domenica 11 agosto 2013

XII dopo Pentecoste

Una storia che è ad andamento sinusoidale e i vuoti del peccato dell’uomo sono colmati dalla presenza di un Dio Alleato
La storia dell’uomo ha un andamento tutt’altro che lineare! Ci sono stati dei tempi in cui sembrava di galoppare in avanti alla conquista di mete inimmaginabili, attimi in cui sembrava di avere a portata di mano l’utopia della felicità come evento di popolo. Ma fra questi pieni ci sono stati molti, forse troppi vuoti  in cui la barbarie, la violenza, la negazione del Vero e di conseguenza del Giusto e del Bello hanno gettato l’umanità in un baratro di oscurità. Proprio fra questi pieni e vuoti si incide a chiare lettere la Storia della Salvezza. Con uno sguardo capace di penetrare le apparenze ci si può accorgere delle orme che il passaggio di Dio ha lasciato lungo la storia e i tanti vuoti del peccato e dell’ingiustizia sono stati colmati da un amore che ha sempre riaperto la partita, un amore che è Promessa di un’Alleanza che non viene mai meno.
Mi sembra questa la premessa necessaria per provare a sottolineare qualcosa della Parola ascoltata questa domenica da cui emergono come forze contrapposte la violenza dell’uomo e lo sgomento che essa genera e la speranza che Dio continua a seminare fra i suoi.
Il clamore della distruzione del Tempio…2 segni di speranza: il profeta Geremia e il resto d’Israele perché Dio non resta imprigionato tra le colonne del Tempio.
Del Tempio di cui si parla nella prima lettura a noi non rimane pressoché nulla. Il muro davanti a cui oggi si prega a Gerusalemme, il Muro del Pianto, è parte dell’ampliamento voluto nei primi anni del I secolo dal re Erode al secondo Tempio ricostruito dopo la deportazione a Babilonia. Dunque ci è difficile immaginare come fosse; qualche suggestione ce la offre la prima lettura parlandoci delle sue ricchezze trafugate, ricchezze che, come racconta la Bibbia, lasciavano a bocca aperta ogni visitatore. Il Tempio era il centro del culto ebraico, il luogo della memoria dove era custodita l’Arca, la casa dove Dio, grande e inaccessibile, aveva comunque deciso di prendere dimora. Comprendiamo dunque perché la sua distruzione ha generato sgomento e smarrimento: significava la fine di un’Alleanza, l’oscuramento di un passato che rendeva Israele unico, la cancellazione della memoria e forse la dimostrazione che Dio non solo si era allontanato, aveva maledetto la sua eredità ma, come dicono gli empi, che neppure esiste. È la capitolazione di una storia troppo bella per essere vera sotto i piedi dei violenti. Ma se si va appena sotto la superficie di questa vicenda, ad un tratto, trapelano due segni di speranza, come un bandolo di una matassa intricatissima ma, che afferrato, può aiutarci a comprendere verso quale direzione Dio stava spingendo la storia. Il primo segno è il profeta Geremia che, anche se non presente in queste righe, ne è il protagonista. Geremia, in obbedienza alla voce di Dio, facendosi parte di esso, è stato voce di contraddizione per il popolo. Anche pagando di persona non smetteva di richiamare a Israele troppo sicuro di sé la via della Giustizia invitando alla conversione. Ma nei giorni della desolazione, di questa strage, della deportazione non si tira indietro, rimane con la sua gente e annuncia la Speranza, racconta della tenerezza di un Signore che non può dimenticare il suo popolo perché sarebbe come dimenticare se stesso. Ed è proprio da questa dichiarazione di misericordia che Israele può ritrovare anche la sua identità e immaginare un futuro possibile in quella terra che gli è stata tolta. Il secondo segno sono i poveri e gli ultimi che vengono lasciati nella Terra. Per i grandi di Babilonia non contavano nulla  e non meritavano di entrare nei ranghi del regno. Rimangono a coltivare la terra, anello di congiunzione di un passato che è anche presente e promessa di futuro, baluardo che dice di un Dio che non guarda alle apparenze e che fa delle pietre scartate dall’’uomo una costruzione nuova e solidissima; di un Dio che non si lascia imprigionare fra le belle pietre ma che è libero, zingaro, nomade in mezzo al suo popolo e sempre capace di cose nuove.
In un tempo come il nostro, di fronte al crollo di certe sicurezze, davanti allo sgomento per la perdita di senso…
Non voglio forzare la Parola e renderla uno schema con cui leggere il nostro presente, eppure sento che è capace di parlare anche a noi e al nostro tempo, alla nostra storia fatta di pieni e di vuoti molto simili a questo racconto. Avvertiamo ormai che siamo in un tempo di passaggio – di crisi per restare alla lettera – dove non si affaccia ancora con chiarezza l’orizzonte ma sentiamo sulla pelle il brivido per il crollo di tante sicurezze che puntellavano la nostra vita e la nostra società e anche la Chiesa; sentiamo nel cuore il tonfo che sale dalla caduta del Senso della vita che viene smantellato giorno dopo giorno, immolato sull’altare di privatismi e di egoismi. Ora le possibilità sono due: possiamo rintanarci in noi stessi e rimanere alla lunga vittime della paura oppure possiamo metterci in ascolto dello Spirito e chiederci dove sono le orme del passaggio di Dio, di un Dio libero e altro rispetto a noi ma che non si è stancato di scrivere per noi le pagine bellissime della sua storia della Salvezza e che ci sta preparando un orizzonte promettente.

E scopriremo anche noi che Dio abita nel cuore dei profeti. Di uomini e di donne che in modo vero ci stanno graffiando richiamandoci a ciò che conta. Abita fra i poveri che non contano nulla… scrive così don Tonino Bello: “Dio non sempre si lascia incantare da chi sa parlare meglio. Non sempre si fa sedurre dal profumo dell'incenso, più di quanto non si accorga del tanfo che sale dai sotterranei della storia. Desidero rivolgermi a voi [poveri], perché sono convinto che il rinnovamento spirituale può partire solo da coloro che non contano niente”. E ci invita alla conversione, a passare dalla loro parte per ritrovare il suo volto e camminare con lui verso un mondo nuovo. 

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