domenica 11 agosto 2013

XII dopo Pentecoste

Una storia che è ad andamento sinusoidale e i vuoti del peccato dell’uomo sono colmati dalla presenza di un Dio Alleato
La storia dell’uomo ha un andamento tutt’altro che lineare! Ci sono stati dei tempi in cui sembrava di galoppare in avanti alla conquista di mete inimmaginabili, attimi in cui sembrava di avere a portata di mano l’utopia della felicità come evento di popolo. Ma fra questi pieni ci sono stati molti, forse troppi vuoti  in cui la barbarie, la violenza, la negazione del Vero e di conseguenza del Giusto e del Bello hanno gettato l’umanità in un baratro di oscurità. Proprio fra questi pieni e vuoti si incide a chiare lettere la Storia della Salvezza. Con uno sguardo capace di penetrare le apparenze ci si può accorgere delle orme che il passaggio di Dio ha lasciato lungo la storia e i tanti vuoti del peccato e dell’ingiustizia sono stati colmati da un amore che ha sempre riaperto la partita, un amore che è Promessa di un’Alleanza che non viene mai meno.
Mi sembra questa la premessa necessaria per provare a sottolineare qualcosa della Parola ascoltata questa domenica da cui emergono come forze contrapposte la violenza dell’uomo e lo sgomento che essa genera e la speranza che Dio continua a seminare fra i suoi.
Il clamore della distruzione del Tempio…2 segni di speranza: il profeta Geremia e il resto d’Israele perché Dio non resta imprigionato tra le colonne del Tempio.
Del Tempio di cui si parla nella prima lettura a noi non rimane pressoché nulla. Il muro davanti a cui oggi si prega a Gerusalemme, il Muro del Pianto, è parte dell’ampliamento voluto nei primi anni del I secolo dal re Erode al secondo Tempio ricostruito dopo la deportazione a Babilonia. Dunque ci è difficile immaginare come fosse; qualche suggestione ce la offre la prima lettura parlandoci delle sue ricchezze trafugate, ricchezze che, come racconta la Bibbia, lasciavano a bocca aperta ogni visitatore. Il Tempio era il centro del culto ebraico, il luogo della memoria dove era custodita l’Arca, la casa dove Dio, grande e inaccessibile, aveva comunque deciso di prendere dimora. Comprendiamo dunque perché la sua distruzione ha generato sgomento e smarrimento: significava la fine di un’Alleanza, l’oscuramento di un passato che rendeva Israele unico, la cancellazione della memoria e forse la dimostrazione che Dio non solo si era allontanato, aveva maledetto la sua eredità ma, come dicono gli empi, che neppure esiste. È la capitolazione di una storia troppo bella per essere vera sotto i piedi dei violenti. Ma se si va appena sotto la superficie di questa vicenda, ad un tratto, trapelano due segni di speranza, come un bandolo di una matassa intricatissima ma, che afferrato, può aiutarci a comprendere verso quale direzione Dio stava spingendo la storia. Il primo segno è il profeta Geremia che, anche se non presente in queste righe, ne è il protagonista. Geremia, in obbedienza alla voce di Dio, facendosi parte di esso, è stato voce di contraddizione per il popolo. Anche pagando di persona non smetteva di richiamare a Israele troppo sicuro di sé la via della Giustizia invitando alla conversione. Ma nei giorni della desolazione, di questa strage, della deportazione non si tira indietro, rimane con la sua gente e annuncia la Speranza, racconta della tenerezza di un Signore che non può dimenticare il suo popolo perché sarebbe come dimenticare se stesso. Ed è proprio da questa dichiarazione di misericordia che Israele può ritrovare anche la sua identità e immaginare un futuro possibile in quella terra che gli è stata tolta. Il secondo segno sono i poveri e gli ultimi che vengono lasciati nella Terra. Per i grandi di Babilonia non contavano nulla  e non meritavano di entrare nei ranghi del regno. Rimangono a coltivare la terra, anello di congiunzione di un passato che è anche presente e promessa di futuro, baluardo che dice di un Dio che non guarda alle apparenze e che fa delle pietre scartate dall’’uomo una costruzione nuova e solidissima; di un Dio che non si lascia imprigionare fra le belle pietre ma che è libero, zingaro, nomade in mezzo al suo popolo e sempre capace di cose nuove.
In un tempo come il nostro, di fronte al crollo di certe sicurezze, davanti allo sgomento per la perdita di senso…
Non voglio forzare la Parola e renderla uno schema con cui leggere il nostro presente, eppure sento che è capace di parlare anche a noi e al nostro tempo, alla nostra storia fatta di pieni e di vuoti molto simili a questo racconto. Avvertiamo ormai che siamo in un tempo di passaggio – di crisi per restare alla lettera – dove non si affaccia ancora con chiarezza l’orizzonte ma sentiamo sulla pelle il brivido per il crollo di tante sicurezze che puntellavano la nostra vita e la nostra società e anche la Chiesa; sentiamo nel cuore il tonfo che sale dalla caduta del Senso della vita che viene smantellato giorno dopo giorno, immolato sull’altare di privatismi e di egoismi. Ora le possibilità sono due: possiamo rintanarci in noi stessi e rimanere alla lunga vittime della paura oppure possiamo metterci in ascolto dello Spirito e chiederci dove sono le orme del passaggio di Dio, di un Dio libero e altro rispetto a noi ma che non si è stancato di scrivere per noi le pagine bellissime della sua storia della Salvezza e che ci sta preparando un orizzonte promettente.

