domenica 20 maggio 2012

VII domenica di Pasqua

Questa è una domenica particolare, sospesa fra la solennità dell’Ascensione che abbiamo celebrato giovedì scorso e la domenica di Pentecoste che porrà fine a questo tempo di Pasqua: sono quasi come due sponde su cui rimbalzano i temi della Parola appena ascoltata. Provo a darne eco nella certezza che il Signore ci sta guidando lungo il nostro deserto, che queste parole sono come bocconi di manna che ci vengono messi fra le mani per darci la forza di andare avanti per fidarci di lui e per essere davvero alternativi al mondo.

Parto dalle suggestioni di Paolo nella lettera a Timoteo. Grande è il mistero della nostra fede. E poi ne mostra la paradossalità. Gesù è uomo ma è anche Dio, vive nella Gloria ma cammina con noi. Questo è il traguardo che l’intelligenza della fede conquista dopo la sua Ascensione. Noi non crediamo semplicemente in Dio. Noi non pensiamo che Dio sia dall’altra parte della nostra storia, delle nostre fatiche, della nostra gioia e dei nostri mille perché. Noi non possiamo immaginarci Dio come affacciato ad un balcone che guarda con apatica indifferenza lo scorrere del nostre tempo, oppure che si destreggia come un abile burattinaio a muovere i fili delle nostre vite. In Gesù noi abbiamo incontrato l’uomo che ci ha raccontato che Dio è Padre e che lotta per sempre dalla nostra parte, il Signore che si sporca le mani con la nostra storia, il Padre pieno di premure che non si ferma per amore nemmeno davanti all’abisso della nostra colpa; Gesù è il segno più evidente di questo amore quando stende le braccia sulla croce e in segno di riconciliazione spezza la sua vita; e la morte non ha messo fine a questa parabola di amore, quel Dio lo ha risuscitato e in questo accadimento abbiamo compreso che anche lui era Dio, il Dio con noi. La nostra fede è davvero paradossale, diversa, alternativa, scandalosa. Unisce la dimensione verticale a quella orizzontale, ci racconta non semplicemente dello  slancio dell’uomo verso l’alto ma soprattutto del piegarsi del cielo sulla terra. Dai giorni dell’Ascensione, da quando cioè Gesù ha messo un termine alle sue apparizioni agli Undici, noi non lo vediamo più ma comprendiamo chi è, sappiamo cioè che la nostra storia è segnata per sempre dal suo passaggio, non ci sentiamo più soli, e nemmeno dispersi ma incamminati verso l’orizzonte dell’infinito e dell’eterno, stringiamo fra le mani una bussola che ci dice che vivere a sua immagine, vivere nella logica del Vangelo che ci chiede di amare senza misura, ha davvero senso e ci riscatta da ogni ripiegamento e banalità.

In attesa dello Spirito. Solo lo Spirito ci può dare lo slancio per rimanere fedeli a questa Parola.

Il brano di Vangelo ci riporta a quel cenacolo in cui Giovanni colloca il lungo discorso di Gesù ai suoi che termina con la preghiera di cui oggi abbiamo ascoltato la parte finale. Gesù sa che sarà tolto ai suoi e li lascerà camminare nel mondo. Fra i suoi ci siamo anche noi. Mi colpisce anzitutto questo farsi da parte di Gesù, il suo ritrarsi, la sua intenzione di andare, sparire, lasciare spazio. È un atteggiamento proprio delle persone più grandi. Sa di aver dato ai suoi ogni cosa, di aver inciso nei loro cuori con il segno della Parola, è come se li avesse equipaggiati con il necessario perché possano camminare ora da soli, proprio come un bravo istruttore, dopo aver spiegato loro ogni cosa, sa che devono buttarsi in acqua per imparare a nuotare davvero. È da Dio questo fidarsi della libertà dell’uomo. Deve andarsene perché loro possano restare. Deve sparire perché loro possano affermarsi. Deve lasciare la presa della loro mano perché possano spiccare il volo. E in questo momento così delicato prega per loro, prega per noi.

Mi colpiscono alcuni passaggi di questa preghiera che per noi resta come una carta progettuale per non smarrire l’intenzione di Gesù per la sua Chiesa.

Non li tolgo dal mondo. Il credente sa che il suo orizzonte è questo mondo in cui Gesù ha voluto incarnarsi, anzi, come lui ha deciso di sprofondare nelle dinamiche della storia, sporcarsi le mani con tutto ciò che di bene e di male il mondo offre, anche noi non possiamo fuggire in nome della nostra fede, siamo chiamati a stare dove s’intrecciano i sentieri degli uomini e dove si gioca la partita della vita. il credente sa che non c’è altra possibilità di incontrare Dio e di annunciare Dio se non al crocevia della città degli uomini. Amare la storia e segnarla con il passo della fede è amare Dio.

La pienezza della mia gioia. È questa la cifra ultima che contraddistingue il credente dagli altri. La gioia è la consapevolezza profonda di essere nel palmo della mano di Dio, custoditi dal suo amore, guidati dalla sua premura di Padre.

Siano una cosa sola. È forse la consegna più difficile che Gesù ci affida,. Non giochiamo la sfida della fede in solitaria, siamo chiamati alla fede nella Chiesa e ad essere una cosa sola, siamo chiamati a lavarci i piedi gli uni gli altri e rimanere uniti proprio nel servizio e nel perdono e nell’accoglienza. La divisione ci darà l’apparenza di camminare più veloci, liberi dalla zavorra dell’altro ma non ci porterà molto lontano.

Come la prima comunità

Quando sento un brano come quello degli Atti sento dilagare in me la nostalgia di una Chiesa che viveva nella consapevolezza profonda di essere condotta per mano dallo Spirito di Cristo fino ad apparire imprudente, ingenua, banale. Chi fra noi si affiderebbe alla sorte per una scelta tanto impegnativa come quella di rimpiazzare il posto di un apostolo. Eppure Pietro e gli altri azzardano così tanto perché vivono la dimensione della fede. Come mi piacerebbe che la prossima Pentecoste potesse essere per la Chiesa e per la nostra comunità un’occasione per essenzializzare le nostre complesse geometrie pastorali per vivere di più lo slancio di un abbandono pieno di fiducia a un signore che c’è.

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