sabato 29 maggio 2010

Solennità della SS: Trinità

Dicono sempre che non ci siano parole sufficienti per descrivere il Mistero della Trinità. Dicono sempre che sia un di più talmente irraggiungibile che non vale nemmeno la pena di rischiare l’avventura. Dicono sempre che la Verità di questo dogma la comprenderemo solo quando saremo in Paradiso e perciò, all’atto pratico, ora, possiamo farne anche a meno. Dicono…ma non è così! La Trinità non è un concetto, non è una strana legge matematica imposta dall’aridità di un dogma, ma l’essenza, la vita stessa di Dio e, più ti immergi in essa, più lasci che il cuore si slanci, e più la comprendi. Le cose che il cuore conosce sono le più importanti e si radicano nel quotidiano con una forza incredibile. E così la Trinità può diventare la grammatica, la prassi per la nostra vita, per noi e per la Chiesa intera.

E, a proposito di grammatica, proprio per andare contro la tesi che sulla Trinità si faccia fatica a parlare, ho pensato di stilare un abbecedario, una piccola guida per quando siamo a corto di pensieri sul nostro Dio

A come accoglienza. Dire che noi crediamo in Dio è troppo poco, noi crediamo in un Dio che è relazione fra tre persone, un amore che si fa accoglienza reciproca, ed è amicizia aperta a chi bussa alla loro porta. Abramo alle querce di Mamre si fa in due per accogliere quegli ospiti. Saranno loro ad accogliere la sua domanda di poter avere un figlio, un erede, una discendenza. Dio si fa in Tre pur di aprirci il suo cuore perché noi piantiamo i paletti della nostra vita in lui, plachiamo la sete della nostra felicità alla sua sorgente.

B come benedizione. Cosa si dicono il Padre il Figlio e lo Spirito, qual è l’oggetto del loro dialogo? Quando nei Vangeli Gesù ci parla del Padre e dello Spirito ha per loro sempre parole di benedizione e così il Padre per il Figlio, prima fra tutte le parole quella pronunciata sulle sponde del Giordano nel giorno del Battesimo. Lo Spirito ci ricorda chi è Gesù e in lui, come ci ricorda Paolo, noi possiamo ri-conoscere la verità di Gesù. Il loro amore si traduce in parole di benedizione. Ecco la prima considerazione pratica: anche noi siamo una cosa sola perché Chiesa ma qual è il tenore del nostro linguaggio? Forse dovremmo sprecare di più parole di benedizione per il fratello bandendo ogni lamentosità e superando l’inclinazione alla critica e alla mormorazione.

C come comunione. La vita in Dio è un’instancabile messa in comune di ogni cosa. La gioia e il dolore sono condivisi perché la prima si moltiplichi e la seconda si dimezzi. È un marchio di fabbrica talmente consolidato in casa Trinità che il modo più singolare di restare fra noi di Gesù è proprio la comunione con il suo Corpo e il suo Sangue. Da questa comunione dovrebbe sgorgare uno stile di vita più fraterno, decisamente comunitario, dove nessuno può dire non suo il carico dell’altro e ognuno essere collaboratore della gioia di tutti.

D come dire e dirsi fra loro. La comunicazione è importante. Lo abbiamo già detto a proposito dell’uso della parola nella Trinità. Va sottolineato sempre: quando non si trova il coraggio di dire e di dirsi si resta chiusi nel risentimento e presto la tristezza si impone. È meglio sbagliare in eccesso nella comunicazione che essere freddi e incomunicabili.

E come congiunzione, il discorso si riapre sempre. Dio non è uno, non due ma addirittura tre, perfezione assoluta! Con lui c’è sempre un segmento che unisce e che riapre il discorso. Alla sua vita si unisce anche la nostra e noi su lui possiamo scommetterci sempre.

F Figlio, prospettiva da cui scorgere la Trinità.

G gioia, quella piena che non è la banale felicità di un attimo ma la radicata certezza di essere sostenuti in ogni istante, raccolti in un abbraccio in cui non ci si può smarrire. Questo è Do in sé, è lui per noi.

H hanno e non trattengono, questa lettera è appendice alla parola gioia perché sia più piena. C’è più gioia nel dare che nel ricevere. A questa scuola dobbiamo sempre imparare.