E scopriremo anche noi che Dio abita nel cuore dei profeti. Di uomini e di donne che in modo vero ci stanno graffiando richiamandoci a ciò che conta. Abita fra i poveri che non contano nulla… scrive così don Tonino Bello: “Dio non sempre si lascia incantare da chi sa parlare meglio. Non sempre si fa sedurre dal profumo dell'incenso, più di quanto non si accorga del tanfo che sale dai sotterranei della storia. Desidero rivolgermi a voi [poveri], perché sono convinto che il rinnovamento spirituale può partire solo da coloro che non contano niente”. E ci invita alla conversione, a passare dalla loro parte per ritrovare il suo volto e camminare con lui verso un mondo nuovo. 

domenica 4 agosto 2013

XI dopo Pentecoste

Questa domenica la corsa lungo le tappe più importanti della storia della salvezza ci fa fare sosta sulla figura di Elia il profeta. Elia, pur essendo una figura tratteggiata con i colori accesi della mitologia, è diventato l’emblema del profetismo. In un tempo politicamente difficile – il Regno d’Israele si è separato da quello di Giuda – e buio – il re Acab e Gezabele nel racconto di oggi sono l’esempio evidente della corruzione e del disimpegno della ricerca del bene comune e della Giustizia diffuso nella classe dirigente e dilagante nel popolo – è l’uomo chiamato da Dio a incarnare la sua Parola, è acceso di passione per la Verità anche al costo di pagare di persona, è l’amico di Dio capace di annunciare la consolazione nei giorni della desolazione e di mettere il dito nella piaga del malaffare  e scoperchiare e mostrare l’ipocrisia in tutte le situazioni in cui Israele stava dimenticando l’Alleanza con il Signore. Già qui possiamo raccogliere nella nostra bisaccia di pellegrini un’indicazione spirituale preziosissima. Anche noi , forse come dilettanti o forse con il tratto di un’esperienza maturata lungo la vita, siamo chiamati ad essere profeti, dobbiamo sentire come una nostalgia nel cuore la voce che ci rende segno della presenza di Dio, profumo della sua primavera nella stagione che stiamo vivendo. Perché se è troppo facile lamentarsi per il buio e lo sgomento che ci circondano, molto più difficile è affrontare la storia a viso aperto e richiamare le coordinate del buono, del vero e del bello incarnandole con la nostra vita. Ed eccoci a qualche sottolineatura della pagina di oggi.
È evidente la disparità fra Nabot e il re Acab. Il primo, anche di fronte ad una promessa di ricompensa, forse più preziosa del valore della vigna stessa, non cede l’eredità dei suoi padri, quel lembo di terra che richiama la promessa di Dio di dare una terra al suo popolo. Per Nabot ciò che conta non è il valore ma il significato di quella vigna. In una stagione dove si poteva svendere tutto per denaro, anche la dignità, Nabot rimane ancorato ai suoi principi. Acab invece, che ha confuso il servizio del potere con il potere assoluto, abituato a imporre i segni del potere rimane sconcertato di fronte a questo potere del segno di una vigna trattenuta perché benedizione di Dio. Nabot è diventato un richiamo sfacciato all’oblio della coscienza di Acab che, proprio per questo, acconsente di metterlo a tacere nel peggiore dei modi.
Ed è a questo punto che Elia interviene. Non ha una parola sua da annunciare ma quella di un Dio che lungo la storia del suo popolo si è sempre lasciato impressionare e infiammare dal grido del povero e degli oppressi. Elia ha dovuto imparare lungo la sua vita a non aggiungere nulla di più rispetto a questa Parola, ha dovuto imparare a sue spese a far coincidere il suo pensiero con quello di Dio, ha capito che l’efficacia di un messaggio non sta nel protagonismo ma nel farsi riempire dal mormorio del vento leggero del passo di Dio che cammina in mezzo a noi. Ma per questo rimando alla lettura personale del ciclo di Elia. È proprio dall’ascolto della Parola che nasce la passione per la storia, per il mondo, per la Giustizia. E anche qui mi fermo per raccogliere un’altra indicazione. Chiediamoci se l’ascolto della Parola sta mettendo sui nostri occhi, spesso miopi e tentati di guardare troppo vicino, troppo a noi stessi e ai nostri interessi, le lenti della passione per la storia; se c’è la voglia di lubrificare gli occhi con il collirio della Fede per infiammarsi di passione per i poveri di questo mondo e per tutti quelli che stanno perdendo anche la dignità; se il rispetto che ci porta a piegare le nostre ginocchia di fronte al Crocifisso Risorto è lo stesso per ogni crocifisso che sfioriamo lungo la nostra vita. La passione per la Giustizia senza fede è rivoluzione sterile. Ma la fede senza lotta accanto agli oppressi  è spiritualismo inutile. Insomma, la sincerità dell’Amore è sempre la prova della bontà della nostra Fede.

