E così la Chiesa vive in sé questa contraddizione di termini che disorienta anche le leggi sociologiche di base che indicano nell’autoconservazione la logica di ogni gruppo: è comunità ben definita ma sempre aperta; pur dovendo porre un recinto per rendersi visibile non può mai alzare un muro invalicabile fra sé e il mondo, non può mai dirsi sufficientemente satura; mentre accoglie in casa un nuovo fratello e lo fa accomodare, Dio le chiede di non chiudere alle sue spalle la porta perché qualcun altro sta già entrando; mentre si prende cura di alcuni fratelli e passa fra loro a lavare i piedi, Dio le chiede di sorridere a qualcun altro che sta cercando una via d’accesso per ricevere sui suoi piedi la stessa acqua calda del servizio; e quando vorrebbe alzare gli argini, chiudere la porta per stringere fra le mani ciò che ha già credendo che le basti, lo Spirito la chiama a guardare oltre.
Vorrei lasciare emergere dalle
letture appena ascoltate le diverse prospettive di quel sogno che il Padre
nutre perché ogni uomo conosca la sua salvezza. Perché il nostro è un Dio così:
vigile, che guarda sempre oltre i confini e immagina l’accesso di nuova gente
nella sua tenda e si adopera perché la sua casa sia sempre più larga, più
spaziosa, più comoda al rischio di aprire un cantiere infinito, al rischio di
rendere provvisoria ogni struttura, modificabile nel tempo e per questo
elastica. Il Dio dell’Alleanza è tutt’altro che rigidità.
Nella lettura Isaia ci
racconta la predilezione che Dio ha anche
per uomini e donne di confini lontani, che non appartengono al Popolo che
lui da sempre si è scelto. Queste parole sono come una benedizione, una carezza
che placa l’ansia di felicità dell’ uomo. Ogni
uomo porta nel cuore una nostalgia profonda di Dio che lo spinge ad alzare le
sue mani verso il cielo nei momenti di dubbio, paura ma anche di fronte
allo stupore della vita e del mondo. Aldilà di ogni percorso tortuoso, spesso
ad andamento sinusoidale, Dio raccoglie nel suo abbraccio la sua creatura e la
stringe a sé con una premura infinita.
Paolo invece ci ricorda che l’Amore
di Cristo, niente di più grande l’uomo poteva conoscere di Dio, ci ha
preceduto. Non abbiamo fatto nulla per meritarcelo, non ci salviamo con le
nostre forze ma c’è in principio un dono, un amore che si piega sui nostri
limiti e sulle nostre ferite e le rende feritoie di luce. La prima parola che Dio pronuncia sulla tua vita è perdono, il tuo
passato lo chiama perdono, i tuoi sbagli li butta come un anello in un oceano, il
tuo presente si riempie di futuro e tu ti scopri qui e ora parte di una nuova avventura sospesa fra l’estasi e l’estroversione,
cioè fra la contemplazione grata di quello che lui ha fatto per te e la
vocazione di essere segno per ogni fratello che incroci di questo amore che
tutto abbraccia e tutto copre.
E Infine il Vangelo, con il
linguaggio semplice ma assolutamente provocatorio delle parabole, ci ricorda
chi sono i prediletti su cui Dio posa lo sguardo da sempre perché abitino la
sua casa: i piccoli, i poveri, gli
emarginati, gli esclusi che non meritano affatto un posto defilato alla mensa
della Chiesa ma il posto centrale. Il Vangelo è per i poveri perché è
capace di riscatto e di rivoluzione.
Vorrei riprendere quanto già
dicevo all’inizio, ovvero vorrei cogliere qualche spunto per essere Chiesa che
si lascia modellare dalle mani di un Dio così. Da questa sera ci è lecito
sognare:
una Chiesa che non si chiude per paura del mondo perché sa che Dio
oggi e qui la sta chiamando a tessere questa tela del Regno in cui ogni uomo,
proprio tutti, ha diritto di accesso. Se si alzano barricate abbiamo perso ogni
sfida.Una Chiesa che non guarda alle apparenze ma considera ogni uomo un fratello da servire soprattutto se ultimo e povero.
Una Chiesa che diventa in sé segno di pace e di condivisione. L’unità e la comunione non significano omologazione ma convivialità di differenze, come i colori dell’arcobaleno.
Proviamo a mettere mano
insieme ad un progetto così?
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