sabato 15 maggio 2010

VII di Pasqua

La riforma del lezionario ambrosiano ha portato anche qualche ritocco al calendario liturgico. Giovedì scorso abbiamo celebrato, precisamente nel 40 giorno dopo la Pasqua, la festa dell’Ascensione di Gesù al cielo e così questa domenica rimane sospesa fra l’Ascensione e la Pentecoste.

Prima di evidenziare qualche passaggio della Parola appena proclamata, vorrei gettare uno sguardo al Mistero dell’Ascensione anche perché, senza questo presupposto, forse lo scrigno dei testi di oggi resterebbe sigillato.

Gesù ascende al cielo, i discepoli lo vedono salire a Dio. In altre parole, Gesù entra nella Gloria, ritorna alla sorgente della sua vita, luce da luce torna al Fuoco che è Dio Padre. Il Maestro di Nazareth che ha annunciato il Vangelo sulle strade di Palestina, l’uomo che aveva rapito le folle con i suoi gesti, il profeta che aveva portato l’annuncio della salvezza ai dispersi e ai peccatori, il Messia che è stato crocifisso per amore e che sul Golgota ha ripagato con il perdono il male, non era solo un uomo, era Dio con noi, Dio in mezzo a noi. E questa certezza cambia tutta la nostra prospettiva su noi stessi, sui nostri fratelli, sulla storia e sul mondo. La nostra terra è stata visitata dalla presenza di Dio, non c’è più distanza: la terra e il cielo sono uniti in un unico abbraccio. Non c’è più solitudine, non c’è nulla che possa spaventarci: ora sappiamo che volto ha il nostro Dio, non è più un mistero insondabile e irraggiungibile ma un evento di prossimità totale, un abbraccio aperto, una mano tesa che si fa comunione, è il Padre di cui ci ha parlato il Figlio suo.

Ma poi c’è ancora da dire che il Figlio ascende al cielo con la sua umanità. Nella vita di Dio palpita ormai la nostra umanità. L’ascensione è anche la glorificazione dell’umanità. Il Verbo è carne per sempre, la sua incarnazione non è in opposizione alla sua divinità. E questo vuol dire, di conseguenza, che anche noi siamo chiamati a vivere in pienezza la nostra umanità, a dare valore al nostro corpo e alle sue mille sfumature espressive, che Gloria di Dio è l’uomo vivente e di una vita piena di dignità, felice, traboccante. La nostra fede esalta la nostra umanità e non la svilisce. Vivere in pienezza è anticipare il Paradiso, è lodare in ogni attimo Dio.

E infine è giusto ricordare che l’Ascensione apre un nuovo tempo fatto di attesa struggente che Gesù ritorni. La Chiesa celebra con i segni della Liturgia la presenza di colui che è Assente e che ritornerà. Di tanto in tanto ci deve stringere il cuore la malinconia che nasce dal desiderio di vedere Gesù e i tratti del suo volto, di poterlo stringere con le nostre mani, e, in questa attesa, il cuore deve restare indomabile e ardente.

Vorrei considerare le letture di oggi come un prontuario ricco di attenzioni per ognuno e per la Chiesa in questo tempo che si è aperto con l’Ascensione di Gesù.

1 Occhio al cielo, occhi al cielo! Mi sembra questo il primo suggerimento che prendo da quanto si dice alla fine della prima lettura di Stefano o anche prendendo l’invito di Paolo a fissare il volto di Cristo glorificato. Guardare il cielo significa uscire dai nostri ripiegamenti, vuol dire andare oltre la disperazione, è uscire dal nero dello scoraggiamento e della lamentosità costante. Noi abbiamo una speranza, noi abbiamo un rimando oltre, per noi il tempo gioca a favore – si sa che ride bene chi ride ultimo – noi siamo quelli per cui c’è sempre un tempo supplementare nella partita della storia e che sanno che la palla torna sempre al centro aldilà dei goal fatti o subiti. Tutto è nelle mani di Gesù, in ogni cosa c’è il filo rosso della sua Provvidenza. Accorgersi di questo significa iniziare a credere profondamente che a noi non manca nulla e si sta sulle correnti della storia a galleggiare come un turacciolo sull’acqua. Gesù tira i cardini di ogni cosa nella direzione del suo Amore.

2 piedi sulla terra! Se è vero che il cristiano deve avere un po’la testa frale nuvole, è anche vero che non può essere sradicato da questa terra ma deve calpestare bene la sua polvere ed essere protagonista fino infondo della storia a cui è chiamato a partecipare. Penso alla testimonianza forte di Stefano che non può tacere di fronte all’ipocrisia dei potenti. Il credente è voce profetica, scomoda a tratti, per i potenti di ogni tempo, contro chi schiaccia il debole con la sua prepotenza, contro chi svilisce la Verità insabbiandola nella menzogna. A noi è chiesto di assumerci la nostra parte di responsabilità consapevoli che quanto non avremo fatto noi nessun altro potrà portarlo avanti al nostro posto. Dai giorni in cui Gesù non è più visibile fra noi non può mancare fra i credenti il tono della sua voce forte. Ricordiamoci che ognuno di noi è stato battezzato come sacerdote, re e profeta: ci sono parole scomode e poco accomodanti che devono tornare a riecheggiare nel parlare quotidiano dei cristiani.

3 E infine, dalla intensa preghiera di Gesù al Padre per i suoi amici, in quel cenacolo prima della Pasqua, vorrei cogliere l’invito alla Chiesa ad essere immagine della Trinità, uniti come è unito dall’amore il Padre al Figlio e insieme allo Spirito. La comunione nella comunità non è un accessorio secondario ma una vera e propria riprova della nostra fede. Amarsi gli uni gli altri, lavarsi i piedi fra noi nel perdono e nell’accoglienza reciproca – perché non si può nascondere che nella Chiesa non abitano i perfetti e che il perdono è davvero la chiave risolutiva dei tanti conflitti – nel servizio disinteressato, è l’immagine viva del Risorto, una tavola accogliente per incontrare Gesù vivo e all’opera nella storia e così riusciremo a lenire, amandoci fra noi, la nostalgia del suo volto.

Nessun commento:

Posta un commento