incomprensibili al mondo. Povera perché amata. Agile perché è custode del sogno di Dio sull’umanità. Aperta a chi è in ricerca perché il suo Signore non ha mai smesso di cercare anche l’ultimo dei suoi figli magari persi su qualche sentiero scosceso.   

Serva. Non c’è modo migliore di definirsi. Al servizio del mondo, al servizio della gioia dell’uomo senza cedere alla tentazione di servirsene. Perché così è stato il suo Maestro. Non in ricerca di onori, mai sotto i riflettori. Serva di chi la abita. Non possiamo servire chi sta fuori dalla Chiesa e in nome di ciò dimenticare chi ci sta accanto e condivide la nostra fede. Sarebbe un assurdo farci del male fra noi in maldicenze o esclusioni e poi pretendere di servire il mondo: non ci crederebbe nessuno. E poi serva fra i piccoli del mondo, piccola anch’essa, perché fra loro Gesù ha deciso di tenere piantati i paletti della sua tenda. Una Chiesa senza poveri, ma non messi al margine o sempre sotto al piedistallo del nostro buon assistenzialismo, ma al centro, come figli prediletti come ci invita a fare Paolo.

Sicura. Sogno una Chiesa che ricorda sempre che nel Pane spezzato c’è la promessa di Gesù di restare fra noi e proprio per questo possiamo dirci sicuri. Non supponenti. Aggrappati come ad una roccia. Se ce ne dimentichiamo inseguiamo altre sicurezze, altri tesori. Dovremmo inserire spesso fra i nostri peccati quello della paura che paralizza. Noi abbiamo una Verità che ha in sé la forza del crocifisso risorto. E non è poco per aprire le braccia a chi cerca una dimora sicura.   

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