Ecco perché la Liturgia crea una risonanza alla vicenda di Elia con questa parabola di Luca. Il ricco, di cui non sapremo mai il nome al contrario di Lazzaro, il povero – nella Storia della salvezza è ribaltata la legge per cui il dovere di cronaca appartiene solo ai potenti oppure perché il nome del ricco potrebbe essere benissimo il nostro – è uno che è vissuto nell’indifferenza: questo è l’unico peccato che gli si può imputare. Non ha tiranneggiato sul povero, semplicemente è rimasto sordo alla sua presenza, peggio dei cani che almeno si avvicinavano a Lazzaro per leccare le sue piaghe. E la sua indifferenza ha scavato un abisso che Dio, nell’eternità, non ha potuto non riconoscere. Eppure avrebbe potuto ascoltare anche lui Mosè e i Profeti, o meglio, avrebbe potuto comprendere che tutta la Legge lo stava spingendo verso un orizzonte di Carità. Non è un peccato avere ricchezze, è un problema – troppo ricorrente, è empiricamente dimostrato – se ti allontanano dal mondo dei poveri e ti rendono sordo a chi soffre. Penso dunque che la Parola di questa domenica ci voglia aiutare a cingere un grembiule per servire tutti i poveri che stanno alla porta di casa nostra. Saranno loro un giorno ad accoglierci nel Regno se ci riconosceranno come amici. E fra quei poveri forse scopriremo anche il volto di Uno che ha deciso di occupare per sempre l’ultimo posto. 

domenica 16 giugno 2013

IV dopo Pentecoste

Il ribaltamento dei termini nella lettura della storia della Salvezza: dire che Dio crede nell’uomo è più vero che dire che è l’uomo a credere in Dio. c’è un investimento di fiducia nella sua creatura, un surplus di Grazia che lascia lo spazio sempre ad una possibile conversione. E se è vero che nell’uomo abitano le tenebre, Dio sa scorgere ed evocare anche quel solo piccolo elemento positivo. È un vero e proprio educatore. Fa vibrare la corda positiva, fosse anche l’unica, per scrivere sul pentagramma del suo amore una melodia nuova.
La pagina mirabile di Caino e Abele. Alcune sottolineature come emergono dal testo

-          La nascita dei bambini, segno che Dio non si è stancato dell’umanità.
Dopo la caduta ecco la benedizione. Ogni vita che si affaccia a questo mondo è una scommessa sul futuro, è un segno di benedizione, porta in sé un carico di mistero, ti accorgi, se la guardi con lo sguardo del poeta, che non viene solo dalle tue mani ma in essa si nasconde il desiderio di Dio di continuare a dialogare con l’uomo e a scrivere nel nostro tempo una pagina in più della storia della salvezza.

-          Il male è accovacciato alla porta del cuore: non c’è nessuno di noi che è immune. Il segreto sta nella lotta e nel cercare di dominarlo
Nessuno di noi dica: queste cose non mi riguardano. La psicologia del profondo ci insegna che nei meandri del nostro cuore albergano tutti i vizi e domani possiamo cadere nell'adulterio, nella menzogna, nella calunnia, nell'invidia, addirittura nell'omicidio. Dobbiamo saperlo per non spaventarci e non smarrirci, dobbiamo sapere di avere in noi queste inclinazioni, che sono sempre alla porta anche se per grazia di Dio non abbiamo peccato. Nessuno dica: mi accontento di tenere a bada i peccati e le tentazioni. Non basta, perché se non voliamo alto cadremo, se non ci sforziamo di salire sul monte con Gesù saremo sempre un po' schiavi dei nostri vizi. È legge spirituale inesorabile che se l'uomo non tende più in alto cade più in basso; la tensione spirituale è tipica di ogni cammino di ricerca evangelica.[e]Per questo siamo chiamati a contemplare il volto splendente di Gesù sul monte. Lui solo può darci le ali ai piedi con cui superare le tentazioni gravi e sottili che riguardano l'intenzione profonda del cuore, perché la sua grazia è strapotente. (Carlo Maria Martini)

-          I sangui di tuo fratello…è morto Abele e con lui il mondo intero.
Il dramma dell’omicidio, meglio del fratello che uccide il suo fratello (ma ogni uomo è mio fratello) e di più dell’uccisione del giusto, di chi è innocente, di chi paga in modo gratuito la violenza dell’altro. Il testo letteralmente riporta questa dizione. Non il sangue ma i sangui. Con Abele è morta anche a sua discendenza, potenzialmente il mondo intero. Ecco perché chi salva una vita salva il mondo intero (cit. Schliender List, la scena con la consegna dell’anello con questa frase). Ma al contrario se uccidi un uomo uccidi l’intera umanità.  Ma Gesù ci ha detto che si può uccidere l’altro in tanti modi. Anche l’omissione o il non prendere posizione contro tutto ciò che accanto a noi o appena oltre l’orizzonte del nostro mondo che è chiuso nel suo egoismo e non si accorge che tre quarti dell’umanità sta morendo di fame, di stenti, di miseria. I care…a me interessa. Nelle nostre mani c’è un potenziale di vita e di morte e a noi tocca ogni giorno scegliere a quale dare spazio. E di tutto quello che io avrò compiuto o non compiuto mi sarà chiesto conto (cf. la pagina di Mt 25)

