Il
sole era tramontato. Così, per il computo ebraico dei giorni, era iniziata la
grande festa di Pasqua. Che qualcosa non sarebbe andata come al solito era
ormai evidente. Troppo insistenti quei richiami del Maestro alla sofferenza,
alla morte. Forse stava arrivando davvero l’ora del giudizio, il momento della
sintesi, della rivoluzione di quel Regno di cui avevano sentito parlare così
tante volte. Il rito della Pasqua era ormai pronto con il suo lungo memoriale
fatto di parole alternate a portate. Solo alla fine si accorsero che quella
sarebbe passata alla storia come cena
ultima perché il tempo si era fatto breve, davvero la luce non sarebbe
brillata per sempre e c’era l’urgenza di concludere, di tirare le somme, di
lasciare fra le loro mani un testamento. Posso solo immaginare i volti smarriti
dei discepoli di fronte al primo gesto che il Maestro quella sera volle
compiere. Li fece mettere a tavola e poi, tolte le vesti, presagio di una
spoliazione totale che sarebbe avvenuta solo qualche ora più tardi, si cinse un
asciugatoio alla vita e si mise a lavare i loro piedi. Quella era un’incombenza
talmente umiliante che era affidata solo agli schiavi e che la legge dei
romani, bontà loro, vietava dopo il
tramonto del sole. Il Maestro si stava facendo peggio di uno schiavo, una scena
davvero imbarazzante! E via via, in ginocchio, alzando lo sguardo per guardare
bene gli occhi di chi amava e si era scelto, passa da un discepolo all’altro,
da un piede all’altro…si mette in ginocchio davanti a Pietro e al suo cuore
buono ma ancora così pieno di intemperanze e di incoerenze, a Matteo e alla sua
storia di pubblicano rinato nel perdono, a Giacomo e a Giovanni e alla loro
irruenza quasi arrogante, si mette di fronte a Giuda che in quei giorni si era
fatto così silenzioso, cupo, scuro in volto, come chi sembra stia per tramare
qualcosa o, forse meglio, di chi si sente tradito e per questo è pronto a
sferzare un attacco. Solo alla fine capiranno che quel gesto racchiudeva, in
un’immagine, lo stile che da sempre ha contraddistinto l’agire del loro Maestro.
Gesù aveva vissuto in pura perdita di sé. Aveva messo al servizio degli altri
tutto di sé, non risparmiando intelligenza, passione, forze, parole. E il suo
tempo era il tempo di chi desiderava incontrarlo, parlargli, ricevere un segno.
Nulla per sé, tutto di sé per il Regno che è dei piccoli che lo accolgono. Ma
ogni testamento assomiglia anche a un testimone, come quello delle staffette,
da ricevere fra le mani e portare lungo la corsa in un tratto che spetta a me.
Come ha fatto lui così ora avrebbero dovuto fare anche loro. Correre nel mondo
senza pretese, con le mani aperte, senza trattenere ma solo donando e
donandosi. Questo era un impegno gravoso ma in cui sta la promessa di una
felicità senza fine. Pietro questo testimone non lo vuole. Si veste in quel
momento di falsa umiltà ma solo perché per sé voleva altro, avrebbe desiderato
potere, apparenza e ricchezza. Ma se il Maestro mi lava i piedi io non ho più il
diritto di pretendere altro.
Finisce
qui la Quaresima, questo itinerario che don Tonino Bello aveva definito dalla testa ai piedi perché inizia dalla
testa cosparsa di ceneri, la nostra, e termina ai piedi, quelli di un altro da
servire e da amare con tutto noi stessi. Ogni conversione deve portare al
coraggio e alla volontà di servire gli
altri altrimenti è un esercizio di sterile spiritualismo.
Mi
piace che nelle nostre comunità ci sia l’abitudine di staccare questo rito
dalla Messa in coena Domini per
viverlo con una certa calma particolarmente all’interno della comunità
oratoriana. A nome di tutti i grandi di questa parrocchia ho lavato i piedi dei
nostri piccoli amici e, con loro, immagino di averlo fatto ai ragazzi di poco
più grandi, agli adolescenti e ai giovani, alla parte migliore della nostra
comunità, anche a quei giovani che non vengono più a messa e non vogliono più
intrecciare i loro destini con questo oratorio.
Lavare
i piedi ai giovani significa servirli e non servirsene. Significa servire alla
loro gioia, servire il loro desiderio di felicità facendolo incontrare con il
Vangelo del Regno senza sconti anche perché non li accetterebbero, i giovani
sono meno di noi abituati al compromesso. Significa fare di loro buoni
cristiani e per questo onesti cittadini autori di una società più bella di
quella che hanno ricevuto in eredità. Significa essere adulti credibili. Significa
non piegarli alle esigenze della struttura ma piegare le strutture a loro
vantaggio. Significa educarli, farsi guide pazienti che sanno dove puntare ma che sanno anche che non c’è mai educazione
senza disponibilità a farsi educare a propria volta da loro che è il modo unico
per acquistare ai loro occhi autorevolezza. Significa non prendersi gioco dei
loro sogni. Significa spendere tempo e passione, regalare gratuità. Significa
farsi trovare lì dove sono loro e mettere a disposizione le nostre forze. Significa non disprezzarli mai, non averne
paura, non alzare barriere insormontabili. In poche parole, significa fare come
ha fatto Cristo con tutti i giovani che ha incontrato: camminava con loro verso
una meta di felicità alta.
E
io, in questo giorno dedicato ai preti perché in esso Gesù ha istituito con
l’Eucarestia il sacerdozio, vorrei chiedere perdono a tutti i giovani che non
ho saputo incontrare in gratuità e con cui non mi sono messo al passo per
mancanza di tempo o forse per pigrizia. Perdono per quando ho rappresentato
quella Chiesa istituzione preoccupata di sé e poco attenta a farsi incontrare e
a condividere il tesoro del Vangelo.
Con
voi, per il vostro esempio, e per voi per il dovere che ho di rispondere a Dio
del mio ministero, oggi vorrei, alla luce di quel sapendo queste cose sarete
beati se le metterete in pratica ripartire daccapo.
Nessun commento:
Posta un commento