I incomprensibile. Stiamo parlando da tempo della Trinità, forse un accenno alla sua dimensione comunque misteriosa dobbiamo farlo. Noi un Dio così proprio non ce lo immaginavamo. È sempre oltre la nostra logica. Il nostro non è il Dio dei filosofi ma Fuoco che si rivela a poco a poco e che comunque non possiamo trattenere nel pugno della nostra piccola mano.

L luce che guida i nostri passi, impegno mantenuto a fissare fra noi i paletti della loro tenda, come dice Gesù nel vangelo di oggi. E così non avremo più paura di nulla.

M moltiplicare. Si condivide per moltiplicare. È una sovversione di regole matematiche che riesce bene a Dio e che la Chiesa ha urgente bisogno di apprendere daccapo.

N nascita. Entrare nella Trinità è rinascere daccapo. Per questo nel battesimo siamo rinati nel suo nome.

O come opera. Noi siamo l’opera in cui si compie l’amore di Dio, noi creature siamo la Gloria di Dio. Vivere in pienezza fa sorridere Dio…anche perché a volte siamo proprio buffi!

P Padre, il nome del nostro Dio, non c’è Parola più dolce per descriverlo.

Q quando sarà il tempo anche noi entreremo in casa Trinità, saremo riconosciuti e sarà festa per sempre.

R come replicare con fantasia ogni giorno, nelle nostre case, l’amore che oggi contempliamo e celebriamo.

S Spirito santo

T Tavola imbandita dove c’è gioia e i diversi diventano una cosa sola.

U Uno per Uno per Uno fa sempre Uno. Quel per è segno che rende Tre una cosa sola. Il per, impegno di servizio e dono totale di sé fino a dare la vita. Se anche noi vogliamo essere una cosa sola non ci resta che imparare questa regola.

V Venga il tuo Regno, Padre, quello che abbiamo descritto a tratti è un miraggio, opera che solo la tua Grazia può realizzare in mezzo a noi.

Z come zero, siamo noi lo zero. Ma se davanti si mette l’Uno-in-Tre che è Dio anche noi diventiamo cifra preziosa e consistente, anche noi come comunità, somma di zero o poco più, possiamo diventare oasi in cui sostare ritrovando l’accesso alla vita in Dio.

domenica 23 maggio 2010

domenica di Pentecoste

Gli altri anni, nella Messa in cui amministravamo le prime comunioni ai nostri ragazzi, partivo sempre con una domanda provocatoria ovvero domandavo se era il caso di mettere nelle mani di bambini così piccoli un Mistero così grande. Con un briciolo di esperienza in più, in realtà mettendomi meglio in ascolto di questi nostri piccoli compagni di viaggio, leggendo la loro emozione come un aprirsi del cuore per fare più spazio a Gesù, devo ammettere che quella mia domanda forse era un po’ troppo razionaleggiante! E allora provo a riformularla: sapremo raccogliere la sfida educativa che Dio ci lancia consegnandosi alle mani dei nostri bambini? Dio, e la Bibbia e la Storia della Chiesa sono piene di esempi, parla al cuore dei ragazzi, anzi li sceglie come interlocutori privilegiati ma chiede a noi di accompagnarli, di proteggerli, di affiancarli e allo stesso tempo di saper testimoniare loro sempre più il brivido di un Signore così, che per Amore si spezza e si consegna totalmente. Dobbiamo allora uscire dall’incanto di questo rito decidendo, come famiglie e come comunità, di vivere ogni giorno nella scelta di fare nostra la vita di Gesù, anche noi essere come pane che si spezza e nutre con il dono di sé chi ci sta accanto, in altre parole di essere esempio per loro di una fede autentica che sfocia nella carità.

Oggi è giorno di Pentecoste, la storia la conosciamo... Cinquanta giorni dopo Pasqua, come Gesù aveva promesso, il Cenacolo in cui i discepoli erano rinchiusi pieni di timore e di dubbi viene sconquassato e riempito della presenza dello Spirito. Accostando questa pagina, mi afferra sempre una malinconia strana perché vorrei che ogni nostra celebrazione trasformasse questa nostra comunità in quel cenacolo, che il vento dello Spirito ci facesse sussultare e trasalire di gioia perché abbiamo fra le mani il segreto che ribalta le sorti e le prospettive della storia: Gesù è risorto e l’amore vince la morte. Anche noi, con poche parole e con una gioia contagiosa, potremmo essere la primavera della Chiesa per la gioia del mondo!