-          Il dialogo di Dio e il segno su Caino: l’incredibile Misericordia
Ma la cosa sorprendente è che ogni vita ha il suo valore e merita rispetto. Anche quella di Caino. Non c’è mai un momento in cui in modo definitivo si possa chiudere la partita della speranza. Spargere il sangue di Caino, anche in nome di una giustizia, significherebbe dare vita ad una spirale infinita di dolore e di vendetta. Per Caino inizia un esodo, un cammino di conversione. Anche per noi non c’è mai il momento in cui possiamo dire che non si può fare più nulla: c’è sempre un oltre di misericordia che ci attende. E se hai gustato nella tua vita almeno una volta la parola perdono comprendi quanto è importante dare libertà e futuro all’altro alle stesse tue condizioni.

una comunità così…una strada alternativa alla violenza. Una strada alternativa alla condanna
La comunità è il luogo del perdono. Nonostante tutta la fiducia che possiamo avere gli uni negli altri, ci sono sempre parole che feriscono, atteggiamenti in cui ci si mette davanti agli altri, situazioni in cui le suscettibilità si urtano. E' per questo che vivere insieme implica una certa croce, uno sforzo costante e un'accettazione che è un mutuo perdono d'ogni giorno.
Per uscire dalla violenza che ci rimbalza ogni giorno addosso e per abbozzare un sentiero di guarigione; per trovare la certezza di essere amato anche nei miei limiti e nei miei peccati e per rimettere la palla al centro per dare le ali al mio fratello che sente che la sua vita si è rattrappita per uno sbaglio; per levare l’ancora dal passato io ho bisogno della comunità.

domenica 9 giugno 2013

terza domenica di Pentecoste

Il lezionario ambrosiano, evidentemente, nel ciclo festivo, non segue la lettura continua di un Vangelo ma piuttosto sceglie dei temi e li propone alla nostra meditazione. In queste domeniche dopo Pentecoste stiamo ripercorrendo, con lo stile di una scorribanda, la Storia della Salvezza o, in altre parole, stiamo osservando come lo Spirito da sempre intesse la trama di comunione fra Dio e l’uomo. E la ricaduta spirituale è triplice:

1 accorgiti che Dio è all’opera sempre sporcandosi le mani con la nostra storia, accettando la sfida del tempo, scegliendo di essere partner affidabile della sua creatura. Il cuore che lo ricerca come terra assetata lo può trovare vicino, molto vicino…basta indossare le lenti giuste.
2 accorgiti che il tuo tempo è benedetto, è prezioso perché è occasione di Grazia. Non maledire nemmeno uno dei tuoi giorni, non considerarlo nemmeno come una pagina vuota di un’agenda da riempire. Oggi è il giorno più bello della mia vita perché, nel silenzio della preghiera, nell’incontro con l’altro, tuffandomi nella profondità del mio cuore, posso scorgere l’architettura promettente di un Signore buono che rende la mia vita un progetto di felicità
3 accorgiti che lo Spirito chiede anche a te di essere con Dio protagonista della storia della salvezza. Dai tuoi sì ne dipenderanno molti altri, i tuoi no sono porte sbarrate al mistero di un Regno che chiede di incarnarsi per l’oggi.

E se settimana scorsa la Parola aveva messo a fuoco il tema della Creazione, quest’oggi siamo invitati a riflettere sul binomio peccato-salvezza proprio da quella pagina paradigmatica che è Genesi 3.
Dio ha creato l’uomo e lo ha posto nel Giardino. La comunione è intensa, ogni sera cerca l’uomo e la donna per farsi loro compagno di strada, il dialogo è serrato, la prospettiva è identica. Ma l’uomo ha scelto questa comunione? Forse questo dubbio attanaglia la mente di Dio. Lui vuole essere amato per quello che è e non per quello che dà, vuole essere scelto e non accettato, vuole la libertà della sua creatura perché non è un idolo e non vuole che a lui si immoli il cuore o l’intelligenza dell’uomo. Ecco il perché di un comando: per suscitare libertà. È la scelta di una pedagogia sottilissima, è una scelta di un azzardo incomparabile. Sappiamo bene come è andata. L’uomo non si è fidato, si è ripiegato su di sé, si è lasciato prendere dalla tentazione di vedere in Dio un nemico, un concorrente, sceglie l’autonomia e la solitudine, preferisce tagliare i ponti con il cielo con l’illusione di spianare una strada più lunga sulla terra. Ma senza la guida delle stelle qualsiasi strada può rivelarsi insidiosa e non conduce da nessuna parte. Il peccato, anche il nostro, prima di essere una questione morale di un male agito contro noi stessi o qualcun altro, è l’occasione mancata, è aver imboccato un vicolo cieco, è aver chiuso il cuore alla nostra identità di creature, è aver smesso di dar voce all’eco della presenza di Dio nella nostra vita.  
E così l’uomo si accorge di essere nudo, prende le misure della sua finitezza, l’essere creatura diventa un ostacolo. Smette di amarsi. E prova vergogna di chi ha accanto e di se stesso. Inizia a guardarsi con sospetto.
Ma soprattutto ha paura di Dio. lo avverte come un nemico da cui nascondersi e fuggire
E infine si scatena una reazione a catena di paradossale deresponsabilizzazione. L’uomo che dimentica Dio dimentica anche il suo compito, si ritrova con una libertà svilita e annichilita…la colpa è sempre di qualcun altro. in effetti il primo passo verso la conversione è sempre prendere coscienza che il male dipende da mee da nessun altro.

