Questa domenica si pone in continuità con quanto ascoltato settimana scorsa. Il Signore viene fra noi,e verrà come ha promesso, e noi siamo chiamati a forgiare il nostro cuore e continuamente convertire la nostra strada sul modulo esigente del Vangelo, aguzzare il nostro sguardo, tenere accesa la speranza in questa attesa. Se sapremo davvero vivere così saremo figli del Regno.
L’omelia di questa domenica potrebbe a questo punto prendere una piega un po’ moraleggiante, se non addirittura moralistica, e potrei iniziare ad elencare quali sono gli aspetti su cui dobbiamo lavorare per vivere in pienezza la nostra vocazione alla santità: che ne è del nostro rapporto con Dio, con gli altri e con noi stessi? Ma sono convinto che non andremmo molto lontano, forse sarebbe uno sprone per certi versi azzeccato, per altri inutile, comunque superficiale.
Perché per un cristiano l’aspetto morale è sempre in secondo ordine, è una conseguenza della vita spirituale. Chi si sa amato da Dio, chi si abbandona al suo abbraccio benedicente, chi sa custodire nel cuore la certezza di essere figlio necessariamente saprà anche vivere bene e saprà fare dell’amore il parametro della sua vita. Figli del Regno non si è perché si emerge con i propri sforzi ma perché ci si lascia sommergere dalla Misericordia.
E ora proviamo a interrogare la Parola e a chiederle di darci qualche suggerimento sulla nostra verità di figli, quasi una cartina di tornasole per capire se stiamo procedendo nella direzione giusta o qualcosa in noi si è inceppato. E se è così forse dobbiamo dedicarci di più alla preghiera, a riprendere l’immersione nel Mistero di Dio.
Figli del regno, ci suggerisce Baruc, sono quelli che vivono nella gioia perché guardano ad oriente e vedono sorgere l’alba. Figlio è chi sa cogliere che Dio c’è ed è all’opera come Padre, che la salvezza viene dalle sue mani e che sul nostro mondo splende ormai la sua luce. È bandito ogni pessimismo, ogni disperazione, ogni critica feroce come se questi fossero i tempi peggiori di sempre. Non si vuole nascondere la drammaticità di questo scorcio del nostro presente, eppure il credente sa leggere nelle vene della storia la salvezza che scorre come un fiume, sa sentire sulla sua pelle e su quella di ogni uomo il respiro buono, pieno di amore del Padre. Per questo si può gioire, danzare, darsi alla gioia. Se non arde come brace in fondo al cuore la nostra gioia, e a tratti riprende a fiammeggiare, forse si è annebbiata la nostra verità di figli. Se le nostre comunità non sanno più dare gioia nelle relazioni ma solo peso, angoscia, un senso di depressione perché oberate di cose da fare, se le nostre liturgie trasmettono solo pedanteria forse anche come Chiesa dobbiamo fare conversione e tornare a contemplare il sorriso di Dio. Del resto, per chi saremo credibili se non abbiamo in noi un guizzo di gioia, chi mai si aggiungerà a noi se non saprà avvertire un brivido di felicità.
Figli del regno, ci suggerisce Paolo, sono quelli che sanno prendere sulle loro spalle il peso del fratello più debole, è chi fa della sua vita un’icona vivente dell’Amore di Cristo. C’è una certa propensione all’amore, alla cura di chi è più povero, come un marchio di fabbrica, quasi un tratto di carattere che dice l’identità della nostra famiglia.
Infine, ci suggerisce Giovanni nel racconto di Luca, figli sono quelli che sanno rimettersi in discussione sempre e sanno prendere fra le mani con coraggio la loro vita anche dandole delle sferzate se si è fuori strada. La giovinezza del cuore, quella che più conta, sta proprio nel saper cambiare azzerando l’orgoglio. Ognuno di noi, se oggi ci mettessimo in fila davanti al Battista, potrebbe sentire parole che toccano sul vivo la propria vita, con estrema concretezza. Del resto non è sui principi ma sui frutti concreti che si vede quanto siamo fratelli di Cristo, portatori della speranza del Regno. Ma qui si apre un ambito molto riservato, un colloquio che ognuno in settimana è opportuno riprenda con Dio e con la propria coscienza. Per tutti vale l’idea che noi siamo chiamati non a fare cose straordinarie, impossibili, ma a fare bene le piccole cose di ogni giorno che ci sono chieste, perché in esse c’è la nostra possibilità prima e ultima di essere santi. Immaginare di essere santi solo se si può compiere questa o quella impresa è un perdersi via dietro a fantasie inutili. Madleine Delbrel ci dà un elenco preciso di momenti in cui Dio viene a bussare alla nostra porta e noi spesso ci attardiamo in altro disprezzando queste occasioni per essere figli e non lasciarci amare.
Ogni piccola azione è un avvenimento immenso nel quale ci viene dato il paradiso, nel quale possiamo dare il paradiso. Non importa quel che dobbiamo fare: tenere in mano una scopa o una stilografica. Parlare o tacere, rammendare o fare una conferenza, curare un malato o battere a macchina. Tutto ciò non è che la scorza della realtà splendida, l’incontro dell’anima con Dio rinnovata ad ogni minuto, che ad ogni minuto si accresce in grazia, sempre più
bella per il suo Dio. Suonano? Presto, andiamo ad aprire: è Dio che viene ad amarci. Un’informazione?…eccola: è Dio che viene ad amarci E’ l’ora di metterci a tavola? Andiamoci: è Dio che viene ad amarci Lasciamolo fare.
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