Non c’è nulla di più creativo dello Spirito creatore. Più che un trattato sullo Spirito, bisogna vederlo all’opera per comprenderne la sua Verità. Paolo, nell’epistola, ci dà un’idea di quante forme può assumere lo Spirito quando il cuore dell’uomo lo asseconda. Vorrei aggiungere la mia testimonianza di quando l’ho visto all’opera proprio dietro l’angolo di casa mia o in mezzo ai cortili del nostro oratorio e della nostra Parrocchia. Vi invito a fare altrettanto e ad allungare questa lista: potrebbe essere un modo per abbandonare la lamentosità ed essere profeti di liete notizie in un monod che sta perdendo, colpo a colpo, la Speranza!

È lo Spirito che ha mosso due giovani a scegliere di amarsi fino a dare la vita nella vocazione del matrimonio. È lo Spirito che spinge due sposi, avanti con l’età, a rimettersi in gioco e a dichiararsi ancora amore per essere fedeli alla promessa fatta in passato.

È lo Spirito che quella sera ha spinto quell’adolescente, così pieno di dubbi di fede, a fare silenzio e a mettersi in preghiera davanti a Gesù.

È lo Spirito che ispira quella ragazzina a tornare a casa, in mezzo a tanti problemi, dopo la Messa della domenica, per portare la luce della fede alla lampada dei suoi troppo smorta.

È lo Spirito che ispira il riscatto a quel giovane che ha già fatto il pieno di precedenti penali e che ora vuole imparare a volare alto aiutando chi è nel bisogno.

È lo Spirito la fedeltà di un sacerdote all’ordinario così pieno di monotonia o di prove frustranti.

È lo Spirito che fa fare follie agli educatori dei nostri ragazzi guadando lo sconforto e scommettendo sulla relazione senza risparmiarsi in nulla.

Ma le letture di oggi vogliono affinare il nostro fiuto e, ognuna di esse, ci racconta dove soprattutto puoi cogliere lo Spirito all’opera.

Nella comunione con Gesù. quando entri in preghiera, quando entri a casa Trinità e ti siedi alla tavola dell’Amore che sta fra il Padre e il Figlio, quando ti invade la pace perché scopri di essere amato e che non ti manca nulla, allora senti lo Spirito lavorare nel cuore e che la gioia è possibile.

La missione al mondo inventandosi nuove lingue. Quando scopri nella Chiesa, nella nostra comunità, in te stesso la voglia di essere missionario, di essere testimone allora ritrovi la forza dello Spirito che lotta perché la corsa del Vangelo non si fermi nelle ristrettezze e nelle paure. Lo Spirito dà alla Chiesa la capacità di inventarsi linguaggi nuovi per dire le cose di sempre, di porre segni chiari umili ed efficaci che parlano di Gesù all’uomo di oggi. Forse non si sta assecondando lo Spirito quando la Chiesa innesta la retromarcia per paura del mondo, quando si arrocca sulle difensive o si considera guardiana del faro e quando fa sfoggio di vecchie pratiche come ad un mercatino dell’antiquariato di provincia, quando marca il modulo del tradizionalismo perché non sa dare risposte nuove ai problemi di sempre.

Nella comunione fra i diversi ritrovi la potenza dello Spirito. Quando nella nostra comunità abbiamo il coraggio di superare le divisioni, di accogliere l’altro nel perdono e nell’amore che riscatta i suoi limiti, allora stiamo lavorando con il vento dello Spirito in poppa. Non saranno i progetti o le strategie pastorali più efficienti a restituirci il sapore del Vangelo ma la premura vicendevole fatta di sorrisi, di mani tese, di voglia di ricominciare daccapo anche se volentieri si getterebbe la spugna. Insomma, la scommessa delle relazioni ci porterà lontano.