Eppure la Parola di oggi non si chiude qui. Perché, qualche versetto oltre, si racconta che Dio confeziona per l’uomo e la donna delle tuniche. Sono il segno che non li abbandonerà e la sua premura per loro non verrà mai meno. La loro uscita dal Paradiso segna il punto di partenza della sua corsa per ricostruire una relazione, per riprendere il sentiero dell’alleanza. Dio è un nostalgico della comunione e si fa cocciuto e non si dà pace finché l’uomo non torna ad arrendersi a lui senza altre scorciatoie. Per questo sceglie di esserci (IHWH, il suo nome, è proprio la declinazione del verbo essere al passato, al presente e al futuro), per questo si farà Emmanuele, Dio-con-noi, un Dio-che-sta. Gesù non avrà paura a scendere nei fossati dove la storia si fa tanfo, non teme di calcare i prosceni molto prosaici della vita dei peccatori, non teme di farsi loro compagno, e soprattutto dà la sua vita per loro proprio perché, di fronte ad un amore così, l’uomo possa smettere di avere paura di Dio e possa scegliere di lasciarsi abbracciare.

Un’ultima nota, come una conclusione. Questo sogno di Dio ha preso forma perché un uomo ha scelto di farlo suo. I sogni dei giusti correggono il tiro della storia di peccato, anticipano le coordinate del Regno. Andiamo alla ricerca dei profeti per metterci in ascolto dei loro sogni. Diamo spazio ai nostri sogni più autentici per essere una caparra di un mondo dove l’alleanza fra il cielo e la terra segna l’inizio di un mondo nuovo.

domenica 19 maggio 2013

Pentecoste

Mi chiedi chi è lo Spirito…e io ti chiedo di aprire gli occhi, di indagare oltre l’apparenza, di non pensare che la realtà di riduca alla banalità di una formula razionale. Riposa per un attimo nella prospettiva del poeta che sa cogliere il tutto in un frammento, chiedi al profeta il suo cannocchiale che rende a portata di mano il futuro. E allora capirai non solo chi è lo Spirito ma ti accorgerai che è la forza che muove il mondo e, oltre i naufragi apparenti che dimorano sulla superficie, è la corrente sotterranea che ci sta portando verso il Regno.
Mi chiedi come fai a trovare queste lenti per vederlo all’opera…me lo chiedi perché i tuoi occhi si sono fatti miopi e ti sembra di dimorare in un tempo in cui prevale la disperazione, l’amarezza, la paura, il disincanto che ti ha fatto scordare le illusioni e non ti permette di scommettere più su nulla… La Parola di oggi è il sestante che ti permette di individuare la presenza dello Spirito, è come una grammatica per darti le coordinate del suo agire. E allora ti accorgerai che, ieri come oggi, lo Spirito è fuoco che scioglie il gelo del cuore e fonde ogni durezza; è vento che spinge la vela della tua vita; è colomba e sotto le sue ali trovi riparo; è sorgente freschissima che disseta la tua traversata nel deserto della vita.

-          Spirito è la Speranza che irrompe proprio quando il gioco sembra essere arrivato alla fine. Spirito è sorpresa, Spirito è capacità di rompere separazioni e costruisce ponti.
Questo me lo suggerisce la lettura di Atti. Erano chiusi in quel cenacolo, rattrappiti in paure e forse nella paura più grande, quella di aver buttato via la vita dietro ad un inganno. Al tramonto di un giorno che solo in apparenza era uno da aggiungere allo scorrere ineluttabile del tempo, in una stanza chiusa, lo Spirito sobbalza le loro coscienze. Al tornello della loro disperazione, Dio si dà nuovamente appuntamento con loro, proprio in un luogo e in un tempo che non immaginavano. Perché è proprio di Dio scrivere una riga in più quando noi mettiamo un punto definitivo su alcuni capitoli della nostra esistenza. E da quella stanza escono con un coraggio rinnovato. Parlano anche altre lingue. Ogni uomo deve sentire la Speranza che è rifiorita. Il muro che li separava dal mondo ora si fa ponte che li pone in comunicazione con tutti.
Quando senti che è finita, quando pensi di aver svenduto anche l’ultimo fiammifero che ti poteva scaldare è allora che lo Spirito entra nella stanza della tua disperazione e ti mette le ali. Quando hai voglia di barricarti dietro alle tue convinzioni e pensi che non ci sia più nulla o nessuno di buono per cui giocarti allora lo Spirito ti impone di andare oltre le tue stesse forze e trama con te una storia nuova di comunione.     

