domenica 12 maggio 2013

settima di Pasqua

La scelta liturgica di riportare la data dell’Ascensione al giovedì della VI settimana di Pasqua, a 40 giorni dalla Risurrezione, non solo ci fa ripercorrere la precisa scansione del tempo secondo il racconto del Nuovo Testamento ma ci permette in questa domenica di sostare ancora sul significato dell’Ascensione prima di avviarci alla celebrazione della Pentecoste.

L’Ascensione al cielo è la metafora che Luca utilizza per dire che Gesù ha smesso di apparire e di istruire i suoi e che è tornato alla gloria del Padre, lì da dove il suo Mistero ha preso forma. Nessun passaggio della sua vita è stato casuale, nemmeno la croce; nulla è stato un incidente di percorso, un qualcosa di non voluto, ma era parte del tracciato di una parabola che profumava d’amore: proprio per amore Dio ha deciso di farsi uomo, per amore ha camminato sulle nostre strade, ha permesso che la polvere della terra sporcasse i suoi piedi, per amore a un certo punto ha deciso di ritrarsi e di consegnarsi, per amore il Padre lo ha risuscitato perché il seme morendo, spezzandosi, soffrendo doveva portare frutto.

Sotto un’altra prospettiva poi l’Ascensione ci rivela che Gesù è un vero maestro, uno che intuisce che ad un certo punto bisogna ritrarsi e sparire perché il discepolo possa camminare sui suoi piedi e percorrere un tratto di strada più lungo. Ho letto da qualche parte che:
i figli sono come aquiloni, passi la vita a cercare di farli alzare da terra. Corri e corri con loro fino a restare tutti e due senza fiato. Come gli aquiloni finiscono a terra, e tu rappezzi e conforti, aggiusti e insegni. Li vedi sollevarsi nel vento e li rassicuri, presto impareranno a volare. Infine sono in aria: gli ci vuole più spago e tu seguiti a darne e a ogni metro di corda che sfugge dalla tua mano il cuore ti si riempie di gioia e di tristezza insieme. Giorno dopo giorno l'aquilone si allontana sempre di più e tu senti che non passerà molto tempo prima che quella bella creatura spezzi il filo che vi unisce e si innalzi, come é giusto che si sia, libera e sola Allora soltanto saprai di avere assolto il tuo compito.
Il discepolo ha fra le mani la cassetta degli attrezzi riempita di tutti gli strumenti necessari: ora toccherà a lui scegliere quali utilizzare per essere fedele a quel Vangelo che lo ha avvinto. E dovrà farlo con tutta la creatività necessaria.

La Parola mi sembra ci consegni almeno tre indicazioni per non smarrire la nostra verità di discepoli e apostoli, pellegrini chiamati a fare di Gesù la nostra vita per l’oggi, gettati nella storia per viverla come uomini avvinti dalla buona notizia.

1 avere la testa fra le nuvole. L’idea me la suggerisce Stefano nella lettura di Atti…mentre lo accusano, gli si lanciano contro, lo uccidono, tiene fisso lo sguardo al Cielo. Credo che il discepolo debba portare dentro di sé una nostalgia profonda per il Cielo. Di tanto in tanto ci dovrebbe afferrare la malinconia, ma che in realtà è un desiderio, di poter vedere il volto di Gesù, di un giorno in cui la storia arriverà non alla sua fine ma al Fine che è l’incontro con un Signore buono che è tenerezza, perdono, misericordia. Ma non solo: avere la testa fra le nuvole significa avere la capacità di relativizzare ogni cosa sul parametro dell’eterno. C’è un relativismo che è dannoso ma ce n’è uno che ha ispirato la gioia dei santi, che ha smosso le follie degli uomini di Dio che profumavano di futuro e che agli occhi dei loro contemporanei erano solo dei perdenti. Infine, avere la testa fra le nuvole significa per il mondo inseguire un’isola che non c’è, lottare per un’utopia, avere una smodata passione per la poesia. Ma agli occhi di Dio significa darsi il parametro del Regno che già ora fiorisce sulla terra.

2 Testa fra le nuvole…ma piedi ben saldi a terra. Il credente, lo dicevamo prima, avanza di un miglio in più rispetto a chi lo ha preceduto perché asseconda la dinamica di un Regno che, pur se non ancora in modo definitivo, già cresce. E l’oggi attende uomini non disincarnati ma profondamente legati a questa terra, che, pur sapendo di non appartenerle, si sentono in dovere di lasciarla più bella di come l’hanno trovata. Uomini discepoli di un Maestro che si è incarnato nella storia e che ha continuato a incarnarsi sporcandosi sempre di più le mani con la storia. Il credente dunque parla di politica e magari la fa con il piglio di chi vuole servire, lotta per un’economia che sia etica, che non uccida la dignità dell’uomo, si interessa della sua città e non si tira indietro se qualcuno bussa alla sua porta, abbatte il muro dell’indifferenza perché sa che ogni uomo è suo fratello e ognuno ha diritto a piazzare i paletti della sua tenda nel suo cuore.

3 e infine, in particolare mi riferisco al Vangelo, il Maestro ci mette fra le mani un’altra consegna, luogo che deve diventare sempre più evidenza della nostra sequela a lui: la comunità. Una comunità e non semplicemente un gruppo perché la prima ha la forma della cordata mentre nel secondo c’è solo una meta comune e poco importa se ci si arriva assieme! Una comunità che deve portare come marchio di fabbrica quello brevettato a Casa Trinità dove i diversi si amano e l’uno è per l’altro; una comunità dove non posso pensare alla mia felicità senza quella dell’altro, dove accolgo l’altro non nonostante i suoi limiti ma a partire da questi, dove smaschero la mia debolezza nella certezza di essere amato per quello che sono, dove i piccoli sono realmente il cuore, la motivazione che attrae ogni scelta.

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