Vieni, Spirito santo, e lotta in noi e per noi e a volte contro di noi per rinnovare la faccia della terra ma a partire sempre dalla nostra vita, dalle nostre case e dalla nostra comunità.

sabato 15 maggio 2010

VII di Pasqua

La riforma del lezionario ambrosiano ha portato anche qualche ritocco al calendario liturgico. Giovedì scorso abbiamo celebrato, precisamente nel 40 giorno dopo la Pasqua, la festa dell’Ascensione di Gesù al cielo e così questa domenica rimane sospesa fra l’Ascensione e la Pentecoste.

Prima di evidenziare qualche passaggio della Parola appena proclamata, vorrei gettare uno sguardo al Mistero dell’Ascensione anche perché, senza questo presupposto, forse lo scrigno dei testi di oggi resterebbe sigillato.

Gesù ascende al cielo, i discepoli lo vedono salire a Dio. In altre parole, Gesù entra nella Gloria, ritorna alla sorgente della sua vita, luce da luce torna al Fuoco che è Dio Padre. Il Maestro di Nazareth che ha annunciato il Vangelo sulle strade di Palestina, l’uomo che aveva rapito le folle con i suoi gesti, il profeta che aveva portato l’annuncio della salvezza ai dispersi e ai peccatori, il Messia che è stato crocifisso per amore e che sul Golgota ha ripagato con il perdono il male, non era solo un uomo, era Dio con noi, Dio in mezzo a noi. E questa certezza cambia tutta la nostra prospettiva su noi stessi, sui nostri fratelli, sulla storia e sul mondo. La nostra terra è stata visitata dalla presenza di Dio, non c’è più distanza: la terra e il cielo sono uniti in un unico abbraccio. Non c’è più solitudine, non c’è nulla che possa spaventarci: ora sappiamo che volto ha il nostro Dio, non è più un mistero insondabile e irraggiungibile ma un evento di prossimità totale, un abbraccio aperto, una mano tesa che si fa comunione, è il Padre di cui ci ha parlato il Figlio suo.

Ma poi c’è ancora da dire che il Figlio ascende al cielo con la sua umanità. Nella vita di Dio palpita ormai la nostra umanità. L’ascensione è anche la glorificazione dell’umanità. Il Verbo è carne per sempre, la sua incarnazione non è in opposizione alla sua divinità. E questo vuol dire, di conseguenza, che anche noi siamo chiamati a vivere in pienezza la nostra umanità, a dare valore al nostro corpo e alle sue mille sfumature espressive, che Gloria di Dio è l’uomo vivente e di una vita piena di dignità, felice, traboccante. La nostra fede esalta la nostra umanità e non la svilisce. Vivere in pienezza è anticipare il Paradiso, è lodare in ogni attimo Dio.

E infine è giusto ricordare che l’Ascensione apre un nuovo tempo fatto di attesa struggente che Gesù ritorni. La Chiesa celebra con i segni della Liturgia la presenza di colui che è Assente e che ritornerà. Di tanto in tanto ci deve stringere il cuore la malinconia che nasce dal desiderio di vedere Gesù e i tratti del suo volto, di poterlo stringere con le nostre mani, e, in questa attesa, il cuore deve restare indomabile e ardente.

Vorrei considerare le letture di oggi come un prontuario ricco di attenzioni per ognuno e per la Chiesa in questo tempo che si è aperto con l’Ascensione di Gesù.

1 Occhio al cielo, occhi al cielo! Mi sembra questo il primo suggerimento che prendo da quanto si dice alla fine della prima lettura di Stefano o anche prendendo l’invito di Paolo a fissare il volto di Cristo glorificato. Guardare il cielo significa uscire dai nostri ripiegamenti, vuol dire andare oltre la disperazione, è uscire dal nero dello scoraggiamento e della lamentosità costante. Noi abbiamo una speranza, noi abbiamo un rimando oltre, per noi il tempo gioca a favore – si sa che ride bene chi ride ultimo – noi siamo quelli per cui c’è sempre un tempo supplementare nella partita della storia e che sanno che la palla torna sempre al centro aldilà dei goal fatti o subiti. Tutto è nelle mani di Gesù, in ogni cosa c’è il filo rosso della sua Provvidenza. Accorgersi di questo significa iniziare a credere profondamente che a noi non manca nulla e si sta sulle correnti della storia a galleggiare come un turacciolo sull’acqua. Gesù tira i cardini di ogni cosa nella direzione del suo Amore.