-          una Chiesa secondo lo Spirito è la casa dove la diversità è segno di bellezza.
È Paolo nella sua lettera ai Corinti a dirlo. Una volta che nella comunità si dà la comunione nella fede e ogni tuo fratello riconosce in Gesù il Signore, non devi avere più paura della diversità del tuo fratello: le differenze diventano varietà dei carismi e dei doni. E a te non è tolto nulla ma la ricchezza dell’altro, partecipata a te, rende anche te più ricco. La comunità è come i colori dell’arcobaleno: è lo steso raggio di luce che si fraziona in essi. La comunità è come una cordata: si è tutti in salita verso una meta unica ma ognuno ha il suo ruolo e non è vero che guida è più importante di chi sta nel mezzo o di chi deve chiudere. Quando nella comunità prevale l’omologazione che ti impone la maschera, quando in nome dell’unità si svilisce la diversità, quando non si sa più valorizzare il carisma anche del più piccolo dei fratelli, quando, per gelosia, si corregge con tono moralistico chi ti cammina accanto solo perché non comprendi il suo dono, allora impoveriamo la Chiesa e le imponiamo un respiro decisamente corto e affannato.

-          Lo Spirito rende presente in noi il Padre e il Figlio, lo Spirito lotta per noi, in noi e, talvolta, contro di noi per difendere la nostra chiamata ad essere come Gesù in tutto.
Questo brano di Giovanni, contestualizzato nel Cenacolo, durante l’Ultima Cena, racconta di cosa Gesù ci lascia ritornando al Padre: il comandamento dell’Amore. Amare l’altro e amare l’Altro sono il segno di chi ha conosciuto lui. Ma Gesù ci lascia anche chi ci prende per mano e ci guida su questo cammino tutt’altro che semplice: lo Spirito appunto. Quando nella tua vita senti una forza che ti spinge a fare come Gesù, a non consumare cioè nella banalità i tuoi giorni, una voce che ti suggerisce di fare tutto in sua memoria, quando senti lavorare in te l’Amore e senti la forza di resistere allora lo riconosci: è lo Spirito appunto. E allora ti accorgi che non sei  tu a remare ma tu sei vela su cui soffia lo Spirito e così le cose più belle non le hai guadagnate con i tuoi sforzi ma sono doni che ti vengono messi proprio da lui fra le mani. E qui il pensiero va a chi ogni giorno incontro sulla mia strada, uomini e donne che sono veri e propri capolavori dello Spirito; ogni volta che canto che i cieli e la terra sono pieni della tua Gloria mi appaiono i loro volti: sono quelli che amano facendosi dono anche quando l’altro non lo merita, sono storie di madri e padri, storie di figli; sono i malati che fanno della loro sofferenza strumento di salvezza per qualcuno proprio come Cristo in croce; sono quegli educatori che si accorgono che dalla debolezza può nascere qualcosa di grande e partono dai più piccoli per ridisegnare il futuro del mondo.

domenica 12 maggio 2013

settima di Pasqua

La scelta liturgica di riportare la data dell’Ascensione al giovedì della VI settimana di Pasqua, a 40 giorni dalla Risurrezione, non solo ci fa ripercorrere la precisa scansione del tempo secondo il racconto del Nuovo Testamento ma ci permette in questa domenica di sostare ancora sul significato dell’Ascensione prima di avviarci alla celebrazione della Pentecoste.

L’Ascensione al cielo è la metafora che Luca utilizza per dire che Gesù ha smesso di apparire e di istruire i suoi e che è tornato alla gloria del Padre, lì da dove il suo Mistero ha preso forma. Nessun passaggio della sua vita è stato casuale, nemmeno la croce; nulla è stato un incidente di percorso, un qualcosa di non voluto, ma era parte del tracciato di una parabola che profumava d’amore: proprio per amore Dio ha deciso di farsi uomo, per amore ha camminato sulle nostre strade, ha permesso che la polvere della terra sporcasse i suoi piedi, per amore a un certo punto ha deciso di ritrarsi e di consegnarsi, per amore il Padre lo ha risuscitato perché il seme morendo, spezzandosi, soffrendo doveva portare frutto.

