domenica 8 aprile 2012

rito per l'accoglienza degli oli e la lavanda dei piedi


Il sole era tramontato. Così, per il computo ebraico dei giorni, era iniziata la grande festa di Pasqua. Che qualcosa non sarebbe andata come al solito era ormai evidente. Troppo insistenti quei richiami del Maestro alla sofferenza, alla morte. Forse stava arrivando davvero l’ora del giudizio, il momento della sintesi, della rivoluzione di quel Regno di cui avevano sentito parlare così tante volte. Il rito della Pasqua era ormai pronto con il suo lungo memoriale fatto di parole alternate a portate. Solo alla fine si accorsero che quella sarebbe passata alla storia come cena ultima perché il tempo si era fatto breve, davvero la luce non sarebbe brillata per sempre e c’era l’urgenza di concludere, di tirare le somme, di lasciare fra le loro mani un testamento. Posso solo immaginare i volti smarriti dei discepoli di fronte al primo gesto che il Maestro quella sera volle compiere. Li fece mettere a tavola e poi, tolte le vesti, presagio di una spoliazione totale che sarebbe avvenuta solo qualche ora più tardi, si cinse un asciugatoio alla vita e si mise a lavare i loro piedi. Quella era un’incombenza talmente umiliante che era affidata solo agli schiavi e che la legge dei romani,  bontà loro, vietava dopo il tramonto del sole. Il Maestro si stava facendo peggio di uno schiavo, una scena davvero imbarazzante! E via via, in ginocchio, alzando lo sguardo per guardare bene gli occhi di chi amava e si era scelto, passa da un discepolo all’altro, da un piede all’altro…si mette in ginocchio davanti a Pietro e al suo cuore buono ma ancora così pieno di intemperanze e di incoerenze, a Matteo e alla sua storia di pubblicano rinato nel perdono, a Giacomo e a Giovanni e alla loro irruenza quasi arrogante, si mette di fronte a Giuda che in quei giorni si era fatto così silenzioso, cupo, scuro in volto, come chi sembra stia per tramare qualcosa o, forse meglio, di chi si sente tradito e per questo è pronto a sferzare un attacco. Solo alla fine capiranno che quel gesto racchiudeva, in un’immagine, lo stile che da sempre ha contraddistinto l’agire del loro Maestro. Gesù aveva vissuto in pura perdita di sé. Aveva messo al servizio degli altri tutto di sé, non risparmiando intelligenza, passione, forze, parole. E il suo tempo era il tempo di chi desiderava incontrarlo, parlargli, ricevere un segno. Nulla per sé, tutto di sé per il Regno che è dei piccoli che lo accolgono. Ma ogni testamento assomiglia anche a un testimone, come quello delle staffette, da ricevere fra le mani e portare lungo la corsa in un tratto che spetta a me. Come ha fatto lui così ora avrebbero dovuto fare anche loro. Correre nel mondo senza pretese, con le mani aperte, senza trattenere ma solo donando e donandosi. Questo era un impegno gravoso ma in cui sta la promessa di una felicità senza fine. Pietro questo testimone non lo vuole. Si veste in quel momento di falsa umiltà ma solo perché per sé voleva altro, avrebbe desiderato potere, apparenza e ricchezza. Ma se il Maestro mi lava i piedi io non ho più il diritto di pretendere altro.

Finisce qui la Quaresima, questo itinerario che don Tonino Bello aveva definito dalla testa ai piedi perché inizia dalla testa cosparsa di ceneri, la nostra, e termina ai piedi, quelli di un altro da servire e da amare con tutto noi stessi. Ogni conversione deve portare al coraggio e alla volontà  di servire gli altri altrimenti è un esercizio di sterile spiritualismo.

Mi piace che nelle nostre comunità ci sia l’abitudine di staccare questo rito dalla Messa in coena Domini per viverlo con una certa calma particolarmente all’interno della comunità oratoriana. A nome di tutti i grandi di questa parrocchia ho lavato i piedi dei nostri piccoli amici e, con loro, immagino di averlo fatto ai ragazzi di poco più grandi, agli adolescenti e ai giovani, alla parte migliore della nostra comunità, anche a quei giovani che non vengono più a messa e non vogliono più intrecciare i loro destini con questo oratorio.

Lavare i piedi ai giovani significa servirli e non servirsene. Significa servire alla loro gioia, servire il loro desiderio di felicità facendolo incontrare con il Vangelo del Regno senza sconti anche perché non li accetterebbero, i giovani sono meno di noi abituati al compromesso. Significa fare di loro buoni cristiani e per questo onesti cittadini autori di una società più bella di quella che hanno ricevuto in eredità. Significa essere adulti credibili. Significa non piegarli alle esigenze della struttura ma piegare le strutture a loro vantaggio. Significa educarli, farsi guide pazienti che sanno dove puntare  ma che sanno anche che non c’è mai educazione senza disponibilità a farsi educare a propria volta da loro che è il modo unico per acquistare ai loro occhi autorevolezza. Significa non prendersi gioco dei loro sogni. Significa spendere tempo e passione, regalare gratuità. Significa farsi trovare lì dove sono loro e mettere a disposizione le nostre forze.  Significa non disprezzarli mai, non averne paura, non alzare barriere insormontabili. In poche parole, significa fare come ha fatto Cristo con tutti i giovani che ha incontrato: camminava con loro verso una meta di felicità alta.

E io, in questo giorno dedicato ai preti perché in esso Gesù ha istituito con l’Eucarestia il sacerdozio, vorrei chiedere perdono a tutti i giovani che non ho saputo incontrare in gratuità e con cui non mi sono messo al passo per mancanza di tempo o forse per pigrizia. Perdono per quando ho rappresentato quella Chiesa istituzione preoccupata di sé e poco attenta a farsi incontrare e a condividere il tesoro del Vangelo.

Con voi, per il vostro esempio, e per voi per il dovere che ho di rispondere a Dio del mio ministero, oggi vorrei, alla luce di quel sapendo queste cose sarete beati se le metterete in pratica ripartire daccapo.

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