2 piedi sulla terra! Se è vero che il cristiano deve avere un po’la testa frale nuvole, è anche vero che non può essere sradicato da questa terra ma deve calpestare bene la sua polvere ed essere protagonista fino infondo della storia a cui è chiamato a partecipare. Penso alla testimonianza forte di Stefano che non può tacere di fronte all’ipocrisia dei potenti. Il credente è voce profetica, scomoda a tratti, per i potenti di ogni tempo, contro chi schiaccia il debole con la sua prepotenza, contro chi svilisce la Verità insabbiandola nella menzogna. A noi è chiesto di assumerci la nostra parte di responsabilità consapevoli che quanto non avremo fatto noi nessun altro potrà portarlo avanti al nostro posto. Dai giorni in cui Gesù non è più visibile fra noi non può mancare fra i credenti il tono della sua voce forte. Ricordiamoci che ognuno di noi è stato battezzato come sacerdote, re e profeta: ci sono parole scomode e poco accomodanti che devono tornare a riecheggiare nel parlare quotidiano dei cristiani.

3 E infine, dalla intensa preghiera di Gesù al Padre per i suoi amici, in quel cenacolo prima della Pasqua, vorrei cogliere l’invito alla Chiesa ad essere immagine della Trinità, uniti come è unito dall’amore il Padre al Figlio e insieme allo Spirito. La comunione nella comunità non è un accessorio secondario ma una vera e propria riprova della nostra fede. Amarsi gli uni gli altri, lavarsi i piedi fra noi nel perdono e nell’accoglienza reciproca – perché non si può nascondere che nella Chiesa non abitano i perfetti e che il perdono è davvero la chiave risolutiva dei tanti conflitti – nel servizio disinteressato, è l’immagine viva del Risorto, una tavola accogliente per incontrare Gesù vivo e all’opera nella storia e così riusciremo a lenire, amandoci fra noi, la nostalgia del suo volto.

