
Il Risorto, che è apparso a Maria e ai discepoli confermandoli nella fede, non ha mai smesso di darci appuntamento di settimana in settimana. Domenica scorsa lo abbiamo contemplato come la nostra Via, Verità e Vita e oggi come il buon Pastore.
Ma, prima di sottolineare qualche passaggio della Parola proclamata, vorrei soffermarmi sul tema della preghiera per le vocazioni che unisce oggi l’intera Chiesa. Pregare perché ogni giovane trovi la sua vocazione è un gesto di carità profondo. Non si può essere uomini riusciti senza un progetto di vita da abbracciare: è come se una nave non avesse una rotta da seguire e stesse in balia delle onde; è come se si guardasse il cielo e si desiderasse spiccare il volo senza però mai trovare il coraggio; senza progetto la vita è vuota, è solo trascinata, drammaticamente ripiegata sul presente e sul contingente; senza la vocazione anche la fede non ha senso perché resta un astratto insieme di regole e precetti. Al tema della vocazione è legata la felicità dei nostri giovani. Ma nessuno può scoprire la sua vocazione senza un qualcuno che si faccia suo compagno di viaggio e, pazientemente, gli tenga la mano sulla spalla nei momenti difficili o lo aiuti a interpretare i segni della direzione precisa che deve scegliere. Ecco perché non possiamo fermarci alla preghiera, ma questa giornata è un appello alla nostra responsabilità educativa. Se forse i giovani non sanno più fare scelte definitive, se forse li attanaglia un senso di vuoto che li rende disperati, talvolta cinici, se ci sembrano così tristi e il loro cuore sembra che non batta più per ideali altissimi è anche perché noi adulti abdichiamo al nostro ruolo educativo e non abbiamo più il coraggio di farci loro maestri, alziamo muri aldilà dei quali stanno vite che faticano ad uscire dal bozzolo e aldiquà stiamo noi con il nostro perbenismo di persone riuscite. Il nostro oratorio è un cortile promettente, pieno di giovani ma, troppo spesso vuoto di adulti che stiano lì con loro e per loro…se solo qualche adulto in più mi tendesse la mano e mi dicesse di voler imbarcarsi nell’avventura educativa! Daremmo vita a mille percorsi che accenderebbero mille sorrisi, non verremmo meno, come talvolta mi capita di pensare, al vero compito educativo dell’oratorio che è proprio accompagnare un ragazzo a spiccare il volo nel cielo della vita!
I versetti del Vangelo di oggi seguono l’espressione con cui Gesù si definisce il buon Pastore: io Sono il buon Pastore. Lui, cioè, è il Figlio fatto carne del Dio di Israele che aveva promesso al suo popolo di dimorare fra loro come un pastore che, a differenza dei sacerdoti, dei re o dei falsi profeti, non avrebbe pensato al suo interesse ma solo al bene del suo gregge. Gesù è il pastore che conosce le pecore, cioè le ama, le sa distinguere, non le tratta allo stesso modo, sa dare loro un nome e conosce la loro storia prendendola fra le mani; queste pecore si fidano e lo seguono ascoltando la sua voce. Nessuna di loro andrà perduta e saranno rivestite con l’abito dell’eternità. È bello per noi scoprirci amati così dal nostro Dio; è bello, soprattutto nei momenti in cui ci sentiamo soli o non sappiamo dove sta la meta dei nostri giorni, scoprire che la mano del Pastore non viene meno e che magari ci sta portando sulle sue spalle; è bello sapere che c’è un orizzonte di eternità che ci è promesso e che nulla e nessuno potranno strapparci. Gesù è l’unico vero Pastore. Nessun altro può avere la pretesa di sostituirsi a lui. Al massimo si può essere un riflesso della sua guida, si può essere un’eco della sua voce che ci chiama a seguirlo. Questo gli apostoli lo sapevano bene. Paolo, che a Troade compie questo miracolo, non smette di celebrare l’Eucarestia perché la vita che è ritornata nel giovane Eutico sgorga freschissima proprio nella presenza del Risorto nel Pane spezzato e nella Parola predicata. Timoteo, giovane vescovo di una comunità, deve continuamente far riferimento a Gesù e in lui trovare il principio della sua autorevolezza.