Sotto un’altra prospettiva poi l’Ascensione ci rivela che Gesù è un vero maestro, uno che intuisce che ad un certo punto bisogna ritrarsi e sparire perché il discepolo possa camminare sui suoi piedi e percorrere un tratto di strada più lungo. Ho letto da qualche parte che:
i figli sono come aquiloni, passi la vita a cercare di farli alzare da terra. Corri e corri con loro fino a restare tutti e due senza fiato. Come gli aquiloni finiscono a terra, e tu rappezzi e conforti, aggiusti e insegni. Li vedi sollevarsi nel vento e li rassicuri, presto impareranno a volare. Infine sono in aria: gli ci vuole più spago e tu seguiti a darne e a ogni metro di corda che sfugge dalla tua mano il cuore ti si riempie di gioia e di tristezza insieme. Giorno dopo giorno l'aquilone si allontana sempre di più e tu senti che non passerà molto tempo prima che quella bella creatura spezzi il filo che vi unisce e si innalzi, come é giusto che si sia, libera e sola Allora soltanto saprai di avere assolto il tuo compito.
Il discepolo ha fra le mani la cassetta degli attrezzi riempita di tutti gli strumenti necessari: ora toccherà a lui scegliere quali utilizzare per essere fedele a quel Vangelo che lo ha avvinto. E dovrà farlo con tutta la creatività necessaria.

La Parola mi sembra ci consegni almeno tre indicazioni per non smarrire la nostra verità di discepoli e apostoli, pellegrini chiamati a fare di Gesù la nostra vita per l’oggi, gettati nella storia per viverla come uomini avvinti dalla buona notizia.

1 avere la testa fra le nuvole. L’idea me la suggerisce Stefano nella lettura di Atti…mentre lo accusano, gli si lanciano contro, lo uccidono, tiene fisso lo sguardo al Cielo. Credo che il discepolo debba portare dentro di sé una nostalgia profonda per il Cielo. Di tanto in tanto ci dovrebbe afferrare la malinconia, ma che in realtà è un desiderio, di poter vedere il volto di Gesù, di un giorno in cui la storia arriverà non alla sua fine ma al Fine che è l’incontro con un Signore buono che è tenerezza, perdono, misericordia. Ma non solo: avere la testa fra le nuvole significa avere la capacità di relativizzare ogni cosa sul parametro dell’eterno. C’è un relativismo che è dannoso ma ce n’è uno che ha ispirato la gioia dei santi, che ha smosso le follie degli uomini di Dio che profumavano di futuro e che agli occhi dei loro contemporanei erano solo dei perdenti. Infine, avere la testa fra le nuvole significa per il mondo inseguire un’isola che non c’è, lottare per un’utopia, avere una smodata passione per la poesia. Ma agli occhi di Dio significa darsi il parametro del Regno che già ora fiorisce sulla terra.

2 Testa fra le nuvole…ma piedi ben saldi a terra. Il credente, lo dicevamo prima, avanza di un miglio in più rispetto a chi lo ha preceduto perché asseconda la dinamica di un Regno che, pur se non ancora in modo definitivo, già cresce. E l’oggi attende uomini non disincarnati ma profondamente legati a questa terra, che, pur sapendo di non appartenerle, si sentono in dovere di lasciarla più bella di come l’hanno trovata. Uomini discepoli di un Maestro che si è incarnato nella storia e che ha continuato a incarnarsi sporcandosi sempre di più le mani con la storia. Il credente dunque parla di politica e magari la fa con il piglio di chi vuole servire, lotta per un’economia che sia etica, che non uccida la dignità dell’uomo, si interessa della sua città e non si tira indietro se qualcuno bussa alla sua porta, abbatte il muro dell’indifferenza perché sa che ogni uomo è suo fratello e ognuno ha diritto a piazzare i paletti della sua tenda nel suo cuore.

3 e infine, in particolare mi riferisco al Vangelo, il Maestro ci mette fra le mani un’altra consegna, luogo che deve diventare sempre più evidenza della nostra sequela a lui: la comunità. Una comunità e non semplicemente un gruppo perché la prima ha la forma della cordata mentre nel secondo c’è solo una meta comune e poco importa se ci si arriva assieme! Una comunità che deve portare come marchio di fabbrica quello brevettato a Casa Trinità dove i diversi si amano e l’uno è per l’altro; una comunità dove non posso pensare alla mia felicità senza quella dell’altro, dove accolgo l’altro non nonostante i suoi limiti ma a partire da questi, dove smaschero la mia debolezza nella certezza di essere amato per quello che sono, dove i piccoli sono realmente il cuore, la motivazione che attrae ogni scelta.

domenica 14 aprile 2013

terza domenica di Pasqua

Le letture di questa terza domenica di Pasqua – non dopo Pasqua, ricordiamo che la Liturgia ci sta facendo vivere quest’arco temporale come un unico grande giorno, un giorno di gioia perché questo è la caratteristica identificativa del credente – sono state sapientemente correlate e proprio nel loro insieme si coglie l’indicazione per il nostro cammino di fede.