domenica 9 maggio 2010

sesta di Pasqua

Celebriamo in questa domenica, che ci avvicina alla Pentecoste e il Vangelo, tutto centrato sul tema dello Spirito ce lo ricorda, la festa della nostra Parrocchia.
Il tema che insieme abbiamo scelto come guida è Un solo Signore, due vocazioni per continuare a dare eco all’anno sacerdotale indetto dal Papa non solo per lodare il Signore per il ministero dei sacerdoti ma anche per riscoprire il sacerdozio che tutti ci accomuna, la capacità cioè di essere nel mondo per santificarlo, per renderlo più simile al paradiso, anche nella vocazione al matrimonio e dunque alla famiglia.
L’augurio che possiamo fare alla nostra comunità è dunque che sia casa della comunione fra i diversi in cui riconosciamo come sorgente per la nostra vita il Signore Risorto, è questa via alternativa di comunione che ci renderà affascinati al quartiere e al mondo. E poi che la nostra sia anche casa delle vocazioni, in cui trovano compimento le scelte di vita dei grandi e possano maturare gli orizzonti di definitività dei nostri giovani. Senza una vocazione accolta e poi vissuta fino in fondo non c’è gioia.
Vorrei ora concentrarmi sul brano di Vangelo appena ascoltato. Aldilà dell’impatto alquanto difficile - qui siamo in una sezione del Vangelo di Giovanni in cui il discorso spicca il volo e ci conduce ad altezze di riflessione e di contemplazione da vertigine - ha due segreti da consegnarci.
Proviamo anzitutto a chiederci che cosa dice questa pagina.
I capitoli dal 13 al 17 sono detti i discorsi di addio perché precedono il racconto della Pasqua. In questi versetti Gesù parla di un’epoca nuova che si inaugura dopo la sua glorificazione, quella dello Spirito, che è in profonda continuità con il tempo della sua missione nel mondo. Lo Spirito illuminerà la mente dei discepoli, susciterà la fede, li aiuterà a rileggere la croce non come un incidente di percorso ma, unita alla risurrezione, come la rivelazione dell’amore di Dio al mondo.
Tre sono i verbi con cui è descritta l'azione dello Spirito.
1 guidare alla Verità. Lo Spirito è la mano stretta di Dio alla nostra che ci conduce in questo cammino di scoperta della Verità. La Verità la si conosce a poco a poco. Più ti giochi con tutto te stesso e più la comprendi. In ognuno di noi c’è un desiderio di Verità ma c’è anche la capacità di riconoscerla, discernerla e accoglierla.
2 lo Spirito parla per autorità di Gesù, è l'interprete fedele del suo messaggio
3 comunicherà ciò che sta per avvenire. Darà cioè ai credenti la consapevolezza profonda degli avvenimenti che stanno per accadere a Gesù e guiderà il discernimento dei discepoli negli avvenimenti della storia.
E dopo questo primo passaggio, il brano di oggi risponde ad una domanda: lo Spirito assicura la fede dei discepoli dopo il ritorno di Gesù nella vita del Padre, ma come sarà in sostanza il nuovo rapporto fra loro e Gesù?
La risposta è preceduta da una frase "misteriosa" "un poco ancora e non mi vedrete, un po' ancora e mi vedrete" che si ripete per tre volte prima di essere interpretata da Gesù stesso. I discepoli potranno rivedere Gesù dopo i giorni della Pasqua in cui sarà tolto a loro. Saranno giorni di gioia e di felicità piena, compiuta, dopo giorni di tristezza e di morte. In effetti loro faranno questa esperienza straordinaria che a noi non è dato di vivere ma che è solo il preludio della nuova presenza del Risorto nel presente di sempre. Non ci sarà mai un momento in cui Gesù non accompagnerà la sua Chiesa e noi suoi fratelli. Gli occhi dei discepoli e i nostri devono riconoscerlo. Il presente, per questo, diventa tempo di gioia infinita.
Ed ora eccoci ai due segreti che questo brano ci comunica.
Lo Spirito ci chiede di indossare delle lenti speciali per giudicare il tempo presente. Se è vero che ci introduce alla Verità, ci guida nella storia, ci aiuta a comprendere che anche qui e ora il Padre ci ama quanto la vita stessa del suo unico Figlio, noi dobbiamo guardare noi stessi, i nostri vicini, il mondo intero con uno sguardo di speranza e di benevolenza, di amore che tutto abbraccia, tutto perdona, tutto rinnova. Quali atteggiamenti di lamentosità o di critica negativa devo smettere per assecondare in me lo Spirito?
Il secondo segreto nasce proprio dalla certezza che Gesù è vivo ed è all'opera – ma noi ci crediamo davvero nel Risorto? – ed è un invito alla gioia più profonda, a lasciarci andare alla danza, alla certezza che non siamo soli e che le mani del Risorto stanno sul timone della nostra vita e della nostra storia con fermezza e audacia.