Noi sacerdoti, in comunione con il Vescovo, non siamo altro che testimoni della presenza del buon Pastore, deboli strumenti nelle sue mani grandi, portatori di un tesoro in vasi di coccio. Ogni tentativo di superarlo è inutile, ogni tratto dispotico e autoritario è fuori posto e rischia di essere fuorviante. Con la nostra vita, in particolare con l’annuncio della Parola e nella celebrazione dei Sacramenti, nel tessere pazientemente la trama di una comunità, siamo chiamati ad incarnare questo tratto di Gesù che guida il suo popolo verso un oltre sempre inatteso. Mi sento oggi di chiedere scusa a voi, comunità amata e che ho l’onore si servire, per quando la mia vita non è stata sufficientemente limpida da lasciar penetrare la luce del Risorto su di voi. Quando sono diventato prete ho scelto un brano della 2 Corinzi: la mia potenza si manifesta pienamente nella debolezza. Quando scorgete i tratti della mia debolezza non fermatevi a questa ma amate chi sa fare, con la Potenza della sua Grazia, grandi cose anche attraverso strumenti deboli e inadeguati come me.
Insieme però alla comunità noi sacerdoti siamo chiamati ad ascoltare la voce della sua presenza e a raggiungerlo lì dove si trova. Il sacerdote vive il carisma della sintesi ma non è la sintesi di tutti i carismi come purtroppo spesso accade. La comunione fra preti e laici, la scoperta e la valorizzazione dei ministeri, la certezza che ci accomuna un sacerdozio è ancora da realizzarsi. Sarà per questo che la vita del prete è sempre più appesantita da cose che non gli spettano? Sarà per questo che spesso appariamo così stanchi e la nostra vita, più che una promessa, il compimento di un sogno, ai nostri giovani sembra un incubo? Se oggi preghiamo perché molti giovani e molte ragazze scelgano di consacrarsi a Dio e ai fratelli completamente, permettetemi di dire che bisogna pregare prima per i sacerdoti e i religiosi perché la loro vita sia più semplice, più bella, più affascinante. Ma anche questo ci spinge ad assumere, ognuno per la sua parte, una precipua responsabilità.
Ma, prima di sottolineare qualche passaggio della Parola proclamata, vorrei soffermarmi sul tema della preghiera per le vocazioni che unisce oggi l’intera Chiesa. Pregare perché ogni giovane trovi la sua vocazione è un gesto di carità profondo. Non si può essere uomini riusciti senza un progetto di vita da abbracciare: è come se una nave non avesse una rotta da seguire e stesse in balia delle onde; è come se si guardasse il cielo e si desiderasse spiccare il volo senza però mai trovare il coraggio; senza progetto la vita è vuota, è solo trascinata, drammaticamente ripiegata sul presente e sul contingente; senza la vocazione anche la fede non ha senso perché resta un astratto insieme di regole e precetti. Al tema della vocazione è legata la felicità dei nostri giovani. Ma nessuno può scoprire la sua vocazione senza un qualcuno che si faccia suo compagno di viaggio e, pazientemente, gli tenga la mano sulla spalla nei momenti difficili o lo aiuti a interpretare i segni della direzione precisa che deve scegliere. Ecco perché non possiamo fermarci alla preghiera, ma questa giornata è un appello alla nostra responsabilità educativa. Se forse i giovani non sanno più fare scelte definitive, se forse li attanaglia un senso di vuoto che li rende disperati, talvolta cinici, se ci sembrano così tristi e il loro cuore sembra che non batta più per ideali altissimi è anche perché noi adulti abdichiamo al nostro ruolo educativo e non abbiamo più il coraggio di farci loro maestri, alziamo muri aldilà dei quali stanno vite che faticano ad uscire dal bozzolo e aldiquà stiamo noi con il nostro perbenismo di persone riuscite. Il nostro oratorio è un cortile promettente, pieno di giovani ma, troppo spesso vuoto di adulti che stiano lì con loro e per loro…se solo qualche adulto in più mi tendesse la mano e mi dicesse di voler imbarcarsi nell’avventura educativa! Daremmo vita a mille percorsi che accenderebbero mille sorrisi, non verremmo meno, come talvolta mi capita di pensare, al vero compito educativo dell’oratorio che è proprio accompagnare un ragazzo a spiccare il volo nel cielo della vita!