Partiamo dal brano di Vangelo. Giovanni contestualizza i capitoli 7 e 8 del suo Vangelo a Gerusalemme e in particolare nel Tempio durante la festa delle Capanne, una settimana intera di riti e di preghiere con al centro le simbologie dell’acqua e della luce, per ringraziare Dio per la sua Provvidenza tangibile nell’abbondanza del raccolto, una prossimità non venuta meno anche nell’ora dell’Esodo lungo il cammino nel deserto, quando il popolo doveva stare sotto a delle tende, a delle capanne appunto. In questa festa era fortissimo il rimando all’attesa messianica, quando il tempo sarebbe arrivato alla sua pienezza, giorni in cui Dio preparerà una tavola con un banchetto squisito. Basta solo questo richiamo per comprendere la posizione di Gesù in questo dialogo che assomiglia, per la durezza delle posizioni di chi gli sta di fronte, ad un processo. Lui è la vera luce, lui è il compimento delle promesse, lui è l’acqua che disseta, lui è il segno della premura del Padre, lui è la certezza di una gioia che nasce dalla riconciliazione, lui è parametro di un mondo nuovo. Provo a sostare sull’immagine della luce. La luce, come quella dell’alba, avanza progressivamente e, mentre cresce, riesci a cogliere i contorni di cosa ti sta attorno e di chi ti circonda. La verità che si rivela ha proprio questo avanzare progressivo. Dio non si impone mai, non fa mai violenza alla libertà della sua creatura, e di lui solo poco a poco puoi cogliere i tratti del suo volto. C’è una dinamica, un movimento di progressivo avvicinamento di Dio a te. La fede non è adesione ad un sistema rigido. Ma anche il tuo progressivo cammino di affidamento e di scoperta di una nuova prospettiva sul mondo e su di te. La fede conosce dunque anche gli stalli, le brusche frenate, i passaggi in cui sembra di aver smarrito le coordinate. Ma alla luce si può anche opporre resistenza, ci si può sottrarre. Se io sigillo le finestre della mia casa la luce anche del sole d’estate non potrà entrare. Io posso rintanarmi nelle mie posizioni, non lasciarmi dire da Dio, preferire il mio orizzonte al suo, posso arroccarmi nel mio modo di vedere le cose. È proprio quello che accade a questi uomini che hanno già pronunciato una condanna, che preferiscono il loro sistema, hanno rifiutato la testimonianza di Gesù e hanno deciso di escluderlo dal loro mondo perché il suo Vangelo è troppo inquietante, ha la pretesa id ridisegnare i confini dell’uomo e del mondo nella logica della povertà e del servizio che non si risparmia per amore in nulla. Il loro no, sappiamo, diventa violenza cieca, grido che mette a tacere il Vangelo, esclusione di Gesù, giudizio impietoso senza essersi lasciati interrogare. E Gesù accoglie come un seme che deve cadere in terra e morire il loro giudizio. Si lascia mettere fuori, escludere, sapendo che l’amore, per essere vero e credibile, non può non comprendere anche la dimensione della sofferenza e del dono definitivo di sé.

Ma proprio qui si innesta il contributo del racconto di Paolo a Roma in Atti e della sua Lettera ai Romani. Quel seme, quella testimonianza solo in apparenza naufragata nel fallimento, ora fiorisce nel cuore del mondo di allora, a Roma. C’è un percorso carsico che è proprio della storia della fede: quando sembra che tutto sia finito, che non ci sia più spazio per il futuro della fede, il Vangelo esplode con forza oltre un confine inimmaginabile. Perché basta un solo discepolo che accoglie la Parola e si lascia avvincere permettere mano alla rivoluzione della storia. E anche questo rifiorire della Parola è presagio della risurrezione! Paolo sa sfruttare la sua condizione di prigioniero agli arresti domiciliari per non tacere il Vangelo ma per annunciarlo a tutti quelli che lo vogliono conoscere e incontrare.  Anche Paolo darà la sua vita, ricalcherà le orme del suo Maestro e anche lui sarà seme che muore, pronto a consegnare la sua testimonianza a qualcun altro. E così la corsa della fede non si è mai arrestata e bussa al nostro cuore proprio questa sera.

Una Parola così ci interroga anzitutto sulla nostra fede. Come mi pongo di fronte alla luce che è Gesù. Io posso sottrarmi come lasciarmi conquistare. La vita, soprattutto quando si accumulano le frustrazioni o il disincanto fa da padrone, può progressivamente ripiegarsi e chiudersi. A volte capita di masticare rabbia e amarezza e convincerci che in noi e attorno a noi non cambierà mai nulla. Credere nella risurrezione, come stiamo dicendo noi stasera, ci obbliga però al contrario. Se lasci che la luce entri nelle zone d’ombra del tuo cuore, negli angoli più sigillati, se lasci che la logica del Vangelo sia un raggio anche nelle retrovie di questa storia allora dai il via ad una rivoluzione che sovverte i parametri del mondo, ma del tuo innanzitutto!
Non avere paura a raccogliere fra le mani il testimone della fede. La testimonianza, quando è giocata in autenticità, quando è coerente, quando incrocia la vita e la interpreta sul serio, è una sorgente che disseta. Magari non te per primo ma sicuramente qualcuno che ti sta accanto. Ogni parola vera, ogni lacrima versata per il Vangelo, ogni scelta, anche quelle più semplici, vissute per non tradire il Signore non andranno mai perdute ma sono in potenza un mondo nuovo.  E così anche tu diventi luce per qualcuno. Seme che per amore si abbandona alla terra ma che presto rivivrà in evidenza limpida!