sabato 1 maggio 2010

quinta di Pasqua

Ogni Domenica Gesù, proprio qui, davanti a noi, in mezzo a noi, dona la sua vita per Amore. Tutto è racchiuso, come in un prezioso testamento, in quel Pane spezzato e in quel Vino versato. L’amore che dona la vita senza trattenere nulla per sé è la Gloria di Gesù. Mentre si perde, lui ritrova la vita; mentre scende fino al punto più basso che nessuno potrà più strappargli, lui si innalza; con le mani ferite e confitte a un legno segno di impotenza e di totale abbandono lui ci dichiara la sua voglia sfrenata di stringere Alleanza senza trattenere nulla per sé; mentre diventa debolezza assoluta ci rivela l’Amore che è potenza di Dio! E così solca il sentiero della nostra vita e le sue orme sono un invito a seguirlo, a fare anche noi così, a fare dell’amore che si perde la cifra della nostra esistenza per non permettere che si consumi nella banalità.
La messa è sempre un azzardo per la nostra vita; è un momento ad alto voltaggio, sconsigliato per chi ha il cuore debole! Ha in sé una potenza trasformante davvero pericolosa! Affiggerei all’ingresso della chiesa un bel cartello triangolare ad indicare pericolo…ben visibile però anche all’uscita! Infatti, se solo lasciassimo spazio allo Spirito creatore e creativo che vuole modellare in noi l’immagine di Gesù, potremmo diventare persone scomode a noi stessi anzitutto, alle nostre famiglie, al quartiere e alla città perché vorremmo cambiare realmente le cose nella logica del servizio che si fa dono, fosse anche aggiungere solo una goccia all’oceano! Potremmo diventare persone di Carità, profeti di uno stile che rivela un marchio di fabbrica originale creati per amare, costi quel che costi, sentinelle di un mondo più giusto che verrà senz’altro. Inventiamoci uno stile tutto nostro per dire che amiamo Gesù e che vogliamo amare come Gesù. C’è un piccolo servizio che in casa nessuno vuole fare? Amiamo, sbrighiamolo noi e saremo a sua immagine! C’è un vicino rompiscatole che nessuno sopporta? Amiamo, facciamogli qualche favore e saremo a sua immagine! C’è qualcuno con il volto triste che ci sta accanto sul metrò? Amiamo, sorridiamogli, e saremo a sua immagine! Ci ritroviamo soli proprio mentre vorremmo essere consolati? Amiamo, cerchiamo noi qualcuno da accogliere e saremo a sua immagine? La vita ci scarnifica con il suo ritmo folle e frenetico? Amiamo e il nostro tempo si dilaterà come una tenda per accogliere ogni fratello, e saremo a sua immagine!
La pagina di Paolo resta un parametro costante per la nostra capacità di amare. Nella disputa che c’era a Corinto, per cui tutti volevano primeggiare sugli altri in base alla singolarità dei propri carismi, Paolo ricorda che nulla è più grande della Carità e ne tratteggia i lineamenti. Fra tutte le cose che Paolo elenca io, per carenza personale, vorrei sottolineare che l’amore non tiene conto del male ricevuto e che tutto scusa. Credo davvero che il perdono sia il volto più espressivo della Carità. Significa rimettere all’altro il suo debito verso di noi, ridargli libertà, riconoscere che la sua persona è sempre di più dello sbaglio commesso, è saper essere come Dio che si getta dietro le spalle, come un anello in mezzo al mare, il male che abbiamo commesso. Fra tutti i servizi, quello del perdono, è il più grande che possiamo renderci gli uni gli altri, è la dote di cui dovremmo essere equipaggiati sempre quando decidiamo di far parte di una comunità. Il perdono dà la vita, è la risurrezione delle relazioni, è il filo che tesse la trama della nostra felicità: il rancore infatti paga poco, forse nell’immediato, ma alla lunga ci distrugge. Coraggio, allora! Non aspettiamo altro tempo se abbiamo qualcuno con cui dobbiamo riconciliarci. Ogni munito di attesa è tempo perso, per sempre!
Ma l’amore non è un solitario da giocare tristemente al tavolino delle nostre occupazioni. Se diventa un’avventura comunitaria è ancora più bello, acquista più spessore, è ancora più arricchente. Quando leggiamo una pagina come quella di Atti dovrebbe dilagare in noi un pizzico di nostalgia per quello che i nostri fratelli della prima ora vivevano. Insieme spezzavano il Pane e poi non permettevano che qualcuno restasse nel bisogno e nell’indigenza. Si erano inventati una forma molto concreta di amore condiviso. Non si può celebrare la Messa che ci rende un corpo solo in Cristo e poi, fuori di qui, sapere che proprio alcuni nostri fratelli stanno perdendo il posto di lavoro, altri la casa senza riguardi nei confronti anche di bambini, avvertire come un urlo soffocato da un’immensa confusione il dramma dell’emergenza educativa, vedere sgretolarsi il tessuto della nostra città nella solitudine dei nostri vecchi, permettere la discriminazione dei fratelli extracomunitari senza riguardi per la dignità della loro persona e continuare a restare ripiegati sul nostro interesse, o lasciare che sia solo qualcuno ad occuparsene. La Chiesa e la nostra comunità hanno una responsabilità per questa nostra storia, e noi dobbiamo assumerne l’onere per non essere travolti dall’accusa di omissione.
Con il nostro amore e con l’amore che come comunità sapremo regalare noi continuiamo ad essere presenza viva di Cristo nella storia, leniremo la malinconia di vedere il suo volto che ogni uomo si porta dentro.