I versetti del Vangelo di oggi seguono l’espressione con cui Gesù si definisce il buon Pastore: io Sono il buon Pastore. Lui, cioè, è il Figlio fatto carne del Dio di Israele che aveva promesso al suo popolo di dimorare fra loro come un pastore che, a differenza dei sacerdoti, dei re o dei falsi profeti, non avrebbe pensato al suo interesse ma solo al bene del suo gregge. Gesù è il pastore che conosce le pecore, cioè le ama, le sa distinguere, non le tratta allo stesso modo, sa dare loro un nome e conosce la loro storia prendendola fra le mani; queste pecore si fidano e lo seguono ascoltando la sua voce. Nessuna di loro andrà perduta e saranno rivestite con l’abito dell’eternità. È bello per noi scoprirci amati così dal nostro Dio; è bello, soprattutto nei momenti in cui ci sentiamo soli o non sappiamo dove sta la meta dei nostri giorni, scoprire che la mano del Pastore non viene meno e che magari ci sta portando sulle sue spalle; è bello sapere che c’è un orizzonte di eternità che ci è promesso e che nulla e nessuno potranno strapparci. Gesù è l’unico vero Pastore. Nessun altro può avere la pretesa di sostituirsi a lui. Al massimo si può essere un riflesso della sua guida, si può essere un’eco della sua voce che ci chiama a seguirlo. Questo gli apostoli lo sapevano bene. Paolo, che a Troade compie questo miracolo, non smette di celebrare l’Eucarestia perché la vita che è ritornata nel giovane Eutico sgorga freschissima proprio nella presenza del Risorto nel Pane spezzato e nella Parola predicata. Timoteo, giovane vescovo di una comunità, deve continuamente far riferimento a Gesù e in lui trovare il principio della sua autorevolezza.
Noi sacerdoti, in comunione con il Vescovo, non siamo altro che testimoni della presenza del buon Pastore, deboli strumenti nelle sue mani grandi, portatori di un tesoro in vasi di coccio. Ogni tentativo di superarlo è inutile, ogni tratto dispotico e autoritario è fuori posto e rischia di essere fuorviante. Con la nostra vita, in particolare con l’annuncio della Parola e nella celebrazione dei Sacramenti, nel tessere pazientemente la trama di una comunità, siamo chiamati ad incarnare questo tratto di Gesù che guida il suo popolo verso un oltre sempre inatteso. Mi sento oggi di chiedere scusa a voi, comunità amata e che ho l’onore si servire, per quando la mia vita non è stata sufficientemente limpida da lasciar penetrare la luce del Risorto su di voi. Quando sono diventato prete ho scelto un brano della 2 Corinzi: la mia potenza si manifesta pienamente nella debolezza. Quando scorgete i tratti della mia debolezza non fermatevi a questa ma amate chi sa fare, con la Potenza della sua Grazia, grandi cose anche attraverso strumenti deboli e inadeguati come me.
Insieme però alla comunità noi sacerdoti siamo chiamati ad ascoltare la voce della sua presenza e a raggiungerlo lì dove si trova. Il sacerdote vive il carisma della sintesi ma non è la sintesi di tutti i carismi come purtroppo spesso accade. La comunione fra preti e laici, la scoperta e la valorizzazione dei ministeri, la certezza che ci accomuna un sacerdozio è ancora da realizzarsi. Sarà per questo che la vita del prete è sempre più appesantita da cose che non gli spettano? Sarà per questo che spesso appariamo così stanchi e la nostra vita, più che una promessa, il compimento di un sogno, ai nostri giovani sembra un incubo? Se oggi preghiamo perché molti giovani e molte ragazze scelgano di consacrarsi a Dio e ai fratelli completamente, permettetemi di dire che bisogna pregare prima per i sacerdoti e i religiosi perché la loro vita sia più semplice, più bella, più affascinante. Ma anche questo ci spinge ad assumere, ognuno per la sua parte, una precipua responsabilità.
Nessun commento:
Posta un commento